giovedì 8 agosto 2013

Emilio Lussu - Un anno sull'Altipiano

Una volta ho sentito dire che bisognerebbe riportare in vita tutti i generali e lo Stato Maggiore in carica durante la Prima Guerra Mondiale e passarla per le armi per fargliela pagare: ho ripensato spesso a questa frase leggendo Un anno sull’Altipiano di Emilio Lussu, romanzo-memoriale ambientato durante la Grande Guerra e scritto da uno che ci ha combattuto davvero come ufficiale di complemento prima e di capitano poi (il bello è che si arruolò da interventista convinto). Non è esattamente una lettura estiva (in un periodo in cui tutti si preoccupano a segnalare i cinque libri da portarsi in vacanza), anzi, è quanto di più commovente e lacerante si possa trovare: non potrebbe essere altrimenti, visto che il libro è ambientato tra l’estate del 1916 e l’estate del 1917 nell’immobilità delle trincee dell’Altopiano di Asiago (gli austriaci non avanzavano, ma non avanzavano neanche gli italiani), ed è costituito da piccoli episodi che raccontano una guerra di carneficina fatta di fango e cognac, attacchi e contrattacchi alla baionetta (ricordiamo che l’Italia ha sempre combattuto all’attacco, prima della rotta di Caporetto), granate e mitragliatori, nell’assoluta insensatezza di operazioni militari senza scopo (la sanguinosa conquista di poche postazioni su di un colle che saranno abbandonate poche ore dopo, senza un’apparente ragione) che portarono alla distruzione di un’intera generazioni di contadini analfabeti e di studenti universitari. Per tono e tematiche ricorda molto Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque e il film Orizzonti di gloria di Stanley Kubrick: di quest’ultimo condivide la denuncia verso generali e colonnelli, dei veri e propri pazzi (oltre che degli assoluti incapaci) che si fanno portavoce di un fanatismo militarista e nazionalista. È il caso del generale Leone, che richiede inutili atti di eroismo quali esporsi in bella mostra al tiro dei fucili nemici, ordina di fucilare un soldato esploratore reo d’indisciplina e stanchezza quando in realtà ha solo obbedito agli ordini, e che manda a morire dei soldati protetti con delle inutili corazze (le famose corazze Pasina, che a suo dire il nemico avrebbe tentato di rubare); oppure del maggiore Melchiorri che, in un impeto d’ira e di esaltazione, ordina la decimazione dei suoi uomini come punizione per aver osato contravvenire agli ordini ed essere usciti dai rifugi durante un terribile bombardamento. Così chi comanda si qualifica come il vero nemico dei soldati, dal momento che il vero nemico (gli austriaci) non lo si vede mai, nonostante sia una guerra di trincea e le prime linee siano poste a poche centinaia di metri le une dalle altre, cosa che rende questa guerra ancora più assurda e insensata. Anzi, le poche volte che il protagonista entra in contatto con il tanto vituperato nemico (un soldato austriaco inerme che si prepara il caffè, l’assalto di una divisione ubriaca di cognac, la prima linea in trincea che grida «basta! » agli italiani che stanno attaccando e si stanno facendo massacrare), capisce che gli austriaci non sono tanto diversi dagli italiani, anzi, che stanno vivendo la stessa situazione e stanno svolgendo la loro funzione di combattenti destinati a un insensato sacrificio. I personaggi del libro sono memorabili: il fedele amico Avellini; l’umile “zio Francesco”, bracciante e reduce dalla guerra di Libia; il ribelle Ottolenghi, che ha scelto la strada della ribellione e auspica un ammutinamento generale in cui i reparti abbandonino le posizioni al fronte e vadano fino a Roma «perché lì è il gran quartiere generale nemico», ma che poi finisce a razziare con i suoi il capanno dei rifornimenti; l’astuto soldato Marrasi, che cerca sempre di salvare la pelle e si rende protagonista di una drammatica fuga verso il reticolato nemico prima di venire falciato dai compagni. Lussu cerca di tenere insieme la ripulsa della guerra e l’etica del combattente coraggioso che non dimentica mai il senso di responsabilità (dei propri sottoposti, ma anche del Paese, ed è per questo che non si può abbandonare il fronte), ed è magistrale nel raccontare il silenzioso terrore dei momenti che precedono l’attacco, il drammatico abbandono dell’immonda ma scura trincea per proiettarsi verso la possibile (o quasi certa) morte; quando poi rievoca la lettura della lettera dell’innamorata del morente Avellini, il quale per piangere si porta le mani agli occhi nonostante li abbia persi, la commozione è veramente incredibile.

