
Tra le pubblicazioni irrinunciabili per tolkieniani di ferro rispolverate in occasione dell’uscita del film Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato (visto dal sottoscritto, al momento in cui scrive, già quattro volte), è doveroso segnalare la riedizione in tascabile brossurato, da parte di Bompiani, de Lo Hobbit annotato, già uscito anni fa in cartonato rilegato con una traduzione curata da Oronzo Cilli (che tentò di uniformare il testo al Signore degli Anelli) e ormai fuori catalogo da parecchio tempo. Si tratta di una versione realizzata da Douglas A. Anderson nel 1988 per commemorare il cinquantesimo anniversario della pubblicazione americana del libro e che si pone come una lettura veramente irrinunciabile, adatta anche a chiunque voglia cimentarsi per la prima volta con una lettura del romanzo che faccia intuire fin dall’inizio quanto si possa andare oltre nella conoscenza del testo e del mondo che esso rappresenta. Non è un’edizione critica, né di un libro di saggistica o critica letteraria, ma il romanzo così come noi lo conosciamo (nella nuova traduzione di Caterina Ciuferri, la stessa della versione illustrata da Alan Lee, sempre edita da Bompiani) con un’esaustiva introduzione che spiega come Lo Hobbit fu scritto, pubblicato e accolto dalla critica e dal pubblico, nel Regno Unito e negli Stati Uniti, e di come Tolkien sviluppò il personaggio dello hobbit che viveva in un buco della terra (idea avuta in un noioso pomeriggio mentre correggeva i compiti di esame) e incominciò a delineare un’avventura: la storia di come il signor Bilbo Baggins, un hobbit benestante della Contea, si trovi coinvolto in una rischiosa missione verso la Montagna Solitaria, nel tentativo di aiutare una compagnia di nani a recuperare il tesoro rubato loro da un drago chiamato Smaug. Lungo il percorso, Bilbo e compagni incontrano troll, elfi, orchi, ragni giganti, un mutatore di pelle che da uomo può trasformarsi in un orso gigantesco e un essere piccolo e viscido, Gollum, che possiede un oggetto molto prezioso: un anello magico che conferisce l’invisibilità a chi lo porta. Saggiamente, Anderson non si addentra nell’analisi dei rapporti tra Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli, ma considera il primo (che, ricordiamolo, è una delle favole più diffuse nel mondo anglosassone, e non solo quello) come un’opera a sé stante, quindi non come un antefatto del secondo. Il valore aggiunto del libro è la corposissima serie di annotazioni a bordo pagina che approfondiscono la vita di Tolkien e i collegamenti con le sue altre opere ed evidenziano le modifiche apportate nel corso delle edizioni o le opinioni dello stesso autore al riguardo: si contano numerosi ripensamenti sui nomi dei personaggi (all’inizio lo stregone Gandalf si chiamava “Bladorthin”, mentre il capo dei nani, che noi conosciamo come Thorin, era in origine chiamato “Gandalf”) e su parti del testo rese più scorrevoli, per non parlare delle modifiche sostanziali apportate da Tolkien rispetto al testo del 1937 per rendere il tutto più omogeneo con quanto narrato nel Signore degli Anelli: è il caso del personaggio di Gollum, che fu riveduto per adattarsi alla vera natura dell'Unico Anello e portò a corpose modifiche dell’intero quinto capitolo, “Indovinelli nell’oscurità”, la cui prima versione (nella quale Gollum prometteva a Bilbo un regalo se avesse dovuto vincere al gioco ma poi, tornato sul suo isolotto, scopriva che il suo regalo era sparito e giungeva perfino a scusarsene) divenne poi la prima versione dei fatti data da Bilbo ai nani e Gandalf già sotto il potere dell’Anello. Numerose sono anche le note relative a ciò cui Tolkien si ispirò nello scrivere il testo o delinearne i personaggi: quadri, poesie, nursery rhymes, romanzi e racconti letti in gioventù, il corposo materiale della letteratura norrena, luoghi della sua infanzia o adolescenza: scopriamo, per esempio, che Bag End (Vicolo Cieco), il nome del luogo della casa di Bilbo Baggins, era il nome del luogo dove sorgeva la fattoria della zia di Tolkien nel Worcestershire, situata in fondo a un viottolo che arrivava fino a quella casa e non proseguiva oltre, e che la valle di Gran Burrone, così come l’ha illustrata Tolkien, presenta notevoli somiglianze con la zona intorno a Lauterbrunnen in Svizzera, che lo scrittore visitò nel 1911. Anche il viaggio di Bilbo e dei nani fin al di là delle Montagne Nebbiose è basato su una sua escursione durante quella trasferta, rotolamento di massi compreso. Vi sono anche frequenti osservazioni di natura linguistica sui termini adoperati o creati da Tolkien, ma il volume è impreziosito soprattutto da oltre 150 illustrazioni, prese dalle varie edizioni del romanzo pubblicate nel mondo (alcune delle quali definite orribili da Tolkien) o che raffigurano disegni e schizzi (in origine a colori, qui in bianco e nero) dello stesso Tolkien relativi a specifici passi del racconto. Ci sono anche molte poesie (sempre di Tolkien) che si ricollegano in qualche modo ad alcuni aspetti (o personaggi) del libro, ma le note più frequenti riguardano quanto scritto da Tolkien nel corso degli anni in relazione al Signore degli Anelli e ai suoi personaggi: si tratta in gran parte di estratti dalle sue lettere, ma anche di considerazioni basate su quanto riferito nella biografia di Tolkien scritta da Carpenter o in The road to Middle-Earth di T.A. Shippey. Molto interessante è l’inserimento, alla fine del volume, della Cerca di Erebor, un racconto di come si sono originate le vicende narrate nel libro e che doveva inizialmente costituire una delle Appendici del Signore degli Anelli: scopriamo che l’intera vicenda dei nani (promossa da Thorin) è andata da subito a genio a Gandalf per mettere al sicuro il Nord dagli orchi e soprattutto dal drago Smaug, che sarebbe potuto essere utilizzato da Sauron (il Signore Oscure del Signore degli Anelli e nello Hobbit conosciuto come “il Negromante”) per attaccare le roccaforti elfiche di Lorien e Gran Burrone. Inoltre, lo stregone intendeva istruire gli hobbit sui pericoli del mondo (senza dimenticare il particolare che il drago non aveva mai sentito il loro odore e questo avrebbe costituito un vantaggio, almeno all’inizio) e per farlo decise di partire da una persona a cui piacesse viaggiare e fosse curiosa e ben disposta verso avventure anche pericolose (pur a sua insaputa): Bilbo costituiva un perfetto esempio di quello che voleva Gandalf, portando in sé la stravaganza dei Tuc e la solidità dei Baggins. Il fatto che non si fosse mai sposato e che avesse voluto rimanere “libero” «per quale motivo più profondo che lui stesso non riusciva a capire o piuttosto a riconoscere», pronto a partire «appena ne avesse avuto l’accasione, o quando fosse riuscito a trovare il coraggio di farlo», è un bellissimo particolare che ancor più certifica la concezione cattolica di Tolkien di una “chiamata” per la vita di ognuno.