domenica 18 novembre 2012

Thomas Hardy - Tess dei d'Urbervilles

Uno dei risvolti positivi (se così si può dire) dell’orrido Cinquanta sfumature di grigio è stato il ritorno di moda del romanzo Tess dei D'Urbervilles di Thomas Hardy, tema di un saggio universitario della protagonista Ana Steele e regalatole in una preziosissima prima edizione dall’innamorato dominatore Christian Grey, che avrà avuto anche i soldi ma che dimostrava indubbiamente di conoscere anche il mercato dei libri antichi. Io Tess ce l’avevo in casa da anni e avevo anche provato due volte a leggerlo, ma mi aveva sempre respinto: ora, a prezzo di due mesi di passione, posso dire soddisfatto di avercela fattaAmbientato nel Wessex, nome fittizio per indicare quell'area a sud-ovest dell'Inghilterra chiamata Dorsetshire nel quale Hardy era cresciuto, utilizza il tema dell’aspirazione frustrata all’ascesa sociale come fattore scatenante della macchina romanzesca: quando il padre di Tess Durbeyfield, contadino povero e ubriacone con una famiglia dissestata, scopre grazie al parroco di essere discendente di un’antica famiglia di conquistatori normanni, i d’Urberville (di cui Durbeyfield sarebbe la bastardizzazione), questi spinge la figlia a reclamare la parentela con la vera famiglia d’Urberville (senza sapere che questa è una famiglia di nuovi ricchi che proviene da un’altra parte del Paese dove ha comprato il nome per apparire più rispettabile). Qui Tess subisce la violenza (o la seduzione, dal momento che la scena non è descritta ma lasciata all’immaginazione del lettore) del “cugino” Alec, rifiuta gli accomodamenti, economicamente vantaggiosi, da lui proposti, resta incinta e perde il bambino malaticcio che le nasce, e decide di ricostruirsi un’esistenza autonoma, accettando un lavoro durissimo in un caseificio. Qui incontra Angel Clare, figlio di un predicatore con tendenze alla ribellione che ha rifiutato di seguire le orme del padre e sta imparando a fare l’agricoltore: contro la disapprovazione della famiglia i due si innamorano e si sposano. Tess tenta invano di confessargli la violenza subita, ma per una serie di impedimenti la confessione avviene solo dopo il matrimonio e prima della prima notte di nozze: Angel (che ha convissuto a Londra con una donna più adulta) reagisce alla rivelazione del segreto non annullando il matrimonio, ma abbandonando la moglie con vaghe promesse di una possibile futura riconciliazione e trasferendosi nientemeno che in Brasile. Tess, di nuovo sola, è per giunta costretta a farsi carico della sempre più difficile situazione della famiglia, ma rifiuta di chiedere aiuto alla famiglia di Angel e di riconciliarsi con Alec, che, nel frattempo, ha avuto una crisi di coscienza e le propone una convivenza, facendole anche credere nella morte di Angel. Il finale drammatico (Angel che torna e scopre l’amata che convive mantenuta dall’uomo che già è la causa della sua tristezza, Tess che uccide Alec, i due sposi che fuggono, Tess che viene arrestata presso una delle pietre di Stonehenge, l’esecuzione finale) è il degno corollario alla serie di catastrofici eventi che avvengono alla povera protagonista, che paga con la sua vita il tentativo dei genitori di aver voluto sfidare il fato tentando di cambiare classe sociale e spezzando così l’equilibrio uomo-natura. Un romanzo plumbeo e disperato, senza alcuna possibilità di speranza o di redenzione, caratterizzato da un estremo pessimismo, assertore dell’inutilità della religione (Angel appartiene a una famiglia di pastori evangelici, lo stesso Alec a un certo punto sembra essersi redento grazie alla predicazione) e della crudeltà della natura nella vita degli uomini, con un immanentismo che fa perdere ogni potere all’individuo, insignificante di fronte alle insidie del mondo e alla legge del più forte (non è un caso che l’unico elemento soprannaturale sia la leggenda nera della carrozza dei d’Urberville, il cui suono può essere udito solo da un discendente di sangue, che racconta il delitto di un antico membro della famiglia che ha cercato di rapire una fanciulla) e un uso impersonale del paesaggio (il Wessex), che allo stesso tempo ospita e respinge i personaggi che lo abitano e diventa uno specchio delle loro anime. Certo, c’è un pizzico di denuncia sociale circa l’impossibilità per le donne conquistare la loro autonomia in simili condizioni, ma il tutto (come la nera bandiera che viene issata nel finale sulla valle) fa piombare in un desolante senso di sconforto. Poi, cosa c’entri tutto questo con 50 sfumature di grigio, bisognerebbe chiederlo direttamente a Erika Leonard…

