sabato 24 marzo 2012

Brian Selznick - La straordinaria invenzione di Hugo Cabret

Nonostante gli unanimi apprezzamenti raccolti ovunque (ma non alla serata degli Oscar), soprattutto da parte dei critici (di cui sarebbe sempre meglio diffidare), Hugo Cabret di Martin Scorsese per me è stato una mezza delusione. Pur non arrivando a dire che sia brutto (ci mancherebbe), l’ho trovato un film pieno di difetti, a partire dal ritmo spesso carente e da caratterizzazioni non molto indovinate, soprattutto per quel che riguarda i personaggi di contorno (gli anziani della stazione, la storia d’amore tra la fioraia e l’ispettore ferroviario reduce di guerra). Ora che ho preso in mano il romanzo originale scritto da Brian Selznick (pronipote di quel Selznick che produsse molti capolavori hollywoodiani) da cui è stato tratto il film, la rivelazione: i comprimari sono stati tutta farina del sacco di Scorsese (l’ispettore ferroviario c’è ma è solo una presenza minacciosa che interviene nel finale come pericoloso antagonista). La storia originale riguarda solo la vicenda di Hugo Cabret, un dodicenne che vive da solo in una stazione ferroviaria di Parigi. Il padre è morto e lo zio ubriacone (che lo usa per aiutarlo a regolare tutti gli orologi della stazione) è sparito, quindi il poverino deve nascondersi nell’incubo per non rivelare che vive da solo e finire in orfanotrofio: cerca di rimettere in sesto un misterioso automa (perno su cui poggia l'intera vicenda) che il padre ha portato a casa e ha bisogno di alcuni pezzi per essere messo a punto. Pezzi (rotelle e ingranaggi) che Hugo ruba dal negozio di uno strano signore, anziano e un po’ stanco della vita, che altri non è che Georges Méliès, uno dei padri del cinema che però vuole dimenticare completamente il suo passato da cineasta (è stato dimenticato nonostante il suo ruolo di pioniere) e per questo non intende assolutamente aiutare il piccolo Hugo nel suo tentativo di rimettere in funzione l’automa. C’è poi la figlia adottiva dell’anziano signore, Isabelle, con cui Hugo fa amicizia e affronta la scoperta del mistero che c’è dietro l’automa e il misterioso George Méliès. Una favola che, senza pretese, intende essere una riscoperta del cinema delle origini (che è un tutt’uno con la magia e l’illusionismo) attraverso gli occhi di un bambino sfortunato e bisognoso di affetto, che sa sognare perché ha paura e apprezza il cinema perché sa sognare. È però anche qualcosa di più, dal momento che Selznick ha deciso di realizzare uno strano romanzo, metà scritto e metà disegnato, con i disegni in bianco e nero che scorrono come le sequenze di un film muto e che (udite udite) sono usate per una narrazione autonoma al posto della parola scritta anziché come semplici illustrazioni: insomma, bisogna aspettarsi che molti passaggi siano raccontati solo attraverso le immagini, prima che le parole riprendano il loro corso. Verrebbe la pena di leggerlo anche solo per questo.

Nessun commento:

Posta un commento