domenica 10 novembre 2013

James Ellroy - Dalia Nera

Ammetto la mia ignoranza: pur amando profondamente il genere noir, non avevo mai letto niente di James Ellroy, il più celebre scrittore hard-boiled contemporaneo. Ho però visto più volte i film tratti dai suoi romanzi, il bellissimo L.A. Confidential di Curtis Hanson e l’interessante (anche se da più parti criticato) Black Dhalia di Brian DePalma. Ho quindi scelto di cominciare proprio con Dalia Nera, universalmente riconosciuto come uno dei suoi capolavori e avendo già dimestichezza con la sua controparte cinematografica. Il romanzo è incentrato sull’indagine intorno al brutale omicidio di un’attricetta di serie zeta, Elizabeth Short, il cui corpo fu ritrovato orrendamente mutilato e torturato con perizia chirurgica nel gennaio del 1947 a Los Angeles. Fatto realmente accaduto, questo, e talmente efferato che la polizia non diffuse mai le immagini del suo cadavere straziato: il nome Dalia Nera fu affibbiato alla vittima ancor prima che venisse identificata e si riferiva sia a un famoso film, La dalia azzurra, sia all’abitudine della donna di vestire di nero. Ellroy ci costruisce intorno una storia che vede protagonisti due poliziotti, ex pugili, Dwight “Bucky” Bleichert e Lee Blanchard, “un eroe e una spia”, “Fuoco e Ghiaccio”: il primo, di origini tedesche e con un padre affetto da demenza senile, durante la Seconda Guerra Mondiale, per vivere tranquillo, ha scaricato gli amici giapponesi; il secondo è ossessionato dalla scomparsa della sorellina e vive con Kay Lake, donna dal passato burrascoso ed ex pupa di un criminale sbattuto in galera dopo una rapina dai contorni mai veramente chiariti. I due diventano colleghi e quindi amici e confidenti dopo un incontro di boxe benefico, e finiscono a indagare sul caso della Dalia Nera, che diventerà per loro un’ossessione. A narrare la vicenda è, ovviamente in prima persona (da scuola hard-boiled), Bleichert, tipico esempio del poliziotto noir, personaggio duro e intimamente solo, dal mondo interiore complesso, in bilico tra realtà e sogno/suggestione: inizia un pericoloso triangolo con Kay e Lee (facilitato dall’improvvisa e misteriosa sparizione di quest’ultimo), ma allo stesso tempo è sempre più attratto dall’enigmatica e ambigua Madelaine Sprague, figlia di uno degli uomini più importanti della città, che si scopre avere un oscuro legame con la vittima e si veste addirittura come lei. L’ossessione di Bleichert per la Dalia è completa, tanto da spingerlo a cercarla negli altri (soprattutto nelle donne), a vendicarla e in qualche modo a proteggerla, a costo della sua vita privata e della sua carriera: in questo si vede espressa l’ossessione dello stesso Ellroy nel voler scoprire l’assassinio della madre, Geneva Hilliker, alla quale il libro è dedicato e assassinata in circostanze più o meno simili a quelli di Elizabeth Short. Una specie di percorso terapeutico attraverso la letteratura e, allo stesso tempo, un viaggio da incubo nel ventre nero di Los Angeles, città mai così dannata e popolata da ombre minacciose. Mescolando realtà e finzione, e raccontando la vicenda di una starlet che al cinema neanche ci arriva e si ferma al livello del sogno (finendo in un tunnel discendente e passando da un letto all’altro fino alla degradazione del cinema hard), Ellroy è straordinario nel descrivere un mondo torbido come quello del sottobosco di Hollywood (o Hollywoodland, come ancora si chiamava, e che proprio in questi anni cambia nome) fatto di scannatoi, prostitute, bar di lesbiche, droga, alcol e ricatti (con i soliti capitalisti che fanno i loro comodi e non pagano mai le loro colpe), e di un Messico putrido e violento dove si trova solo la morte. Come in tutti i veri noir, confonde il confine tra il bene e il male, annulla le contrapposizioni manichee e ribalta i ruoli, facendo sì che le vittime non siano mai immuni da vizio e corruzione. Anche se nel finale c’è speranza.

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