venerdì 16 novembre 2012

Hilaire Belloc - Gli Ebrei

Diciamoci la verità: questo Hilaire Belloc, grande letterato, saggista, amico di G.K. Chesterton e uomo politico franco-inglese di fede cattolica, non lo conosce proprio nessuno. Non l’avevo mai sentito nominare nemmeno io, che mi sono trovato a curare la riedizione di questo suo controverso pamphlet intitolato Gli Ebrei, pubblicato a Londra nel 1924 ma uscito in Italia solo dieci anni più tardi a sostegno delle teorie nazifasciste di segregazione razziale. Una pregiudiziale mica da ridere, insomma, con l’aggiunta dell’adesione a una serie di classici stereotipi antisemiti piuttosto diffusi all’epoca, anche se è bene precisare che lo stesso Belloc chiarisce di non essere antisemita e che, anzi, alcuni dei suoi migliori amici sono ebrei (con i quali, sempre a suo dire, non si sente minimamente a disagio). Addirittura, spende un intero capitolo a denunciare e persino ridicolizzare l’antisemitismo in quanto mania e fanatismo che porta a immaginare gli ebrei responsabili di tutti i mali del mondo, dalla diffusione di capitalismo e bolscevismo alle sconfitte belliche. Invece di negare l’esistenza di una “questione ebraica”, come ai suoi tempi era già di moda fare, Belloc cerca di capirla e di risolverla, magari non riuscendoci, ma analizzando le problematiche religiose e politiche sollevate dall’azione dell’ebraismo militante in Europa. Non fa sconti a nessuno ed elargisce responsabilità a tutto campo, comprese quelle di alcune comunità ebraiche che per una certa opinione pubblica già ai suoi tempi erano intoccabili ma che in realtà si misero in conflitto con le società che ospitavano e legittimavano. Il suo particolare punto di vista presuppone che gli ebrei (nonostante i loro tentativi di fingersi dei normali cittadini) sono un corpo estraneo rispetto alla civiltà occidentale e non sono in alcun modo assimilabili, tanto da invitare gli Stati europei a prendere provvedimenti legislativi per sancire una discriminazione di questa minoranza che, in nome di una pretesa superiorità, nutre una naturale indifferenza per il sentimento nazionale e trama nella segretezza per realizzare i propri interessi sovranazionali (riassumibili in una sola sinistra entità: la finanza). La soluzione proposta dall’autore è quindi quella non della persecuzione o dell’eliminazione, bensì quella della “segregazione amichevole”, da lui definita come il riconoscimento tanto da parte degli ebrei quanto dei non ebrei di una cittadinanza ebraica separata, quasi fossero degli stranieri in patria. Una teoria, insomma, molto opinabile, che però va contestualizzata nella temperie culturale e politica dei difficili anni nei quali fu scritto (evidente anche dal tono e dal linguaggio utilizzato). Andando al di là dell’opinione personale di Belloc, ci si può rendere conto di quanto egli, nell’analizzare il montare dell’odio e della propaganda antisemita in Europa, sia stato in realtà profetico nell’anticipare le persecuzioni naziste, sostenendo chiaramente che, se non si fosse fatto qualcosa, l’ostilità sarebbe presto passata dalle parole ai fatti, fino a giungere alla previsione che la costituzione di uno Stato sionista in terra palestinese avrebbe sollevato un conflitto con i musulmani dell’area del Vicino Oriente. A patto di non lasciarsi fuorviare e avvelenare il fegato per motivazioni ideologiche, una lettura che, nonostante molti particolari non condivisibili, potrebbe rivelarsi addirittura interessante.

