
Ora che ho finito anche questo terzo capitolo della trilogia Millennium (la chiamiamo così solo per la prematura dipartita del suo autore, che pare avesse in realtà progettato una saga di dieci volumi) mi sento in dovere di dire che il povero Stieg Larsson è divenuto parte della mia vita: il suo stile freddo e monocorde alla fine mi è divenuto familiare e non poteva essere altrimenti, avendomi tenuto compagnia (con le dovute pause) per ben sei mesi (tanto è trascorso dal momento in cui mi sono deciso a prendere in mano il famigerato Uomini che odiano le donne). Questo La regina dei castelli di carta comincia esattamente dove finiva il precedente La ragazza che giocava col fuoco, riprendendone la struttura da thriller spionistico: dopo aver affrontato l’ira e la vendetta del padre Alexander Zalachenko che l’ha addirittura sepolta viva dopo averle sparato in testa, Lisbeth Salander è soccorsa dalla polizia e ricoverata in ospedale in fin di vita. Qui viene però raggiunta dall’accusa di tentato omicidio da parte dello stesso Zalachenko, una spia russa che ha chiesto di essere protetto di Svezia, ma quest’ultimo viene ucciso da chi lo ha protetto in passato e non vuole che gli aspetti più sporchi della politica estera svedese vengano alla luce, ovvero la Sezione, ramo deviato e criminale della Säpo, i servizi segreti svedesi, che sperano inoltre, con l’aiuto del corrotto dottor Teleborian, di eliminare definitivamente la scomoda testimonianza della ragazza facendola rinchiudere in manicomio. Il giornalista Mikael Blomkvist, sempre pronto a dare una mano con un bell’articolo di denuncia, non abbandona l’amica al suo destino e, questa volta con l’aiuto della redazione di Millennium, di sua sorella avvocato che ha assunto la difesa di Lisbeth e di un poliziotto non corrotto (l’indomita Monica Figuerola, nel frattempo divenuta l’amante dello stesso Blomkvist), scopre la verità e prepara lo scoop del secolo, non senza qualche difficoltà. Come al solito lunghissimo e tutto teso a far venire alla luce un’altra immagine della Svezia, molto meno simpatica e progressista di quanto siamo abituati a pensare (anche da loro ci sono i servizi segreti deviati e la corruzione, così come una giustizia che spesso difende il più forte), questo terzo capitolo si rivela moderatamente appassionante e inficiato da una struttura ipertrofica che ne dilata i tempi all’inverosimile: moltiplica situazioni e personaggi (invero abbastanza credibili) e indugia nelle trame secondarie (come le avventure di Erika Berger allo Svenska Morgon Posten dove si trova a subire le molestie di uno stalker) fino a generare un senso di smarrimento che si risolve (fortunatamente) nel pirotecnico finale quando tutti i nodi psicoanalitici e i complotti vengono al pettine e si assiste a momenti narrativamente molto forti come il processo a Lisbeth (che si trasforma in una pubblica esecuzione di Teleborian, che entra come accusatore e che esce da accusato, con tanto di proiezione in aula del video dello stupro di Lisbeth da parte dell’infame tutore Bjurman, evento cardine del primo capitolo della trilogia) e il confronto finale tra Lisbeth e il fratello (quello che soffre di analgesia congenita, cioè non può provare dolore e quindi è di fatto invincibile), con la ragazza che ha la meglio grazie a un’inchiodatrice automatica che spara chiodi. Ovviamente, non bisogna commettere l’errore di pensare che Larsson si sia calmato: la maggior parte degli uomini odiano ancora le donne e la società sembra incapace di coltivare normali rapporti affettivi, essendo permeata da un grado di violenza intollerabile che, in alcuni frangenti, sembra giustificare una risposta della stessa natura (e per questo, alla fine, il bene costituzionale deve trionfare, con una bella assunzione di responsabilità da parte di Lisbeth, personaggio fondamentale e simbolico di tutta la vicenda). Dopo le statistiche sulla violenza sulle donne in Svezia e gli assiomi trigonometrici, questa volta le sezioni del romanzo sono introdotte da brani storici sulle donne guerriere della mitologia come le Amazzoni.