
Tolkien di destra o di sinistra? Una discussione sterile ma feconda in Italia, Paese estremamente provinciale dove Tolkien, totalmente ignorato dalla sinistra, ha conosciuto una connotazione decisamente politica per essere stato adottato dalla destra e dai suoi intellettuali (mentre altrove, per esempio in America, Gandalf e Frodo divennero campioni degli hippie e della controcultura; “Gandalf for President” e “Frodo lives”, dicevano gli slogan), e le sue sorti sono state condizionate da mistificazione, snobismo e confessionalismo. Finalmente le cose hanno incominciato a cambiare e ci sono degli autori come Wu Ming 4 che, nonostante la militanza a sinistra, è un tolkieniano di ferro che sa il fatto suo e si è già occupato del professore di Oxford nel suo saggio L’eroe imperfetto, nel romanzo Stella del mattino (dove Tolkien è uno dei personaggi) e nell’edizione critica de Il ritorno di Berhtnoth figlio di Beorhthelm. Ora ha fatto uscire questo nuovo saggio (illustrato) che è una rielaborazione di scritti già apparsi sul blog “Giap” dei Wu Ming e seminari e conferenze da me già conosciute attraverso l’ascolto dei podcast del collettivo come Il Tolkien immaginario dei fascisti italiani e Messer Holbytla. L’eroe, il giardiniere e il perfetto gentilhobbit. L’ho aspettato con impazienza, l’ho comprato il giorno stesso in cui è uscito e l’ho divorato in due giorni. Credo sia uno dei più bei libri su Tolkien che abbia mai letto: profondo, adulto, completo, serio, competente e documentato (l’apparato di note costituiscono già di per se stesse un libro), un atto di amore incondizionato nei confronti dello scrittore inglese. Il titolo, Difendere la Terra di Mezzo, pone subito la questione: difenderla da cosa? Innanzitutto da chi continua a reputare la creazione letteraria di Tolkien un qualcosa privo di valore e la svilisce a puro espediente commerciale, come accaduto all’indomani della pubblicazione del Signore degli Anelli che, agli occhi della paludata critica contemporanea, apparve del tutto avulsa dal contesto contemporaneo perché contraddiceva le linee guida della narrativa tracciate fin dagli Venti e anzi pretendeva di restituire un senso all’esistenza attraverso l’epica e il mito, creando un universo fantastico antico e fantastico (attraverso un immane lavoro di cesello, vito che Tolkien lavorò al suo mondo dal 1916 al 1973, anno della sua morte). Ecco quindi che questo professore filologo, innamorato delle parole al punto da inventarsi le lingue prima delle sue storie (perché era convinto che le parole non fossero meri strumenti del racconto, ma in qualche modo lo contenessero), fu negletto e ridotto al ruolo di infantile escapista, abbarbicato a una visione fideistica, antimoderna e moralistica che si opponeva a quella di chi aveva decretato la dissoluzione del romanzo e stabilito che l’uomo contemporaneo (citando Musil) era senza qualità perché i suoi valori erano incerti e infondati tanto quanto la conoscenza della verità. Nessuno considerò mai l’ipotesi che gli hobbit fossero l’innovativa risposta alle grandi questioni etiche ed estetiche del XX secolo poste dalla rivoluzione modernista: l’opera di Tolkien parla infatti del mondo reale e i suoi personaggi sono estremamente contemporanei e vicini a noi, «in grado di parlare a una civiltà post-cristiana come quella attuale». Se quest’opera di costruzione di mondi fantastici non avesse a un certo punto visto comparire gli hobbit, eroi molto moderni, non avrebbe avuto lo tesso tipo di successo: gli hobbit infatti sono solo una parte di questo mondo, ma rappresentano la parte che presta lo sguardo al lettore contemporaneo e gli permette un’identificazione. Inoltre, la concezione della letteratura in Tolkien (comunità, gioco, incantesimo, possibilità partecipativa e co-narrazione) va nella direzione opposta rispetto all’idea contemporanea della netta separazione tra l’autore che produce ed esprime il genio individuale e il lettore che giudica l’opera, ed è uno dei motivi di successi del fandom tolkieniano: i lettori si sentono incoraggiati a partecipare alla sub-creazione, tanto è vero che, nella maggior parte dei casi, i prodotti di fan fiction, di videogiochi al cosplay, sviluppano direttamente il materiale e gli spunti messi a disposizione da Tolkien stesso. Wu Ming 4 prova quindi a mappare (a grandi linee) le influenze di Tolkien nella cultura pop del Novecento, in saghe cinematografiche come Star Wars e nella letteratura: Tolkien ha