martedì 21 maggio 2013

J.R.R. Tolkien - Lo Hobbit (illustrato da Alan Lee)

Nella rilettura costante e quasi fanatica che mi ritrovo a fare delle opere di Tolkien non poteva mancare una puntata su Lo Hobbit, da me nuovamente affrontato nella splendida edizione rilegata Bompiani illustrata da Alan Lee con la nuova traduzione (di cui ho già parlato QUI nel caso della sua variante economica e che, tra le altre cose, trasforma fortunatamente l’“abbacchio” mangiato dai tre troll in “montone”), insomma niente di nuovo a parte la lussuosa confezione, ma è bene dire che la rilettura è la prima dopo numerose visioni del film di Peter Jackson e che il modo in cui mi approccio a questo romanzo è, per forza di cose, cambiato (nonostante le ormai innumerevoli riletture). Un racconto che comincia come una fiaba, con tutti gli elementi del caso (la mappa segreta, gli indovinelli, le magie, gli uccelli parlanti) e la tipica struttura del racconto dell’eroe (che parte per un viaggio e torna con degli oggetti magici e una consapevolezza rinnovata), per poi trasformarsi piano piano, assumendo toni diversi, per culminare nella Battaglia dei Cinque Eserciti, una battaglia campale di carneficina, che non ha nulla di favolistico (e questo solo per sbugiardare quanti sostengono che Lo Hobbit è solo un libro per bambini, privo di particolare spessore). È fondamentale il punto di partenza, con la chiamata dell’eroe: Bilbo (che non è un nobile guerriero né un principe azzurro, ma una persona assolutamente comune) sulla soglia del suo buco hobbit, la sua tana confortevole, a metà tra lo stare e il partire, tra la casa paterna e la voglia di vedere l’ignoto. Vive nella casa paterna senza ancora fare niente, non ha una vita: è amorfo, è l’ombra di suo padre, ed è rispettabile nella Contea perché «si poteva presupporre l’opinione di un Baggins su un argomento qualsiasi senza darsi la pena di chiedergliela», il massimo del conformismo. Al suo interno è scisso tra una metà (quella Baggins, del padre) consuetudinaria e domestica che non vuole guai («Noi siamo gente tranquilla e alla buona e non sappiamo che farcene delle avventure. Son cose brutte, fastidiose e scomode! Fanno far tardi a cena!») e una metà avventurosa (quella Tuc, della madre) poco rispettabile. Gandalf è colui che legge il desiderio di partire sopito nell’animo dello hobbit, come del resto ha fatto tante volte in passato con altri, come ricorda lo stesso Bilbo («Il tipo che alle feste raccontava storie meravigliose, con draghi, orchi, giganti, e salvataggi di principesse, e inattese fortune di figlie vedove? […] Sei proprio il Gandalf che spinse tanti bravi ragazzi e ragazze a partire per l’Ignoto in cerca di pazze avventure?»). La parte Tuc rimane incantata dalla canzone dei nani, un ammaliante inno alla Montagna Solitaria, un racconto poetico sull’oro, i gioielli e un drago furioso, e Bilbo sente «fremere intorno a lui l’amore per le belle cose fatte a mano con abilità e magia» e si rende conto di voler «impugnare la spada invece del bastone da passeggio», tanto da addormentarsi quella notte con la musica ancora nelle orecchie. Decide di partire, ma si porta dietro tutti i suoi dubbi e continua per tutto il tempo a pensare alla sua casa, a metà strada tra l’andare avanti e al tornare indietro. Soprattutto nella prima parte del percorso verso la Montagna Solitaria, Bilbo è un compagno di viaggio tremendo: si lamenta di continuo per la fame, grida spaventato in momenti inopportuni, dandoci la possibilità di immedesimarci totalmente nella sua inadeguatezza e nella propria goffaggine. La prima volta che Bilbo da prova di autentico coraggio è quando i nani vengono catturati dai ragni giganti nella foresta di Boscotetro. Bilbo reagisce senza riflettere, uccidendo per la prima volta un ragno e si gonfia subito di orgoglio, dando al suo spadino elfico l’accattivante nome di “Pungolo”. Dopodiché, affronta un intero esercito di malvagi ragni parlanti e ne elimina a dozzine, liberando i suoi compagni e difendendoli mentre sono intontiti dal veleno mentre si ritirano in cerca di salvezza. Anche i suoi compagni di viaggio, i nani, hanno un’evoluzione nel corso della vicenda: partono come un gruppo bizzarro con i cappucci colorati e si trasformano in guerrieri, anche se sono dei personaggi strani e antipatici, che non hanno un rapporto lineare nei confronti dello hobbit (sono amichevoli quando Bilbo è utile per loro, invece brontolano quando lui non fa quello che vogliono loro), e il loro leader, Thorin Scudodiquercia, è un personaggio emblematico. Legato al mondo dell’onore e della lealtà, è però ossessionato dalla sua eredità paterna e si appassiona troppo al suo aspetto materiale (il problema dei nani è che si lasciano troppo contagiare dall’avidità e dal possesso di ricchezze), finendo di fatto per sostituirsi al drago nel possesso del tesoro. Non è solitario in questo contagio: gli uomini della Città del Lago accolgono i nani nella loro città a braccia aperte, eccitati dall’idea di veder scendere dalla Montagna Solitaria fiumi d’oro fino alla loro città di legno sul Lago Lungo. Il loro Governatore, però, non è tanto meglio: alla fine si appropria delle risorse destinate a sfamare le persone rimaste senza casa e fugge nelle Terre Selvagge, dove finisce per morire di fame. A questo contagio Bilbo è immune: a lui non interessa il tesoro, addirittura vuole una parte di ricchezze meno grande preoccupato dall’idea del trasporto e, nonostante l’ingegno mostrato in numerose circostanze (il trasporto dei nani dentro i barili, il colloquio con il drago Smaug), il suo obiettivo è sempre quello di portare a casa la pelle, cosa che non è necessariamente un difetto, come riconosciuto tra l’altro dallo stesso Thorin in punto di morte («In te c’è più di quanto tu creda, figlio delle miti terre d’Occidente. Ci sono coraggio e saggezza, mischiati in giusta misura. E fossero più numerosi tra noi coloro che preferiscono il mangiare, il ridere e il cantare all’accumulare oro, questo mondo sarebbe più lieto»). Tra l’altro, l’episodio della morte di Thorin è perfetto per coniugare il mondo nordico ed eroico (rappresentato dal nano) tanto caro a Tolkien e l’etica cristiana (Thorin si riconcilia con Bilbo chiedendogli perdono per le parole e le maledizioni che gli ha rivolto prima della battaglia). Una parola, infine, sulle illustrazioni: il grande formato e la carta esaltano gli acquerelli di Alan Lee (che erano già belli in edizione tascabile), semplici e complessi allo stesso tempo, in grado di cogliere perfettamente le atmosfere e le emozioni del romanzo, grazie ai toni delicati dell’ocra e del verde che descrivono i delicati paesaggi delle terre degli hobbit e degli elfi, e a quelli del rosso e del marrone che evidenziano i momenti paurosi e i tortuosi sentieri della Terra di Mezzo.

