domenica 8 settembre 2013

Jack London - Il popolo degli abissi

Non avevo mai letto niente di Jack London, né Zanna Bianca né Il richiamo della foresta. Ho cominciato da quest’opera minore e per lo più sconosciuta (caratterizzata, almeno nella sua versione ebook, da una delle copertine più ributtanti e prive di senso che mi sia mai capitato di vedere) che mi ha attirato per la sua descrizione dell’East End londinese di inizio Novecento, uno dei quartieri più malfamati e poveri che si possano immaginare, già teatro (14 anni prima) delle gesta di Jack lo Squartatore e oggi radicalmente trasformato dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, dall’immigrazione delle ex colonie indiane e da una riqualificazione urbana piuttosto consistente (sebbene non trascendentale). Non è un romanzo, e non è nemmeno un saggio: è un libro dallo spiccato taglio sociale e pervaso di spirito polemico con simpatie socialiste che si colloca a metà strada tra la letteratura e il giornalismo e che nasce dalla volontà dello scrittore americano, in controtendenza con quanti si limitavano a cantare le glorie dell’impero britannico (e che lo consigliarono sgomenti di percorrere l’East End senza debita scorta armata, proponendogli di raccontargli loro la situazione della zona, al riparo di quattro eleganti mura di un hotel di lusso), di calarsi, per un certo periodo, tra gli sventurati abitanti dei sobborghi londinesi, dove l’alcolismo, la denutrizione e la criminalità la facevano da padroni. Convinto della necessità di vedere da vicino e toccare con mano una realtà prima di scriverne, si travestì da marinaio, dormì nelle baracche, frequentò poveri, prostitute e disoccupati, quel “popolo degli abissi” cui fa riferimento il titolo, costituito da masse di diseredati spesso senza la benché minima speranza o aspettativa per un domani migliore, schiavizzati da un lavoro retribuito con salari da fame che garantiva una stanza in affitto che assorbiva il 50% delle entrate (il resto serviva per un po’ di carbone per il riscaldamento e del cibo raffermo, rinunciando a vestirsi). Il popolo che descrive London non è però una massa informe, trattata come un astratto oggetto di indagine sociologica: al contrario, è fatto di individui, con nomi, volti e storie personali. Le descrizioni dello scrittore americano sono veramente raccapriccianti e fanno da lugubre contraltare alla scintillante incoronazione di Edoardo VII, descritta in un capitolo come triste spettacolo della magniloquenza dell’Inghilterra imperiale: le stanze venivano affittate a spazi e a tempo, con lo stesso letto che veniva ceduto a turno a persone che lavoravano in base a turni diversi; i morti venivano tenuti in casa per giorni per l’impossibilità di pagare le spese funebri (magari sul tavolo su cui si mangiava); la precarizzazione del lavoro faceva sì che, anche per un infortunio di poco conto, chi non poteva lavorare per alcuni giorni era condannato a una discesa che era l’anticamera dei ricoveri per senzatetto o a una vita sulla strada, avversata dalla polizia che arrestava gli accattoni. Lo scrittore tuona contro i filantropi da salotto del West End che non capiscono la necessità di strappare migliaia di persone a un ambiente nocivo e contro la classe dirigente che ha costruito un progresso a cui non è seguito un miglioramento della condizione di vita per tutti gli strati della società, arrivando a dire che gli Inuit dell’Alaska, pur se catalogati come “selvaggi”, vivevano decisamente meglio dei lavoratori della cristiana Londra. È passato un secolo, ma è un testo (ahimè) decisamente attuale.

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