alcuni grandi “discepoli” (Stephen King, Neil Gaiman, Ursula K. Le Guin, George R.R. Martin) che lavorano sul fantastico e che dichiaratamente lo riconoscono tra i loro padri letterari anche se hanno intrapreso altre strade, ed è un imprescindibile termine di paragone anche per quegli autori che lo criticano, come Michael Moorcock e Philip Pullman, ma rimangono ancorati a un fronteggiamento che sembra impedire una loro completa emancipazione (in quanto, come ha detto George R.R. Martin, «Il Signore degli Anelli è una montagna che si staglia su ogni altra opera di fantasy scritta prima e dopo»). Wu Ming dice però che bisogna difendere la Terra di Mezzo anche da un altro rischio, da chi la concepisce come utopia, luogo ideale e manifesto ideologico-culturale, perché, «laddove la ragione dorme e il simbolismo prospera, muore la letteratura»: è il caso della destra italiana e delle sue letture “simbolistiche” di Tolkien sul modello delle interpretazioni di Julius Evola, che pongono l’accento su tratti distintivi tipici come la spiritualità iniziatica, il neopagano, il vittimismo, l’esclusivismo e la Tradizione, in maniera del tutto decontestualizzata dal contesto storico-letterario, e finiscono per ritrarre un Tolkien intento a dialogare soltanto con gli antichi attraverso rimandi e simboli eterni privati di significato. Ma è anche il caso del simbolismo di stampo confessionale e catechistico, ancorato ai testi sacri e alla teologia cattolica, che forza l’opera di Tolkien in chiave allegorico-morale e apologetica, cosa peraltro sempre rifiutata da Tolkien stesso, che più volte spiegò come la simbologia cristiano-cattolica nella sua opera può essere colta solo come un’eventuale fonte d’ispirazione ma viene poi declinata all’interno di una trama che la cambia e la sovverte (anche se Tolkien era un cattolico tradizionalista ed era effettivamente permeato di valori e principi cristiani come la pietà, la provvidenza e l’umiltà). Nell’ottica di restituire l’autore a se stesso, nella seconda parte del libro Wu Ming 4 riporta Tolkien all’interno del suo tempo e nel solco della letteratura vittoriana ed edoardiana, perché nulla si può comprendere della poetica tolkieniana se si prescinde dal contesto estetico e culturale al quale lo scrittore attinse. Tolkien riflette gli scenari romantici ottocenteschi, figli di un’ottica tanto anti-modernista quanto completamente moderna: la stessa Contea (luogo in cui abitano gli hobbit) non vagheggia chissà quale mondo perduto medievale o un’utopia sociale o ecologica, ma si inserisce nel solco dei grandi romanzieri dell’Ottocento inglese (Jane Austen, George Eliot, le sorelle Brontë, Thomas Hardy) che hanno raccontato il lato oscuro dell’Inghilterra rurale ed è diretta figlia di un immaginario ben preciso, la campagna riconoscibile nei dipinti di John Constable e di altri pittori romantici inglesi, un’elegia pastorale nella quale i poeti della generazione di Tolkien cercarono rifugio dagli orrori della Prima Guerra Mondiale (la prima guerra tecnologica della storia). La Contea non è un luogo mitico e felice, perché Tolkien ne mette in luce anche gli aspetti negativi: la stessa Terra di Mezzo è un luogo ibrido di incontro e scontro tra modernità e antichità, dove vengono collocati i grandi problemi dell’evo moderno. Anche i suoi personaggi (che non sono affatto stereotipati, perché partono da archetipi narrativi e mitici ma poi cambiano e si evolvono nel corso della trama) presentano una dialettica strana tra il seguire un’autorità positiva e il ribellarsi. Nel capitolo Hobbit ed ethos, il più bello forse di tutto il libro, Wu Ming 4 analizza le varie vie del coraggio che Tolkien sembra suggerire e si dimostra convinto che nel canone tolkieniano sia ben presente una riflessione narrativa sulla necessità di disobbedire in certi frangenti all’autorità, con una profonda e continua esaltazione del libero arbitrio: quando si cessa di farlo, sembra dire Tolkien, si inizia il cammino della corruzione. A ribadire l’attualità dello scrittore inglese e la sua lettura dialettica, in Appendice al volume è posto un saggio del grande filologo Tom Shippey, autore di alcuni dei saggi più importanti e famosi su Tolkien, che tratta della rappresentazione delle classi sociali nel Signore degli Anelli: lo fa da filologo, confrontandosi con il testo e le parole, e giunge a concludere che questa rappresentazione c’è, con un conflitto e uno scambio tra modelli sociali antichi e moderni.