sabato 18 maggio 2013

J.R.R. Tolkien - Le due torri

Seconda parte di questa nuova edizione economica del Signore degli Anelli edita da Bompiani con copertine in cartoncino con illustrazioni di Tolkien (una diversa per ogni volume) e angoli smussati, oltre che una traduzione riveduta e corretta che ha fatto sì che un capitolo come Erbe aromatiche e coniglio al ragù sia diventato Erbe aromatiche e stufato di coniglio. Sempre tenendo conto che vale quanto ho detto per la lettura del libro nella sua interezza (QUI per chi ne fosse interessato), vengo a parlare di questo Le due torri maggiormente nel dettaglio. Il romanzo inizia con la morte di Boromir, di cui non si vede l’uccisione da parte degli Uruk-hai, ma si riconosce il riscatto per aver tentato di proteggere gli hobbit Merry e Pipino: egli muore confessando il proprio peccato e chiede perdono ad Aragorn, che da parte sua rifiuta di abbandonare i due hobbit alle torture degli orchi e parte con il nano Gimli e l’elfo Legolas per una super maratona attraverso le pianure di Rohan, regno degli uomini signori dei cavalli, ben sapendo di essere all’inseguimento di un avversario dalla forza schiacciante. Le tracce conducono i tre cacciatori all’antica foresta di Fangorn, dove ritrovano il mago Gandalf, che appare loro trasfigurato e tornato dalla morte più forte di prima dopo la terribile esperienza di lotta con il Balrog («Sì, ora sono bianco. Anzi, sono Saruman, si può dire, Saruman come sarebbe dovuto essere»), e scoprono che il nemico da sconfiggere, subito, è lo stregone Saruman. I quattro compagni viaggiano fino a Meduseld, capitale di Rohan, dove liberano l’anziano re Théoden dal controllo esercitato su di lui da Saruman attraverso l’infido consigliere Grima Vermilinguo (che, attraverso le sue parole velenose, l’ha isolato e l’ha persuaso di non essere capace di fare più niente, facendogli sentire un invincibile languore). L’esercito di Rohan resiste all’attacco di Saruman al Fosso di Helm (teatro di uno scontro bellico narrato in pagine assolutamente epiche ma non così lunghe come si potrebbe pensare dopo la visione del film di Peter Jackson e tenendo conto dello stile pesantemente descrittivo di Tolkien) e lo stregone, sconfitto, viene rinchiuso prigioniero nella sua stessa fortezza-laboratorio di Isengard. Le sue lusinghe sono temibili fino all’ultimo, perché la sua voce è quella di un’innocente vittima che dice solo cose sagge, deliziose e razionali, pronta a offrire tutto l’aiuto possibile e la migliore amicizia che si potrebbe trovare, lasciando tutti gli altri nella consapevolezza di essere sciocchi e inadeguati, e solo Gandalf riesce, con una risata cristallina (una delle più belle risate della storia della letteratura), a spezzare l’incantesimo. Parte fondamentale nella caduta di Isengard l’ha però rivestita l’arrivo degli Ent, i pastori di alberi, guidati da Barbalbero: questi esseri antichissimi e quasi estinti (a causa della scomparsa delle Entesse) sono svegliate dal millenario torpore dall’arrivo, inaspettato, di Merry e Pipino che, scappati fortunosamente alla prigionia degli Uruk-hai proprio nella foresta di Fangorn, incontrano Barbalbero e lo convincono a combattere contro Saruman. Le pagine del loro incontro comunicano un senso di lentezza e un ritmo assolutamente atipico, in netta antitesi con la frenesia con cui, in contemporanea, il libro entra nelle fase più concitata, esattamente come la natura, che è lenta, cresce piano ed