George R.R. Martin - Il grande inverno
«Quando
si gioca al gioco del trono, o si vince o si muore». Questa è la frase emblema (pronunciata
dalla perfida e degenerata regina Cersei Lannister) del secondo volume del
primo capitolo delle Cronache del
ghiaccio e del fuoco di George R.R. Martin, saga tornata prepotentemente
sotto i riflettori grazie alla recente serie televisiva Game of Thrones (che ha dimostrato quanto un’operazione
televisiva ben fatta può fungere da volano per la letteratura). Il grande inverno (titolo totalmente
inventato dalla Mondadori, che per oscure ragioni di politica editoriale ha
spezzato tutti i volumi originali in due o più parti) si propone quindi di
portare a compimento la narrazione de Il
trono di spade, troncato sul più bello esattamente a metà, per la
precisione dopo il ferimento del valoroso Eddard Stark e il massacro dei suoi
uomini a opera di Jaime Lannister, mentre la moglie Catelyn ha consegnato alla
sua folle sorella il terzo fratello Lannister, il folletto Tyrion. Insomma, se
nessuno ha letto il primo volume, è del tutto inutile che cominci a leggere
questo. Le caratteristiche, ovviamente, sono le medesime: una saga fantasy che
di fantasy ha poco o nulla se non l’ambientazione medievaleggiante (eccezion
fatta per il finale con l’evocazione dei draghi e un bizzarro sistema di circolazione
delle informazioni, affidato a dei corvi viaggiatori che vanno e vengono in
ogni parte del reame), pochissima azione ma molti intrighi (ma questa volta il
sangue inizia a scorrere), assenza di un protagonista principale ma una
moltitudine di personaggi ottimamente caratterizzati, la totale assenza di distinzione
tra buoni e cattivi, con i ruoli che si invertono continuamente (l’eroe si
tramuta il giorno dopo in traditore e viceversa). Per di più, la stessa
narrazione dal punto di vista di otto personaggi (uno per ogni capitolo) non fa
che aumentare il senso di frammentazione e moltiplicare i punti di vista, con
un notevole scavo psicologico. Forse un solo personaggio si distacca dal quadro
di fondo: Eddard Stark, detto Ned, il tipico cavaliere onorevole e coraggioso,
che non scende a compromessi e per questo condannato da subito a soccombere nella
guerra per il trono, nella quale tutti cercano di ottenere il potere con
qualsiasi mezzo («Ti porti addosso l’onore come se fosse un’armatura, Stark» spiega il subdolo Ditocorto. «Tu credi che ti tenga al sicuro, ma tutto quello
che fa è pesarti sulla schiena e impacciarti i movimenti»). È la sua triste
vicenda ad avviarsi verso l’inevitabile conclusione, dopo che il suo amico re
Robert muore a caccia (incidente o macchinazione?) e il regno passa nella mani
dell’odioso minorenne Joffrey e di sua madre Cersei, con una tale esasperazione
dei rapporti politici che alla fine il regno si ritrova con tutti i feudatari in
guerra contro il clan Lannister (mentre il figlio di Ned, Robb, si afferma come
nuovo lord di Grande Inverno, temuto e rispettato). Al contempo, come nell’altro
volume, assistiamo alla storia di Daenerys Targaryen, passata
da inerme ragazzina a khaleesi del
popolo dei Dothraki (guerrieri nomadi della steppa che vivono in una terra al
di là del mare e si distinguono per la loro efferatezza, di saccheggio in
saccheggio), ora tra l’altro liberata dell’invasato fratello Viserys e resasi
conto di essere la vera discendente del drago. Per il resto, Martin
conosce bene le regole della serialità e frustra qualsivoglia speranza di
conclusione, anche parziale, quindi per sapere come evolveranno le cose si
dovrà per forza andare avanti con gli altri volumi e non ci viene detto nulla sui
minacciosi Estranei che vivono al di là della Barriera nelle terre del
selvaggio Nord (ma l’azione si focalizza unicamente sul difficile apprendistato
del figlio bastardo di Ned Stark, Jon, ora diventato Guardiano della Notte). Al
prossimo capitolo…
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