giovedì 18 settembre 2014

Jeremy Paxman - The Victorians

Girare nei bookshop museali serve, tanto è vero che è stato proprio girando per la Tate Britain che mi sono imbattuto in questo bellissimo e appassionante saggio di Jeremy Paxman, tratto da un altrettanto fantastico documentario in quattro puntate andato in onda sulla BBC da lui stesso condotto che è il tipico esempio di come si possa cercare di spiegare un’epoca partendo da quelle che comunemente sono considerate noiosissime opere d’arte. Insomma, tutto quello che in Italia non si riuscirà mai a fare. Il titolo dell’opera è The Victorians e l’epoca in questione è, ovviamente, quella vittoriana (coincidente con il regno della regina Vittoria, dal 1837 al 1901), comunemente considerata imperialista, bacchettona e ipocrita (tutti conosciamo la leggenda secondo cui si arrivavano a coprire le gambe dei tavoli perché disdicevoli) ma, nonostante tutte le sue tare e le sue contraddizioni, capace di formare la Gran Bretagna moderna e affermare la middle class come ceto culturalmente ed economicamente dominante. Imperialista l’epoca vittoriana lo fu di sicuro, basti anche solo ricordare la massima di Cecil Rhodes: “Ricordati che sei un inglese, pertanto hai vinto il primo premio nella lotteria della vita”. I vittoriani erano padroni di un impero e si sentivano come moderni Romani portatori di civiltà: non furono loro a inventare l’impero, ma furono i primi a concepire l’idea di un impero politico, che fosse un motivo d’orgoglio per la gente comune (e a questo proposito è bello vedere come la storia non insegni assolutamente niente, perché la rivolta dei soldati indiani del 1857 fu causata dall’imposizione di una cartuccia di caricamento dei fucili che costringeva indù e musulmani a mordere del grasso bovino e suino, in contravvenzione alle loro regole religiose). L’idea di Paxman è tanto semplice quanto geniale: partire dai quadri del periodo perché, se dal punto di vista letterario l’epoca vittoriana non è seconda a nessuno (basti pensare a Dickens, Gaskell, Trollope, Thackeray e alle sorelle Brontë), la pittura di questo periodo (fatta eccezione per i preraffaelliti) non ha mai goduto di alcuna considerazione. I pittori vittoriani (alcuni dei quali riuscirono anche a imporsi sul mercato) hanno invece cercato di dirci qualcosa, di trasmetterci determinati valori e di registrare visivamente quello che succedeva (come le persone vivevano, come lavoravano, cosa facevano nel tempo libero) in un’epoca di cambiamenti come mai se ne era registrata un’altra prima. Cambiamenti di trasporti (il treno, l’omnibus), capaci di diminuire le distanze, trasformare periferie e località di provincia, improvvisamente divenute zone residenziali o luoghi di villeggiatura, e di muovere masse di persone: numerosi sono i quadri con protagonista il nuovo mezzo (Rain, Steam and Speed – The Great Western Railway di Turner, che lo celebra come se dovesse schizzare fuori dalla tela) e altrettanti quelli che testimoniano un nuovo modo di considerare le masse (The Railway Station e The Derby Day di William Powell Firth, con la loro colorata moltitudine di personaggi di diversa estrazione sociale). Cambiamenti politici: la disfatta della Guerra di Crimea, la riforma dell’esercito, il controllo diretto dell’India, il regime di guerra permanente teorizzato dalla regina Vittoria (tradotto in guerre come quella dell’Oppio in Cina, Maori in Nuova Zelanda, Zulu e Boera in Sud Africa). Cambiamenti del tessuto urbano: la rivoluzione industriale fece sì che città come Manchester e Glasgow crescessero a una velocità incontrollabile (la popolazione di Manchester aumentò di 15 volte in appena 70 anni) e fossero piene di problemi dovuti all’inurbamento, ma allo stesso tempo erano fiere di mostrare al mondo il livello da loro raggiunto attraverso le grandi esposizioni internazionali e musei che potessero servire per l’istruzione e la gratificazione della popolazione, in perfetto stile britannico. Perché l’epoca vittoriana si può riassumere in un dipinto, The First of May 1851 di Franz Xaver Winterhalter, in cui il vecchio duca di Wellington (il vincitore di Waterloo) omaggia la regina Vittoria e suo figlio, mentre il principe Albert guarda altrove, verso la sagoma del Crystal Palace dell’esposizione universale, simbolo della potenza britannica e di un futuro radioso. I temi della povertà e del lavoro (soprattutto quello delle terribili workhouse) erano trattati raramente, probabilmente per il loro carattere poco gradevole e scomodo per i possibili acquirenti: Paxman spiega cosa i vittoriani fossero disposti a vedere e cosa preferissero invece nascondere. Un esempio per tutti, Old Age di Hubert von Herkomer: la raffigurazione delle vecchie triste nell’ospizio dei poveri diventa, per poter essere venduto, un quadro di vecchiette sorridenti che bevono il tè con tanto d  i vaso di fiori sul tavolo, molto diverso dalla cruda rappresentazione di denuncia di Admission to a Casual Ward di Luke Fildes e dalle incisioni di Gustave Dorè, capaci di scendere nel “cuore di tenebra” dell’East End londinese e di creare l’immaginario visivo dei bassifondi maledetti. È probabile che la società vedesse il lavoro piuttosto secondo l’interpretazione di Ford Madox Brown in The Work, un’opera fortemente allegorica, ricca di dettagli e personaggi, ognuno dei quali rappresenta una diversa classe sociale e un ruolo nella società del periodo, nella convinzione che si stesse tracciando una via per il futuro e una brusca cesura con il passato. Paxman ricorda