venerdì 2 agosto 2013

Jessica Fellowes - Il mondo di Downton Abbey

È difficile dire quanto io abbia amato l’acclamata e pluripremiata serie Downton Abbey, ideata, scritta e prodotta da Julian Fellowes, già sceneggiatore del bellissimo film Gosford Park di Robert Altman. Tale è il livello della scrittura, della recitazione, della messa in scena, dell’attenzione ai dettagli, che non ho potuto fare a meno di adorarla. Di Gosford Park riprende appunto tematiche e le dinamiche, innanzitutto il rapporto formale tra l’aristocrazia e la servitù, due mondi che si intrecciano tra loro ma che restano rigidamente distinti in sopra e sotto, con codici di comportamento e d’onore completamente diversi ma spesso contrari (i servi sono spesso più aristocratici e conservatori dei loro padroni), e che si ricalcano in quanto a ruoli e funzioni (da una parte il conte e la contessa di Grantham, dall’altra il maggiordomo Carson e la governante Hughes, entrambi nella parte dei genitori severi ma giusti che fanno andare avanti la casa), in una situazione in cui a ognuno corrispondono dei precisi doveri: gli ingranaggi devono infatti continuare a girare per tenere l’edificio e la tenuta in ordine e trasmetterli così alla generazione successiva (è per questa ragione che il problema della scomparsa degli eredi legittimi in seguito al naufragio del Titanic, posto a inizio di serie, colpisce tutti gli abitanti della tenuta nobiliare). Per tutti coloro che intendono addentrarsi al di là della linea di demarcazione tra i due mondi costituita dalla porta di panno verde e approfondire la conoscenza della serie è uscito questo bellissimo volume scritto da Jessica Fellows, giornalista, scrittrice e nipote del creatore della serie: l’ho particolarmente apprezzato da un lato perché mi auspico sempre che esca un numero maggiore di libri dedicati alle serie televisive e, dall’altro, perché è ottimamente realizzato e, prendendo spunto dai vari personaggi, offre uno spaccato estremamente godibile della vita delle diverse classi sociali nell’Inghilterra dell’epoca, senza concedere spazio a pettegolezzi o autocelebrazioni da parte degli attori. Nel caso di questo libro, che si riferisce alle prime due stagioni della serie, si trovano molte foto di scena e del backstage su protagonisti, abiti, la tenuta di Highclere Castle (questo il vero nome del maniero di Downton Abbey), interviste, stralci di dialoghi significativi e immagini reali (foto, poster, cartoline, insegne) tratte dalla realtà di quel tempo, rievocata e approfondita con prodigalità di informazioni e aneddoti. La guida, infatti, è divisa in nove parti e si occupa, tra gli altri argomenti, di vita in famiglia, società, stile, amore, vita della servitù, in un periodo di grandi trasformazioni sociali e politiche (il socialismo, il movimento delle suffragette), per spiegare come e quanto la famiglia Crawley si trovi ad affrontare un mondo che cambia in fretta e la necessità di adeguarsi per non scomparire (negli anni dell’aumento della tassazione sulle rendite per la realizzazione della riforma sanitaria di Lloyd George). Ai due estremi opposti tra conservazione e innovazione stanno i due estremi anagrafici della famiglia: da una parte la duchessa madre, Lady Violet, che non conosce i weekend perché non ha mai lavorato in vita sua e scopre con orrore che l’unico erede maschio è un borghese che “lavora per vivere”; dall’altra, la terzogenita Sybil, sensibile alle rivendicazioni delle suffragette, attenta al lato umano dei servitori e innamorata di una autista irlandese socialista. Nel mezzo, è possibile scoprire interessanti parallelismi: Matthew Crawley, l’erede della proprietà, fa l’avvocato ed è parte dell’alta borghesia professionale benestante, è liberale e non è ambizioso, così quando scopre che erediterà una nuova posizione all’apice della società, non la considera subito una vittoria; la persona che prova maggiore simpatia per la sua situazione è Cora, la moglie di Lord Grantham, che, in quanto americana, conosce il trattamento riservato dalla nobiltà inglese agli estranei (lei era una delle “bucaniere”, quella schiera di ricche ragazze americane i buona famiglia giunte in Gran Bretagna per sposarsi con membri dell’aristocrazia). In conclusione è posto un bellissimo capitolo sulla Prima Guerra Mondiale, rievocata nella serie come vero e proprio evento spartiacque che irrompe con tutto il suo orrore, quando le ragazze Crawley vedono la tragedia entrare nelle loro dorate consuetudini e scoprono la necessità di essere anche loro, in qualche modo, utili alla patria.

giovedì 1 agosto 2013

J.R.R. Tolkien - Il Silmarillion

Per quanto se ne dica, Il Silmarillion è un libro editorialmente impossibile, per certi versi addirittura frustrante, che rinuncia alla forma del romanzo in favore di una narrazione cronachistica, senza un personaggio principale ma con un’enorme mole di nomi, intrecci e luoghi (tutti meticolosamente e geograficamente collocati) di lettura difficilissima per lo stile epico, drammatico e fittamente descrittivo (praticamente privo di dialoghi), di redazione estremamente caotica (grazie al lavoro postumo fatto dal figlio di Tolkien, Christopher) e per nulla aiutato dalla traduzione italiana, legnosa e talvolta ridicola. Per tutte queste ragioni, Il Silmarillion è un libro inesorabilmente di nicchia, per pochi valorosi, ma è allo stesso tempo un libro che un tolkieniano deve conoscere: concepito come l’incontro ideale tra il Kalevala finnico e la Bibbia, esso rappresenta il tentativo (forse l’unico, nel XX secolo) di spiegare la condizione dell’uomo attraverso il mito. Per avere un’idea di com’è scritto, bisognerebbe pensare alle Appendici del Signore degli Anelli, con cui condivide parte delle tematiche e lo stile, ma in realtà è molto più ricco. Il Silmarillion è, che si voglia o no, la cronaca definitiva della Terra di Mezzo, che raccoglie vicende che coprono migliaia di anni, nello stesso passato che costruisce l’ossatura del Signore degli Anelli, una solida base sviluppata da Tolkien per oltre un cinquantennio (i primi abbozzi risalgono a quando era nelle trincee della Prima Guerra Mondiale) che non ha eguali nella storia della letteratura fantastica. Tutte quelle poesie e quelle leggende che troviamo citate nel Signore degli Anelli fanno riferimento a questo libro. Si tratta di materiale concepito prima della creazione degli hobbit, quando cioè Tolkien intendeva dotare l’Inghilterra di un corpus di leggende proprie (secondo lui gli inglesi avevano importato leggende straniere, come la celtica, la sassone e la scandinava), e quindi è elfocentrico: il punto di vista è quello degli Elfi, con le comparsate (in alcuni casi anche significative) degli Uomini. I primi due libri, Ainulindalë e Valaquenta, descrivono, come tutte le mitologie, la nascita del mondo (in questo caso attraverso la musica) e i poteri degli dei (i Valar), mentre il terzo, il più lungo, il Quenta Silmarillion, racconta la storia delle guerre dei Noldor, i Primogeniti, gli Alti Elfi dell’Ovest, contro Melkor, il nemico, colui il quale è stato bandito dal novero degli dei perché ribellatosi al processo della creazione (e così ha avuto origine il Male). Questa guerra è simboleggiata dal