
Per quanti sono alla ricerca non di un’opera storica in senso tradizionale, ma di un bello spunto per non omologarsi al pensiero corrente e porsi controcorrente rispetto alla melassa sparsa copiosamente a livello politico e sociale in occasione di particolari celebrazioni patrie (da noi nel 2011 era in voga incensare il Risorgimento per celebrare i 150 anni dell’Unificazione italiana), segnalo questo interessante pamphlet polemico scritto dallo storico Jean Dumont (storico cui si deve il rinvenimento del rosario di Anna Bolena) in occasione del bicentenario della Rivoluzione francese con l’esplicativo titolo originale Porquoi nous ne cé célebrerons pas 1789 e pubblicata da Effedieffe con il titolo de I falsi miti della Rivoluzione francese, che (con l’ausilio di molte illustrazioni tratte da stampe e vignette dell’epoca) spiega come era ferma intenzione dell’autore non celebrare l’Ottantanove come l’alba del Mondo Nuovo e anzi si scaglia contro le inibizioni derivate alla società occidentale dalla Rivoluzione e fortificate dalla cultura che ne è derivata nei secoli seguenti, la cosiddetta “vulgata” rivoluzionaria (che permea l’educazione scolastica, soprattutto in Francia), tutta tesa a celebrare il falso mito della “modernizzazione decisiva” rispetto all’oscurantismo feudale del passato, quello del “popolo al potere” e quello della sua finalmente conquistata “felicità”. La Rivoluzione, dice Dumont, fu infatti un fenomeno quasi esclusivamente borghese e antipopolare, connotandosi come un martirologio operaio: lo storico americano Donald Greer ha dimostrato che, tra le vittime del Terrore, solo l’8,5% appartiene alla nobiltà e il 91,5% al popolo, e che su circa 400.000 nobili viventi nel 1789 vi furono “soltanto” 1.158 esecuzioni, equivalenti a una percentuale dello 0,03%, e soltanto 16.431 emigrati, cioè il 4%; inoltre, ancor più insospettabilmente, i contadini costituirono il 28% delle vittime del Terrore, operai, artigiani e commercianti il 41%. Dumont mette poi in luce l’incapacità della cultura postrivoluzionaria di garantire le libertà sociali e le autonomie per colpa di uno statalismo opprimente e di un nazionalismo aggressivo, e la falsità egualitarista e l’invenzione del terrore poliziesco come strumento di governo quotidiano. Tra le “menzogne” celebrate ci sono la presa della Bastiglia (realizzata da manipoli di sbandati senza la partecipazione di leader rivoluzionari, in un carcere praticamente deserto privo di detenuti politici), l’epopea dei Volontari dell’Anno III (800.000 disertori su 1.200.000 chiamati alle armi) e l’antimonarchismo della Rivoluzione (la svolta antimonarchica è in realtà circoscritta a un periodo tra l’agosto 1792 e il 1975, tanto che, anche dopo la fuga del re a Varennes, l’Assemblea Nazionale si inventò un rapimento di cui il sovrano sarebbe stato vittima). Anche la politica di naturalizzazione di massa degli stranieri fu fallimentare perché diede origine a un diffuso antisemitismo (mentre, nell’Ancien Régime, gli ebrei sefardim erano accolti come cittadini nelle assemblee elettorali che sceglieva la rappresentanza nazionale), mentre dal punto di vista economico, a dispetto della tanto decantata introduzione dello spirito imprenditoriale, la Rivoluzione corrispose invece a una statalizzazione dell’economia, con stipendi bloccati, prezzi calmierati e imposte generalizzate, mentre l’imposizione della divisione ugualitaria tra gli eredi fu del tutto catastrofica per un’economia fondata quasi esclusivamente su patrimoni familiari e composta soprattutto da laboratori artigianali, negozi commerciali e piccole imprese agricole da trasformare la Francia nel Paese del figlio unico, con il conseguente crollo della natalità. Dumonti mette in luce le ignominie rivoluzionarie quali il Terrore, la ferocia, la ghigliottina come sistema di governo (molti rivoluzionari teorizzavano la necessità di ridurre la popolazione di più della metà e di portare la Francia ad avere solo cinque milioni di abitanti), le deportazioni e le uccisioni di religiosi, le esecuzioni spesso affidate a bambini come nella Cambogia di Pol Pot, i campi di concentramento e di sterminio (veri predecessori dei gulag e dei lager) e la sanguinosa repressione della Vandea, che vide oltre 100.000 vittime accertate, massacrate a sangue freddo, anzitutto di donne, vecchi e bambini, con ritmi di 2.000 al giorno (come si legge nei rapporti del generale Grignon), tanto che si arrivò a conciare le pelli degli ammazzati per farne stivali e paralumi; senza dimenticare l’episodio dei 1.400 uccisi nella sola Parigi tra i carcerati, nel settembre 1792, e della contemporanea eliminazione fisica degli ospiti dei manicomi, degli ospizi e dei riformatori, veri e propri massacri eugenetici che vennero giudicati dal Ministero degli Interni «molto utili per la felicità futura della specie umana». A Dumont interessa sottolineare come la Rivoluzione ebbe un carattere dichiaratamente anticristiano, tanto che Luigi XVI, che aveva accettato la Costituzione civile del clero, cadde in disgrazia quando pose il veto alla legge che sanciva la deportazione all’estero e addirittura la perdita forzata della cittadinanza per tutti i sacerdoti refrattari (quelli che non avevano aderito alla Costituzione civile del clero) denunciati da almeno 20 cittadini, oppure, in caso di disordini, da un solo cittadino. Allo stesso tempo, il pamphlet suona come un atto di accusa contro la Francia odierna (o, almeno, contemporanea, dal momento che si riferisce alla Francia di 25 anni fa, ed è questo il suo parziale limite che lo rende ormai obsoleto), pesantemente influenzata e condizionata dall’eredità della Rivoluzione, a livello ideologico ed economico, e vittima di una terzomondializzazione economica anche causata da «un’immigrazione decantata e promossa secondo la fraseologia ugualitaria, mondiali sta e di pretesa fraternità, retaggio anch’essa della Rivoluzione».