giovedì 8 novembre 2012

Robert Hugh Benson - Il trionfo del Re

Secondo romanzo di Benson per il sottoscritto, e seconda gradita sorpresa. Dopo aver curato l’edizione italiana de I necromanti (nel frattempo uscito, neanche a farlo apposta, anche per Lindau con il titolo Gli stregoni), sempre per Fede & Cultura ho curato l’uscita di questo Il trionfo del Re,  scritto dal suo autore nel 1908, due anni dopo la conversione al cattolicesimo dell’autore, e primo di un’ipotetica trilogia da lui dedicata alla storia delle persecuzioni religiose in Inghilterra (gli altri due sono Con quale autorità, edito da BUR, e Come rack! Come rope!, traducibile con Vieni ruota! Vieni forca!, di cui a questo punto spero di curare l’edizione italiana). Come sempre, preciso che parlo qui di libri curati da me esclusivamente se già editi e pubblicati da altri, di cui magari mi trovo a curare l’edizione italiana, non solo per evitare qualsiasi conflitto d’interesse ma soprattutto per mantenere una certa onestà intellettuale (ed evitare di parlare bene o male di un libro dell’editore per cui lavoro). Nello specifico, questo romanzo si iscrive in pieno nella mia passione per il periodo Tudor ed è ambientato all’epoca della Riforma religiosa operata da Enrico VIII in seguito al suo innamoramento per Anna Bolena e alla decisione di dichiarare nullo il suo matrimonio con Caterina d’Aragona. Ma questo è solo lo sfondo alla vicenda narrata, che è invece imperniata sulla storia di due fratelli di famiglia aristocratica in conflitto tra loro, Christopher e Ralph Torridon, il primo sacerdote fedele a Roma e intenzionato a rispettare la sua vocazione fino alle più estreme conseguenze, il secondo ambizioso e servo del potere alle dipendenze del potente Cancelliere Thomas Cromwell, vero artefice della graduale distruzione e spoliazione dei monasteri cattolici in nome di una pretesa “purificazione” della religione. Pur di fare carriera, e in ossequio a una fanatica fedeltà al suo ideale, Ralph arriva a sopprimere la sua coscienza e l’amore della donna che ama (una vicenda quanto mai attuale e per certi versi profetica, visto cosa sarebbe successo nel corso del Novecento che, quando Benson scriveva, era solo agli albori), prima dell’inevitabile crisi di identità e di fede che colpisce tutti i fedeli esecutori di persecuzioni. Un romanzo storico che utilizza il dramma familiare per sviluppare una storia di amore, intrigo, vocazione e martirio, del tutto priva di giudizio e condanna nei confronti dei persecutori ma, anzi, piena di umana comprensione e divina redenzione: cattolico militante e neoconvertito, Benson rievoca personaggi celebri del periodo come l’arcivescovo corrotto Cranmer e le sante figure del Cardinale Fisher e di Thomas More (che Ralph viene incaricato di spiare e di cogliere in fallo per avere qualsiasi appiglio di condanna), martiri che pagarono con la vita il loro rifiuto di appoggiare la separazione del re da Caterina d’Aragona. Forse oggi a livello di struttura può sembrare un po’ statico a livello di situazioni e per la sua struttura prevalentemente domestica, ma il libro è decisamente godibile e ha diverse frecce al suo arco, prima tra tutte la figura femminile di Beatrice Atherton, degna anticipatrice di Margaret Deronnais de I necromanti e prototipo dell’innamorata cristiana che non è disposta a cedere di un millimetro sul piano dei principi bensì a dare la sua vita per salvare il suo amato attraverso la preghiera; non bisogna però dimenticare scene importanti come l’attacco al priorato cluniacense di Lewes in seguito al rifiuto dei monaci di riconoscere formalmente le ragioni del re contro il papa, e il magistrale incontro finale alla presenza del temuto e gigionesco sovrano (Enrico VIII), terribile e iroso ma fondamentalmente menefreghista e arrogante, capace di ridere in faccia ai problemi di coloro che gli sono intorno e che per o contro di lui hanno dato la loro vita, simbolo supremo di un potere che ha perso del tutto la sua funzione.