possesso dei Silmaril, le tre gemme costruite dall’elfo Fëanor che racchiudono la luce dei due alberi del reame beato di Valinor che sono stati abbattuti da Melkor: la loro cerca è simboleggiata dal terribile giuramento dello stesso Fëanor e dei suoi sette figli che, accusando i Valar di disinteresse nei loro confronti, promettono di recuperare i Silmaril e di portare la loro vendetta fino ai confini del mondo. Dopo averlo ammonito, i Valar maledicono Fëanor: non si tratta di una maledizione in senso tradizionale, bensì di una visione del futuro che il Noldor si rifiuta di ascoltare provocando delle immediate conseguenze (il fratricidio degli Elfi del Mare, che si rifiutano di cedere le loro navi per far vela verso la Terra di Mezzo, divenuta il regno di Melkor che domina dalle sue fortezze di Angband e Utumno). Da qui sarà un susseguirsi di lutti e tragedie dovuti all’ambizione e alla sete di possesso, nonostante la fondazione di splendidi e potenti regni (due esempi per tutti: la fortezza sotterranea di Nargothrond e la città nascosta di Gondolin, circondata dai monti e custodita dalle aquile). Fëanor muore ucciso da un Balrog (un demone di fuoco), suo figlio Maedhros viene catturato da Melkor e da lui inchiodato per un polso su di un abisso finché il cugino Fingon non giunge a liberarlo trovandosi costretto a tagliargli la mano; il fratellastro di Fëanor, Fingolfin, re dei Noldor, assedia la roccaforte di Angband per 400 anni finché non giunge a sfidare personalmente Melkor, lo ferisce sette volte ma alla fine deve soccombere finendo da lui schiacciato; l’elfo oscuro Eöl vieta alla sposa Aredhel e al figlio Maeglin di tornare a Gondolin, patria di lei ma, dal momento che loro gli disobbediscono, lui li raggiunge e cerca di uccidere Maeglin con un pugnale avvelenato finendo per uccidere lei che si frappone; in seguito alla condanna a morte del padre, Maeglin cresce solo e si innamora, non ricambiato, della figlia di Turgon re di Gondolin, e viene per questo irretito dalle lusinghe di Melkor fino al punto da rivelare al nemico la locazione della valle nascosta dove si trova la città. La maledizione dei Silmaril investe però anche gli Uomini, i Secondogeniti, come nel caso di Húrin, il più forte guerriero umano, che viene catturato da Morgoth, immobilizzato su un seggio e costretto ad assistere a tutti i mali e le sventure che accadono alla moglie e ai figli. Ancora più triste ed emblematica è la vicenda di suo figlio Túrin, vittima di quel destino che egli invece crede di poter ingannare: prima uccide a propria insaputa l’amico più caro nel momento in cui questi (che ha lasciato ogni cosa per cercarlo e ha affrontato rischi infiniti per soccorrerlo) lo trova e lo libera dalle catene, quindi porta via a chi l’ha salvato la donna amata che in realtà è sua sorella Niënor, che ha dimenticato il passato per un sortilegio del crudele drago Glaurung, e causa la rovina del regno che lo ospita a causa dei suoi progetti, in un susseguirsi di eventi inarrestabili che non possono che condurre al suicidio. L’unica eccezione a questo inarrestabile meccanismo (per cui tutti vanno eroicamente incontro a un destino tragico per colpa di un giuramento per il quale non hanno giurato ma al quale sono fedeli) è la vicenda di Beren e Lúthien, storia d’amore atipica che ricalca alla rovescia quella di Orfeo ed Euridice e che anticipa l’amore tra Aragorn e Arwen nel Signore degli Anelli: lui, uomo mortale, si innamora, ricambiato, della figlia di Thingol, uno dei più potenti re elfici che ha sposato addirittura una Maia, uno spirito angelico inferiore ai soli Valar. Per