sabato 25 agosto 2012

Terry Pratchett - La luce fantastica

Avevamo lasciato il turista Duefiori e il suo accompagnatore, il mago Scuotivento, scaraventati oltre il Bordo del Mondo Disco a bordo di una navicella per scoprire il sesso della tartaruga cosmica A’Tuin. Li ritroviamo in questo secondo romanzo della serie, che riprende e conclude le vicende raccontate nel precedente Il colore della magia e si configura come l’unico romanzo di Terry Pratchett a essere il seguito di un altro. Questa volta i maghi della città di Ankh-Morpok scoprono che il Mondo Disco sta per essere distrutto da una stella rossa in avvicinamento a meno che non vengano letti gli incantesimi contenuti nel libro dell’Octavo, un potente libro di incantesimi che, «con caratteristica sbadataggine, il Creatore dell’Universo si è dimenticato di portarsi via dopo aver terminato la sua grande opera». L’ottavo incantesimo non si trova però nel libro, bensì nella mente di Scuotivento (impedendogli la memorizzazione di tutte le altre formule magiche) e il povero mago da strapazzo (che sta «alla magia come una bicicletta a un calabrone») viene inseguito dagli altri maghi («non più malvagi di, diciamo, un comitato del normale Rotary Club»), capeggiati da Trymon, che impazzisce nel tentativo di imparare gli altri sette incantesimi e stabilisce con la sua mente un passaggio per le Dimensioni Sotterranee, da cui cercano di fuggire le più orribili e strampalate creature demoniache. La trama è tutta qui, con i nostri eroi che, nell’avvicinarsi allo scontro finale con Trymon, attraversano una serie di avventure che li conducono nella casa di marzapane della strega delle fiabe (qui dovuta alla Scuola di Architettura Pasticcera), nel cottage dove abita la Morte (che gioca a Bridge con Fame e Pestilenza) e nella terra dei troll, nel consueto stile demenziale e smitizzante (ma, è bene chiarirlo, mai sbracato) di Pratchett. A differenza del predecessore Il colore della magia, che a conti fatti era una raccolta (molto riuscita) di racconti legati solo dagli stessi protagonisti, questo capitolo ha una trama più unitaria e compatta, addirittura non suddivisa in capitoli (interrogato sul perché di questa abitudine, Pratchett spiega che la vita non è normalmente divisa in capitoli), nonostante le digressioni e le parentesi (per la quasi totalità assurde). Oltre allo stile, punto fermo è la solita cosmogonia sarcastica e smitizzante che prevede degli dei «litigiosi e alquanto borghesi» che vivono in un palazzo di marmo in suite di tre locali di alabastro, «la cui idea di un’esperienza artistica esaltante era un campanello a carillon». Tra i personaggi, fa la sua comparsa il bibliotecario orango dell’accademia della magia, mentre tornano Morte (che parla sempre in maiuscolo, a suggerire un tono solenne e monocorde, nonostante la vena sarcastica) e il bagaglio di Scuotivento, un baule magico senziente con moltissimi piedi e una grande bocca dentata, che segue ovunque il suo padrone fungendo da guardia del corpo. Come per il predecessore, non mancano le citazioni che irridono con classe il genere e chiamano in causa il Necronomicon di Lovecraft (con tutta una serie di libri maledetti come il Necrotelicomnicon, «con le sue pagine fatte di pelle di antica lucertola», il Libro del Giro Intorno all’Undecimo, «scritto da una misteriosa e alquanto pigra setta lamaica», e il Grande Teatro Comico Grimoire, che contiene «presumibilmente l’unica burla originale rimasta nell’universo») e l’heroic fantasy di Robert E. Howard con il suo personaggio più famoso, Conan il barbaro, qui nelle vesti di Cohen il barbaro, un vecchio novantenne sdentato che, sebbene ancora prestante e arzillo, non accetta il passare degli anni (diverse sono le situazioni di parodia nei confronti del film, in particolare il famoso «Qual è il meglio della vita?», ma la risposta in questo caso è «Acqua calda, un buon dentista e carta igienica morbida»), ma è ugualmente noto per la sua abitudine di salvare fanciulle in pericolo, sgominare malvagi sommi sacerdoti di culti oscuri e saccheggiare antiche rovine, per non parlare della sua rivale, la rossa Herrena, parodia di Red Sonja (per chi non avesse dimestichezza coi fumetti del nerboruto cimmero, basta dire che è la protagonista del film Yado). Decisamente consigliato, nonostante la pessima traduzione italiana.

