
La seconda parte della nuova trilogia di Peter Jackson tratta da Lo Hobbit sta per arrivare e la febbre tokieniana cresce: cosa di meglio di ingannare l’attesa con qualche buona lettura? A questi piccoli ometti, vestiti di giallo e di verde e con i piedi pelosi, che vivono nel nascondimento e nella pigrizia, ma sono capaci di slanci i generosità e di coraggio impensabili a prima vista, è dedicato questo libretto uscito ormai l’anno scorso e scritto da Ives Coassolo che cerca di spiegare gli hobbit partendo dalla loro descrizione nelle opere di Tolkien (Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli) ma soprattutto dalle considerazioni dello stesso scrittore presenti nella raccolta delle sue lettere (La realtà in trasparenza). Un’impresa ardua, soprattutto perché arrivata dopo molti contributi autorevoli sull’argomento e, soprattutto, vista la rinomata allergia di Tolkien per l’allegoria, il quale non voleva si usasse come metodo di lettura delle sue opere (tanto che chiarì lui stesso che «gli hobbit non sono una allegoria più di quanto non lo siano i pigmei delle foreste africane»), anche se una certa importanza la dovevano pur rivestire dal momento che Tolkien scrisse a suo figlio impegnato nella Seconda Guerra Mondiale «conserva nel cuore la tua hobbitudine e pensa che tutte le storie sono così quando ci sei in mezzo»). È bene premettere che Coassolo, sulle orme di Andrea Monda (che firma la prefazione), segue una lettura cristiana delle opere di Tolkien, e quindi aspettatevi di trovare, nel suo libro, l’idea di Frodo alter Christus nella sua dimensione sacerdotale, come Aragorn e Gandalf lo sono nella dimensione regale e in quella profetica (e anche Gollum lo è, in quanto porta su di sé il peccato del mondo da cui libera il mondo). Di Aragorn e Gandalf però in questo libretto non si parla, e l’attenzione è incentrata esclusivamente sugli hobbit: chi sono, dove vivono, cosa fanno. Questo perché gli hobbit sono il grande dono che Tolkien ha fatto alla narrativa mondiale: se infatti tutto quello che si trova nella Terra di Mezzo è una rielaborazione di elementi già noti, di personaggi, luoghi e temi narrativi provenienti dal mondo delle antiche leggende e mitologie del Nord Europa (il Beowulf, l’Edda), gli hobbit provengono invece direttamente dalla mente di Tolkien e costituiscono il vero ponte tra la storia e il lettore (in una lettera Tolkien stesso spiega che Il Signore degli Anelli è una storia «vista soprattutto attraverso gli occhi degli hobbit: in questo modo, in effetti, diventa antropocentrica»). Tutta la Terra di Mezzo ci viene raccontata attraverso i loro occhi, e non è un caso, dice Monda nella prefazione, che l’unico posto dove gli hobbit non ci guidano è il Sentiero dei Morti, di cui non sappiamo nulla se non per via indiretta dal racconto che ne fanno Legolas e Gimli, perché gli hobbit sono i “vivi”, coloro che con il loro umile entusiasmo vivificano tutti i luoghi che visitano. In realtà, loro stessi sono un anacronismo nella Terra di Mezzo (se ne rendeva conto lo stesso Tolkien, che ammetteva: «La mia mente per quanto riguarda il raccontare storie è occupata con le pure semplici fiabe o mitologie del Silmarillion, in cui persino Mr Baggins si è trovato dentro contro la mia intenzione originaria»), e questo loro ruolo di mediazione con il nostro mondo ha permesso di rivitalizzare generi come il racconto fantastico e l’epica. Il loro segreto sta nella loro umiltà e nella loro natura di semplici, grazie a cui riescono a superare ogni orrore. Tolkien scrisse: «I grandi avvenimenti della storia del mondo, le “ruote del mondo”, spesso non sono determinati dai Signori e dai Governatori e nemmeno dalle divinità, ma da esseri apparentemente sconosciuti e deboli: e questo è dovuto a quel segreto della creazione, e al fatto che alcune cose sono sconosciute a tutti i saggi tranne che a uno, che consiste nell’intrusione dei figli di Dio nel dramma». Un aspetto peculiarmente cristiano, confermato dall’accostamento, fatto da Andrea Monda, degli hobbit agli amawìn, gli ultimi della Bibbia, le “pietre di scarto”, realtà tanto poco considerate a livello mondano quanto predilette a livello ultramondano (anche George Lucas nella saga di Star Wars ha dedicato lo stesso ruolo del popolo senza considerazione che cambia le sorti della guerra agli Ewok, piccoli abitanti pelosi della luna boscosa di Endor nel fim Il ritorno dello Jedi). Coassolo prende quindi in esame gli hobbit più famosi, Bilbo e Frodo Baggins, ne mette in luce le similitudini e le differenze, ma dedica un buono spazio anche a Sam Gamgee, giardiniere di casa Baggins, che progressivamente prende spazio e cresce in statura durante la storia al punto da divenire coprotagonista e vero eroe: si fa sempre più carico della missione del suo padrone e del suo padrone stesso, e la sua sorprendente forza d’animo e la sua straordinaria lealtà verso Frodo lo rendono capace di essere il terzo e ultimo dei Portatori dell’Anello. Come tutti i personaggi di Tolkien, Sam non ha solo aspetti positivi nel suo essere, anzi, ha dei difetti e commette anche degli errori (in primis con Gollum, di cui impedisce la conversione), ma, a differenza di Bilbo, che viene aiutato da Gandalf in questo distacco, e di Frodo, che lo tiene per sé, Sam riesce a disfarsi dell’anello senza costrizione, sottraendosi senza difficoltà al suo incanto. Un saggio per tolkieniani veri, magari non imprescindibile, ma che, anche se di dimensioni ridotte, batte sul loro stesso terreno cose ampiamente discutibili come La saggezza della Contea di Noble Smith.