
Nella rilettura costante e quasi fanatica che mi ritrovo a fare delle opere di Tolkien non poteva mancare una puntata su Lo Hobbit, da me nuovamente affrontato nella splendida edizione rilegata Bompiani illustrata da Alan Lee con la nuova traduzione (di cui ho già parlato QUI nel caso della sua variante economica e che, tra le altre cose, trasforma fortunatamente l’“abbacchio” mangiato dai tre troll in “montone”), insomma niente di nuovo a parte la lussuosa confezione, ma è bene dire che la rilettura è la prima dopo numerose visioni del film di Peter Jackson e che il modo in cui mi approccio a questo romanzo è, per forza di cose, cambiato (nonostante le ormai innumerevoli riletture). Un racconto che comincia come una fiaba, con tutti gli elementi del caso (la mappa segreta, gli indovinelli, le magie, gli uccelli parlanti) e la tipica struttura del racconto dell’eroe (che parte per un viaggio e torna con degli oggetti magici e una consapevolezza rinnovata), per poi trasformarsi piano piano, assumendo toni diversi, per culminare nella Battaglia dei Cinque Eserciti, una battaglia campale di carneficina, che non ha nulla di favolistico (e questo solo per sbugiardare quanti sostengono che Lo Hobbit è solo un libro per bambini, privo di particolare spessore). È fondamentale il punto di partenza, con la chiamata dell’eroe: Bilbo (che non è un nobile guerriero né un principe azzurro, ma una persona assolutamente comune) sulla soglia del suo buco hobbit, la sua tana confortevole, a metà tra lo stare e il partire, tra la casa paterna e la voglia di vedere l’ignoto. Vive nella casa paterna senza ancora fare niente, non ha una vita: è amorfo, è l’ombra di suo padre, ed è rispettabile nella Contea perché «si poteva presupporre l’opinione di un Baggins su un argomento qualsiasi senza darsi la pena di chiedergliela», il massimo del conformismo. Al suo interno è scisso tra una metà (quella Baggins, del padre) consuetudinaria e domestica che non vuole guai («Noi siamo gente tranquilla e alla buona e non sappiamo che farcene delle avventure. Son cose brutte, fastidiose e scomode! Fanno far tardi a cena!») e una metà avventurosa (quella Tuc, della madre) poco rispettabile. Gandalf è colui che legge il desiderio di partire sopito nell’animo dello hobbit, come del resto ha fatto tante volte in passato con altri, come ricorda lo stesso Bilbo («Il tipo che alle feste raccontava storie meravigliose, con draghi, orchi, giganti, e salvataggi di principesse, e inattese fortune di figlie vedove? […] Sei proprio il Gandalf che spinse tanti bravi ragazzi e ragazze a partire per l’Ignoto in cerca di pazze avventure?»). La parte Tuc rimane incantata dalla canzone dei nani, un ammaliante inno alla Montagna Solitaria, un racconto poetico sull’oro, i gioielli e un drago furioso, e Bilbo sente «fremere intorno a lui l’amore per le belle cose fatte a mano con abilità e magia» e si rende conto di voler «impugnare la spada invece del bastone da passeggio», tanto da addormentarsi quella notte con la musica ancora nelle orecchie. Decide di partire, ma si porta dietro tutti i suoi dubbi e continua per tutto il tempo a pensare alla sua casa, a metà strada tra l’andare avanti e al tornare indietro. Soprattutto nella prima parte del percorso verso la Montagna Solitaria, Bilbo è un compagno di viaggio tremendo: si lamenta di continuo per la fame, grida spaventato in momenti inopportuni, dandoci la possibilità di immedesimarci totalmente nella sua inadeguatezza e nella propria goffaggine. La prima volta che Bilbo da prova di autentico coraggio è quando i nani vengono catturati dai ragni giganti nella foresta di Boscotetro. Bilbo reagisce senza riflettere, uccidendo per la prima volta un ragno e si gonfia subito di orgoglio, dando al suo spadino elfico l’accattivante nome di “Pungolo”. Dopodiché, affronta un intero esercito di malvagi ragni parlanti e ne elimina a dozzine, liberando i suoi compagni e difendendoli mentre sono intontiti dal veleno mentre si ritirano in cerca di salvezza. Anche i suoi compagni di viaggio, i nani, hanno un’evoluzione nel corso della vicenda: partono come un gruppo bizzarro con i cappucci colorati e si trasformano in guerrieri, anche se sono dei personaggi strani e antipatici, che non hanno un rapporto lineare nei confronti dello hobbit (sono amichevoli quando Bilbo è utile per loro, invece brontolano quando lui non fa quello che vogliono loro), e il loro leader, Thorin Scudodiquercia, è un personaggio emblematico. Legato al mondo dell’onore e della lealtà, è però ossessionato dalla sua eredità paterna e si appassiona troppo al suo aspetto materiale (il problema dei nani è che si lasciano troppo contagiare dall’avidità e dal possesso di ricchezze), finendo di fatto per sostituirsi al drago nel possesso del tesoro. Non è solitario in questo contagio: gli uomini della Città del Lago accolgono i nani nella loro città a braccia aperte, eccitati dall’idea di veder scendere dalla Montagna Solitaria fiumi d’oro fino alla loro città di legno sul Lago Lungo. Il loro Governatore, però, non è tanto meglio: alla fine si appropria delle risorse destinate a sfamare le persone rimaste senza casa e fugge nelle Terre Selvagge, dove finisce per morire di fame. A questo contagio Bilbo è immune: a lui non interessa il tesoro, addirittura vuole una parte di ricchezze meno grande preoccupato dall’idea del trasporto e, nonostante l’ingegno mostrato in numerose circostanze (il trasporto dei nani dentro i barili, il colloquio con il drago Smaug), il suo obiettivo è sempre quello di portare a casa la pelle, cosa che non è necessariamente un difetto, come riconosciuto tra l’altro dallo stesso Thorin in punto di morte («In te c’è più di quanto tu creda, figlio delle miti terre d’Occidente. Ci sono coraggio e saggezza, mischiati in giusta misura. E fossero più numerosi tra noi coloro che preferiscono il mangiare, il ridere e il cantare all’accumulare oro, questo mondo sarebbe più lieto»). Tra l’altro, l’episodio della morte di Thorin è perfetto per coniugare il mondo nordico ed eroico (rappresentato dal nano) tanto caro a Tolkien e l’etica cristiana (Thorin si riconcilia con Bilbo chiedendogli perdono per le parole e le maledizioni che gli ha rivolto prima della battaglia). Una parola, infine, sulle illustrazioni: il grande formato e la carta esaltano gli acquerelli di Alan Lee (che erano già belli in edizione tascabile), semplici e complessi allo stesso tempo, in grado di cogliere perfettamente le atmosfere e le emozioni del romanzo, grazie ai toni delicati dell’ocra e del verde che descrivono i delicati paesaggi delle terre degli hobbit e degli elfi, e a quelli del rosso e del marrone che evidenziano i momenti paurosi e i tortuosi sentieri della Terra di Mezzo.