giovedì 29 dicembre 2011

George R.R. Martin - Il grande inverno

«Quando si gioca al gioco del trono, o si vince o si muore». Questa è la frase emblema (pronunciata dalla perfida e degenerata regina Cersei Lannister) del secondo volume del primo capitolo delle Cronache del ghiaccio e del fuoco di George R.R. Martin, saga tornata prepotentemente sotto i riflettori grazie alla recente serie televisiva Game of Thrones (che ha dimostrato quanto un’operazione televisiva ben fatta può fungere da volano per la letteratura). Il grande inverno (titolo totalmente inventato dalla Mondadori, che per oscure ragioni di politica editoriale ha spezzato tutti i volumi originali in due o più parti) si propone quindi di portare a compimento la narrazione de Il trono di spade, troncato sul più bello esattamente a metà, per la precisione dopo il ferimento del valoroso Eddard Stark e il massacro dei suoi uomini a opera di Jaime Lannister, mentre la moglie Catelyn ha consegnato alla sua folle sorella il terzo fratello Lannister, il folletto Tyrion. Insomma, se nessuno ha letto il primo volume, è del tutto inutile che cominci a leggere questo. Le caratteristiche, ovviamente, sono le medesime: una saga fantasy che di fantasy ha poco o nulla se non l’ambientazione medievaleggiante (eccezion fatta per il finale con l’evocazione dei draghi e un bizzarro sistema di circolazione delle informazioni, affidato a dei corvi viaggiatori che vanno e vengono in ogni parte del reame), pochissima azione ma molti intrighi (ma questa volta il sangue inizia a scorrere), assenza di un protagonista principale ma una moltitudine di personaggi ottimamente caratterizzati, la totale assenza di distinzione tra buoni e cattivi, con i ruoli che si invertono continuamente (l’eroe si tramuta il giorno dopo in traditore e viceversa). Per di più, la stessa narrazione dal punto di vista di otto personaggi (uno per ogni capitolo) non fa che aumentare il senso di frammentazione e moltiplicare i punti di vista, con un notevole scavo psicologico. Forse un solo personaggio si distacca dal quadro di fondo: Eddard Stark, detto Ned, il tipico cavaliere onorevole e coraggioso, che non scende a compromessi e per questo condannato da subito a soccombere nella guerra per il trono, nella quale tutti cercano di ottenere il potere con qualsiasi mezzo («Ti porti addosso l’onore come se fosse un’armatura, Stark» spiega il subdolo Ditocorto. «Tu credi che ti tenga al sicuro, ma tutto quello che fa è pesarti sulla schiena e impacciarti i movimenti»). È la sua triste vicenda ad avviarsi verso l’inevitabile conclusione, dopo che il suo amico re Robert muore a caccia (incidente o macchinazione?) e il regno passa nella mani dell’odioso minorenne Joffrey e di sua madre Cersei, con una tale esasperazione dei rapporti politici che alla fine il regno si ritrova con tutti i feudatari in guerra contro il clan Lannister (mentre il figlio di Ned, Robb, si afferma come nuovo lord di Grande Inverno, temuto e rispettato). Al contempo, come nell’altro volume, assistiamo alla storia di Daenerys Targaryen, passata da inerme ragazzina a khaleesi del popolo dei Dothraki (guerrieri nomadi della steppa che vivono in una terra al di là del mare e si distinguono per la loro efferatezza, di saccheggio in saccheggio), ora tra l’altro liberata dell’invasato fratello Viserys e resasi conto di essere la vera discendente del drago. Per il resto, Martin conosce bene le regole della serialità e frustra qualsivoglia speranza di conclusione, anche parziale, quindi per sapere come evolveranno le cose si dovrà per forza andare avanti con gli altri volumi e non ci viene detto nulla sui minacciosi Estranei che vivono al di là della Barriera nelle terre del selvaggio Nord (ma l’azione si focalizza unicamente sul difficile apprendistato del figlio bastardo di Ned Stark, Jon, ora diventato Guardiano della Notte). Al prossimo capitolo…

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