esiste da sempre, noncurante delle piccole vite degli uomini. L’Ent non ha mai sentito parlare di hobbit, gli hobbit non hanno mai sentito parlare di Ent, e il momento del loro incontro (con Barbalbero che cerca di annoverarli nelle antiche liste degli esseri viventi, senza peraltro riuscirci) è fatto di canzoni e poesie, amore e moria, lentezza e indifferenza. Sono spassose anche le pagine dedicate all’incontro tra i due hobbit intenti a fumare e riposare e il fiero Théoden, poco dopo la battaglia del Fosso di Helm, con quest’ultimo che non può fare a meno di dimenticare per un attimo le spaventose circostanze della guerra e scherza con i divertenti “Holbytlan” (come lui li chiama), mentre Gandalf lo avverte di non incoraggiarli, visto che si metteranno a chiacchierare impunemente sopra cumuli di rovine. Sono proprio questi esseri gaudenti e totalmente antieroici a scombinare gli schemi e gli eventi della Terra di Mezzo, come prova l’episodio del Palantír: la prima persona a prendere e usare la pietra veggente di Saruman è proprio Pipino, lo hobbit più sprovveduto e maldestro, che sorprende Sauron provocando un provvidenziale fraintendimento (Sauron immagina che sia lui il portatore dell’Anello). Tutto questo occupa però la prima metà del libro, quella più epica e che ha, più o meno, Aragorn al centro della vicenda, sempre più conscio della sua missione di erede al trono di Gondor: l’altra parte invece tiene il suo obiettivo unicamente su Frodo e Sam, che sono impegnati nel loro viaggio verso la terra di Mordor e incontrano il viscido Gollum, lo hobbit corrotto dal prolungato possesso dell’Anello che li sta inseguendo ormai da mesi per riconquistare il suo tesoro e che è scisso in una costante lotta tra due personalità (che Sam designa con i nomi di “Servile” e “Scurrile”). È una parte molto diversa da ciò che l’intera saga è stata finora: più livida e monocorde, meno movimentata e colorata, più ricca di dialoghi e più povera di personaggi, battaglie e colpi di scena. La storia si fa tutta interiore, aiutata dalla desolazione del paesaggio vicino a Mordor: Frodo è alle prese con l’Anello e la sua terribile malia e deve fare ricorso alla sua capacità di sacrificio, ma è impietosito da Gollum mentre Sam ne è disgustato e in qualche modo geloso. Insieme, tutti e tre attraversano le Paludi Morte, arrivano al Nero Cancello di Mordor e alla terribile città di Minas Morgul, infine salgono le scale dell’insidiosa torre di Cirith Ungol per valicare le montagne che li separano dalla meta finale e Frodo e Sam cadono nella trappola ordita da Gollum (che li fa passare per la tana dell’enorme ragno Shelob). Poco prima, lungo la strada, vengono catturati da Faramir, il fratello di Boromir, che potrebbe prendere per sé l’Anello e mandare a monte ogni piano di distruzione dello stesso. Invece, l’ardore che ha mosso le gesta di Boromir, la brama di impossessarsi dell’Anello nella convinzione di aiutare così il popolo di Gondor, è quanto di più lontano da ciò che alberga nell’animo di Faramir: senza macchia, senza ambizioni o brama di potere, e soprattutto senza quelle debolezze che contraddistinguono da millenni la razza degli uomini, Faramir è un uomo pio dotato dello spirito dell’ascolto. Il doppio positivo di Boromir, come Gandalf lo è di Saruman, e Théoden di Denethor. Ma di questo, ne parleremo presto, dopo la rilettura del Ritorno del re.

martedì 14 maggio 2013

Robert Hugh Benson - Vieni ruota! Vieni forca!

