
È interessante (e allo stesso tempo desolante) notare come la fiction italiana sia decaduta ai livelli infimi dei nostri giorni: salvo rarissimi casi, non c’è un prodotto capace di andare al di là dei soliti luoghi comuni, di un trito buonismo, di un respiro cortissimo, di una scrittura imbarazzante, nella totale capacità di raccontare e riflettere sul mondo di oggi (nonostante i tanti buoni propositi delle cosiddette “fiction sociali”). Perché dico queste cose? Perché ho letto questo I giacobini, dramma sulla Rivoluzione francese di Federico Zardi portato a teatro nella seconda metà degli anni Cinquanta e in televisione all’inizio degli anni Sessanta. Un kolossal, per quei tempi, con grandi attori e decine di comparse, che suscitò addirittura l’interesse di Palmiro Togliatti per la capacità di uno sceneggiato targato Rai di parlare di rivoluzione nell’Italia cattolica e democristiana (e si narra che, per questo, la Dc fece scomparire i nastri dello sceneggiato, anche se la cosa non è mai stata provata e vale per molti altri prodotti realizzati in quegli anni). Le vicende coprono il periodo dal 1785 fino al 1794, dall’ammissione di Robespierre nell’Accademia dei Rosati di Arras alla sua esecuzione dopo la congiura del Termidoro, con decine di personaggi più o meno noti (St Just, Desmoulins, Fouché, Couthon, Barère), ma curiosamente non Danton e Marat, perché l’attenzione è tutta sui giacobini e sui girondini (Brissot, Buzot, Barbaroux). Essendo un’opera teatrale, lo schema è classico: l’azione è inesistente, e la successione degli eventi della Rivoluzione viene evocata dai dialoghi (colti, enfatici e di stile alto, con la propensione per la massima celebre, come Saint-Just che dichiara «Ricordatevi, cittadini, che quelli che fanno le rivoluzioni a metà si scavano la fossa!») tra i personaggi, che li commentano e li interpretano. Convinto dell’attualità della Rivoluzione, Zardi elimina del tutto il filo-legittimismo di certe narrazioni e filtra tutto attraverso una prospettiva storicistica e democratica: non esistono i buoni e i cattivi, ma solo forze in lotta che si scontrano inesorabilmente, fino al drammatico e cinico finale, in cui, mentre gli ultimi giacobini vengono ghigliottinati uno dopo l’altro, già si sentono di nuovo pronunciare le parole “signori” e “padroni”. Letto oggi, il testo può risultare ostico (si parla pur sempre di un testo di oltre 50 anni fa) e pecca di alcune dimenticanze (come per esempio del fatto che Desmoulins era balbuziente), ma ha il pregio di mettere in luce il rapporto tra le donne e la politica (Manon Roland, musa dei girondini e amante di Buzot, e Lucilla Desmoulins, legata a Robespierre da rapporti ambigui) e di ritrarre Robespierre sotto una luce moderna, ovvero come mediatore tra le varie istanze rivoluzionarie ma allo stesso come un ineffabile sognatore, fanaticamente e implacabilmente legato a un concetto impalpabile di virtù ideologica lontana dalla realtà (come gli rinfaccia Desmoulins: «Massimiliano, convinciti che la vita non è fatta solo d’ideali astratti: il bene, la morale, la virtù… […] Son tutte parole in funzione della vita! Non si può prescindere dall’esistenza dell’uomo. […] È carne, questa, carnaccia, Massimiliano»). Pensare che all’epoca la televisione trasmetteva prodotti così complessi e raffinati, e che la famigerata casalinga di Voghera riusciva anche ad apprezzarli, è veramente una cosa da non credere.