che, a differenza del resto d’Europa, in Inghilterra il 1848 non portò alcun moto insurrezionale, e la rivoluzione cartista non attecchì: segno che la maggior parte dei lavoratori dell’epoca sembrava non volere il socialismo, bensì l’opportunità di ambire alla middle class, anche se non mancava chi poneva l’attenzione sulla povertà delle campagne, il triste destino dell’emigrazione e le difficili condizioni di vita dei lavoratori del porto di Londra, gli stessi che furono protagonisti del grande sciopero del 1889. Un altro tema di investigazione del libro è la condizione e la rappresentazione della donna in epoca vittoriana, l’angelo del focolare e padrona della casa, tempio della serenità familiare: la stessa regina Vittoria si faceva ritrarre in una veste intima, semplice e informale, come madre affettuosa e moglie fedele che guardava all’energico e sportivo marito. È l’epoca di Isabella Beeton, autrice di uno dei bestseller più famosi del mondo, il Mrs Beeton’s Book of Household Management, che spiegava per filo e per segno quali fossero i comportamenti da tenere per guidare una casa e una famiglia. Era ovviamente una rappresentazione ideale e artefatta, che nascondeva una dura realtà di emarginazione: la donna non poteva ambire che al matrimonio e non aveva voce in capitolo in caso di divorzio, costretta tra le pareti domestiche e a indossare il micidiale corsetto, così stretto che costringeva gli organi interni serrandoli in una morsa d’acciaio, causando svenimenti, disturbi gravi e deformazioni del fegato. Poteva lavorare, ma il lavoro in fabbrica era un inferno e al massimo poteva fare la domestica e l’istitutrice: The Poor Teacher (o The Governess) di Richard Redgrave ricrea il dolore dell’annuncio di un lutto nella famiglia lontana che una di queste donne ha dovuto abbandonare per cercare lavoro. Inoltre, la prostituzione era diffusissima e largamente tollerata (gli uomini tendevano a non sposarsi finché non avevano raggiunto una certa posizione socioeconomica che permettesse loro di mantenere una famiglia, e pertanto dovevano sfogarsi sessualmente in qualche modo; per non parlare di quando le mogli erano incinte), anche a livello minorile (l’età del consenso era fissata a 12-13 anni), e le malattie veneree erano diffusissime e temutissime (la stessa Mrs Beeton fu contagiata di sifilide dal marito e morì a 28 anni per le sue conseguenze). Ciononostante, alle donne non era però concesso sgarrare in alcun modo: prova ne è il trittico Past and Present di Augustus Leopold Egg, che illustra in maniera melodrammatica le conseguenze dell’adulterio. Per non parlare delle gravidanze extraconiugali: The Outcast di Redgrave mostra una ragazza madre letteralmente buttata fuori di casa con il figlio neonato dalla sua famiglia infuriata, mentre Found Drowned di George Frederic Watts pone l’attenzione su una delle sventurate “donne perdute” che si gettavano nel Tamigi per sfuggire alla vergogna della perdita del figlio, in una posa a croce che ricordava Cristo e suggeriva la possibilità di una redenzione (la donna vittima di un sistema che permetteva l’impunità per i seduttori maschi e allontanava dalle società le donne vittime: perfino nelle workhouse le ragazze madre erano identificate mediante l’uso obbligatorio di determinati indumenti). Il richiamo alla coscienza è invocato anche da The Awakening Conscience di William Holman Hunt, che ritrae una donna che, presa dal rimorso, ha un soprassalto, mentre l’ignaro seduttore (o l’amante) continua a suonare il pianoforte. Anche le eroine shakespeariane Mariana e Ofelia dipinte da John Everett Millais rappresentano diversi aspetti della mancanza di potere delle donne: la prima viene abbandonata dal futuro sposo per aver perso la dote in mare, la seconda è spinta alla follia e al suicidio dal comportamento egoista di Amleto. Troviamo la stessa contraddittoria rappresentazione nel caso dell’infanzia: all’età candida e angelica dell’innocenza dei dipinti corrispondeva una terribile realtà di miseria e sopraffazione, come dimostra il famigerato caso dell’allevatrice Amelia Dyer, che si faceva consegnare bambini dai genitori in cambio di denaro e poi li uccideva in quanto inutili (si stima ne abbia fatti fuori una cinquantina, prima di venire scoperta e impiccata). Ultimo argomento del libro è il recupero della religione, i temi biblici ed evangelici nella produzione dei preraffaelliti, il tentativo di interrogarsi sull’esistenza di Dio, la diffusione dello spiritismo e delle apparizioni, la credenza nelle fate e nel folklore di matrice celtica e la fuga artistica verso quel medioevo fantastico idealizzato delle leggende arturiane nel quale il progresso e le macchine non avevano posto, in diretta controtendenza con il positivismo, il razionalismo e il materialismo del vigente darwinismo. Alfiere di questo mondo fantastico è Richard Dadd, pittore affetto da schizofrenia paranoide (uccise suo padre tagliandogli la gola nella convinzione che fosse posseduto dal demonio) che dipinse The Fairy Feller’s Masterstroke, vera e propria immersione nel magico mondo delle fate (per chi non lo sapesse, il quadro è alla base di una canzone del secondo album dei Queen, ed è una mia ossessione da anni). Ovviamente, il libro è in inglese, e non si può leggere che così (è facilmente scaricabile per Kindle, senza per forza andare al bookshop della Tate Britain). Non credo lo tradurranno, né importeranno il bellissimo documentario della BBC. Così va l’Italia...

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