Lo dico con una certa fierezza: è il terzo libro di Benson di cui curo la pubblicazione dopo I Necromanti e Il trionfo del Re (sebbene continui a non aver letto la sua opera più famosa, Il padrone del mondo), tutti per Fede & Cultura. Del Trionfo del Re, questo Vieni ruota! Vieni forca! (titolo che riprende una frase del santo martire gesuita Edmund Campion, che compare anche nel romanzo) è, di fatto, l’ideale prosecuzione, ponendosi come terzo capitolo di un’ideale trilogia dedicata alla storia delle persecuzioni religiose in Inghilterra sotto la dinastia Tudor (il secondo capitolo è Con quale autorità, pubblicata dalla BUR), anche se è bene chiarire che si tratta di romanzi separati e autoconclusivi, leggibili indipendentemente come opere a sé. Questa volta, Benson ci porta nel Derbyshire durante il regno (illuminato e felice, almeno secondo la vulgata storica) di Elisabetta I e racconta la storia del giovane e caparbio Robin Audrey, innamorato e promesso sposo della virginale e timorata Marjorie Manners, pronto però ad abbandonare tutto diventare prete e partire per Reims una volta appurato che suo padre ha abiurato la fede cattolica per abbracciare quella riformata (e, di conseguenza, non pagare più la tassa imposta a tutti quelli che a quel tempo si rifiutavano di seguire la Chiesa di Stato). Ritornerà in Inghilterra molti anni dopo, sotto la falsa identità di Mr. Alban, come uno di quei sacerdoti che, accettando la persecuzione e la precarietà, misero a repentaglio la propria vita fino al martirio pur di portare i sacramenti alle famiglie che scelsero di rimanere cattoliche (i cosiddetti recusants), in un’epoca nella quale il tradimento era sempre dietro l’angolo (anche per mera opportunità economica) e, se si veniva scoperti, l’esito era essere torturati, impiccati e squartati (il termine tecnico era hanged, drawn and quartered, ed era riferito al supplizio inflitto al reato di alto tradimento e di offesa alla persona del sovrano). La sua amata Marjorie, invece, che non si è mai opposta al piano di Dio per la vita del suo amato e ha accettato la sua vocazione, svolgerà il ruolo di coordinatrice operativa dei sacerdoti, pianificando dove mandarli e offrendo loro ospitalità e nascondiglio. Pare che sull’accuratezza storica di Benson la critica si sia divisa (un suo grande ammiratore come Hilaire Belloc, per esempio, osserva che la sua ricostruzione è modellata più sul XIII secolo che sul XVI), tra chi sostiene che lo scrittore si sia attenuto alle fonti e chi invece lo accusa di un eccessivo taglio melodrammatico, e se vogliamo dirla tutta il suo stile di scrittore risulta piuttosto datato (il romanzo è del 1912), ma non è questo l’importante: a Benson interessa soprattutto celebrare l’eroismo e i sacrifici di quei campioni della fede che accettarono la persecuzione e, ciò nonostante, non fomentarono mai la disobbedienza civile alla regina, dal momento che il papa dell’epoca (Gregorio XIII) non aveva conferito a nessuno l’autorità di deporla né tantomeno di ucciderla e, anzi, anche i cattolici inglesi non persero il loro patriottismo (tanto che nel romanzo, quando si vocifera di una possibile invasione dell’Inghilterra da parte della flotta spagnola che rovescerebbe il regno di Elisabetta e libererebbe i cattolici, nessuno è contento di finire governato dal re di Spagna). È proprio Robin il simbolo di questa fede eroica e positiva che, a costo d’indicibili sofferenze, offre un fulgido esempio di fede a chi magari la fede l’ha persa (è il caso del padre di Robin), contrapponendosi alla visione più battagliera di cattolici come Babington, che mal tolleravano il giogo del terrorismo fisico, psicologico ed economico perpetrato dal regime elisabettiano, al punto di affermare che fosse meglio rispondere con la legge del taglione ed eliminare la radice di tutti i mali e di tutte le persecuzioni, la regina Elisabetta in persona, consegnando il trono alla regina di Scozia Maria Stuarda, e finirono così nella rete che Walsingham (capo del servizio di spionaggio del governo elisabettiano) e dello spietato scherano Topcliffe (persecutore e torturatore di cattolici) andavano intessendo per intrappolare la pericolosa regina di Scozia e che vide tra i suoi principali artefici il cattolico apostata Gilbert Gifford. Un romanzo da combattimento, ma autenticamente cattolico.