ottenerla in sposa, però, deve superare l’inevitabile prova, e in questo caso il re elfico gliene richiede una impossibile: recuperare uno dei Silmaril incastonati nella corona di ferro di Melkor. Ma l’impresa che tutti hanno fallito riuscirà invece a Beren, che potrà contare sull’aiuto del saggio cane Huan, dotato di parola e di poteri magici: questo perché, per la prima volta, il Silmaril viene ricercato per amore e non per brama di possesso. Quando Beren paga con la vita e non si rassegna a non poter più tornare dall’amata, Lúthien si reca nell’aldilà per riaverlo e canta una canzone così triste che unisce i temi musicali degli elfi e degli uomini che le viene data la possibilità di scegliere se restare immortale sola o diventare mortale con Beren, vivendo con lui su di un’isola. Il Silmaril così ottenuto permetterà a Eärendil il Marinaio di intraprendere un difficile viaggio verso Valinor per implorare l’aiuto dei Valar che, impietositi, decideranno di scatenare la Guerra dell’Ira sconfiggendo definitivamente Melkor e scacciandolo nel Vuoto Atemporale fuori dalle Mura del Mondo. Gli altri Silmaril, concupiti e bramati dall’inizio alla fine, portano a conclusione la loro maledizione e provocano la morte anche agli ultimi figli di Fëanor legati al giuramento, per poi scomparire definitivamente, chiudendo la Prima Era del Mondo. Il Silmarillion non finisce però così: il quarto libro, l’Akallabêth (quello che forse maggiormente parla anche alla nostra società), corrisponde alla Seconda Era del Mondo e affronta il destino degli Uomini e della loro isola di Númenor, simile ad Atlantide, posta a metà strada tra la Terra di Mezzo e le Isole Immortali, dono delle divinità per aver combattuto strenuamente a fianco degli elfi contro le forze del Male. Il confine della felicità è rappresentato dalla proibizione dei Valar di far vela all’Ovest: man mano però che nel regno aumentano la ricchezza e il potere, il pensiero di ottenere il proibito (l’immortalità che agli Uomini è negata, mentre è proprietà degli Elfi) comincia a far breccia nei cuori, divisione e discordia iniziano a serpeggiare  e il potere, perduto il consenso, si regge sul terrore. I re di Númenor diventano arroganti e uno di loro, Ar-Pharazôn il Dorato, si lascia irretire dalle parole di Sauron, luogotenente di Sauron e ora suo erede, dopo averlo portato prigioniero a Númenor; il popolo abbandona le tradizioni e si dedica a culti strani e a sacrifici umani, tutti sono ossessionati dall’idea della morte e Ar-Pharazôn decide di costruire una flotta per invadere le Terre Immortali e ottenere quanto vogliono con la forza rubando la vita eterna dei Valar. Númenor viene quindi sprofondata dall’ira divina e la struttura del mondo viene cambiata definitivamente: solo i devoti, quelli rimasti fedeli, sono tratti in salvo e risparmiati, e si insediano nei reami di Gondor e di Arnor. L’ultimo libro, Degli Anelli del Potere e della Terza Era, collega i fatti sin qui raccontati con gli antefatti del Signore degli Anelli e la Guerra dell’Anello (è qui che si scopre chi sono Gandalf e Saruman), fino alla partenza dei possessori degli anelli elfici (e degli ultimi Elfi della Terra di Mezzo) dai Porti Grigi, quando cioè «per gli Eldar [gli Elfi] giunse la fine delle storie e dei canti». Quanti troveranno il coraggio di intraprendere la lettura e di arrivare alla fine del volume riceveranno in premio molte immagini memorabili, un’atmosfera di grande tristezza ma, allo stesso tempo, un qualcosa che raramente si trova in un libro: la sensazione di perdersi in un mondo bellissimo e sconosciuto più reale della realtà.