giovedì 9 agosto 2012

Peter Freestone (con David Evans) - Freddie Mercury. Una biografia intima

Nel mio soffermarmi su quel vero e proprio sottogenere che sono le biografie su Freddie Mercury (scritte da amanti, collaboratori e conoscenti, ognuno con il proprio punto di vista più o meno interessato), ero convinto che con questo ennesimo volume, scritto dal suo storico assistente personale e ripubblicato in veste degna da Arcana (dopo una fugace edizione pirata di Lo Vecchio tradotta coi piedi), si rasentasse il fondo del barile. Fortunatamente, mi sbagliavo. Ai non informati il nome di Peter “Phoebe” Freestone dirà poco o nulla, ma i fan di Mercury sanno perfettamente trattarsi di colui che, dall’ottobre del 1979, per dodici anni, non si allontanò mai di qualche metro di distanza dal cantante dei Queen. Da costumista del Royal Ballet di Londra, Freestone si ritrovò a rivestire i panni di segretario, valletto, maggiordomo, guardia del corpo, uomo delle pulizie, amico e confidente (ma non troppo) e, negli ultimi tristi giorni, perfino di infermiere. È chiaro che il buon Peter non è uno scrittore (e per questo è coadiuvato da tale David Evans) e che alcune cose sono state scritte apposta per ingolosire i fan (com’è logico, il Freddie privato vende molto di più del Freddie artista), quindi resta pur sempre il dubbio se tutto questo sia uno squallido lucro o se risponda invece a una precisa volontà di condividere determinati particolari con una comunità di adoratori leali e sinceri. Nei panni di biografo, Freestone tenta di sfatare miti e leggende su Freddie e, pur non evitando i soliti particolari sulla vita sregolata (l’assidua frequentazione di locali gay, il consumo di cocaina), mantiene sempre un certo riserbo sulle modalità di divertimento della star. Il suo tono è sempre pacato e rispettoso, quasi diplomatico e senza giudizi morali (completamente diverso da quello del passionale Jim Hutton, ultimo amante di Freddie e autore di un’altra biografia) tanto che la sua unica preoccupazione sembra essere quella di dimostrare di aver sempre fatto bene il suo lavoro, di essersi guadagnato sul campo la fama di “angelo custode” del cantante. In alcuni punti riesce a essere di una noia mortale (specie nel caso dei capitoli sulle preferenze culinarie del suo datore di lavoro o quelli dedicati a Garden Lodge, che Mercury aveva arredato personalmente, con la descrizione delle suppellettili e perfino della biancheria) e il suo stile è abbastanza caotico nel saltare di palo in frasca da un aneddoto all’altro (qualcuno è veramente divertente, come nel caso dell’incontro con Michael Jackson, con Freddie con i pantaloni sporchi di fango e schifato dall’idea di essere colpito dagli sputi dei lama del minizoo privato che fu costretto a visitare), ma nel complesso cerca di offrire un punto di vista diverso e finalmente convincente di alcuni aspetti della vita di Freddie, dal suo modo di lavorare alle tensioni con gli altri membri della band, dal modo di concepire le copertine degli album alla realizzazione dei videoclip. Se ne ricava un’impressione di grande creatività (spesso eccentrica, ma sempre coerente) e una dedizione al mestiere veramente encomiabile che faceva di Freddie un leader in studio di registrazione e sul palco, capace di raccogliere e perfezionare tutte le proposte provenienti dai colleghi (e molto si capisce del perché gli altri membri dei Queen, in particolare Brian May e Roger Taylor, non hanno più prodotto una nota decente da quel 24 novembre 1991, data della morte del cantante). Altri particolari rivelatori sono la sua straordinaria iperattività (non leggeva libri per non perdere tempo e odiava annoiarsi), la sua concezione del sesso (attività separata dall’amore e spensierata, da praticare senza grandi implicazioni emotive) e la sua tendenza a provocare litigi e dissapori con qualcuno per caricarsi prima di esibirsi dal vivo, senza dimenticare la sua infinita generosità verso amici, amanti e conoscenti, molti dei quali si approfittarono di lui in maniera indecente e spudorata, tanto che nel libro ricorre spesso ricorre spesso il titolo di una canzone dei Queen, Another One Bites The Dust, a scandire la caduta nella polvere di quanti tradirono l’affetto di Freddie. Della lunga fila di volti noti e meno noti che Freestone rievoca in ogni pagina, pochissimi furono però, per volontà dello stesso Mercury, ammessi a stargli vicino negli ultimi giorni di vita, forse per risparmiare loro la vista della sua costante e inarrestabile decadenza fisica dopo aver condiviso con loro risate e bevute. Chiude una serie di commenti personali e scherzose sulle varie persone che sono state citate nel libro. Insomma, niente di trascendentale, ma se siete fan dei Queen, dateci un’occhiata.