venerdì 24 ottobre 2014

Brian Rosebury - Tolkien: un fenomeno culturale

La Marietti è una meritoria casa editrice che, con la collana “Tolkien e dintorni”, ha pensato di portare in Italia i migliori saggi su Tolkien per restituire l’autore a se stesso e liberarlo dalle incrostazioni ideologiche che ne affossano il dibattito nel nostro Paese. Con Tolkien: un fenomeno culturale ci troviamo di fronte a un’opera davvero meritoria, che si pone come una sorta di risposta critico-letteraria ai saggi più filologici di Tom Shippey: Rosebury cerca di liberare Tolkien dagli opposti estremismi dell’entusiasmo da fan club da una parte e del disprezzo critico dall’altra, rifuggendo quindi dall’iperbole e dall’esaltazione tipiche del fan e non tessendo le lodi di Tolkien a discapito di tutti gli altri scrittori suoi contemporanei, ma cercando anzi di spiegare che non serve lanciare anatemi contro la letteratura moderna per poi adorare Tolkien in un tempio in cui lui è l’unico idolo, così come è altrettanto inutile giudicarlo come un autore di culto solo per i suoi fan non degno di essere considerato dalla critica accademica. Per questo analizza anche la prosa e la poetica di Tolkien e in certi punti anche la critica, mettendo in luce come talvolta abbia anche dei difetti. Piuttosto, colloca Tolkien come uomo e come autore (soprattutto per quanto riguarda le sue concezioni poetiche e politico-sociali) nelle coordinate stilistiche e letterarie del XX secolo, in relazione alle problematiche del suo tempo e alle interpretazioni, spesso distorte e fuorvianti, che i critici e gli ammiratori hanno voluto loro dare, a partire da quelle allegoriche (Tolkien odiava l’allegoria) o manicheiste (i personaggi sono tutti dotati di una dialettica interna, che parte dal bene e che può tornarvi). A chi contesta al Signore degli Anelli la patente di romanzo per la sua mancanza di realismo e per il suo arcaismo stilistico, Rosebury risponde che il capolavoro tolkieniano è senza dubbio basato su una trama (anche semplice a livello di schema) ma che è tangenziale al romanzo in quanto genere a causa di una sua caratteristica specifica senza precedenti nella tradizione del romanzo: l’elaborazione complessa e sistematica di un mondo immaginario, a livello storico, geografico e linguistico (ogni lingua creata da Tolkien è delineata in maniera talmente elaborata che solo a partire dai nomi propri, il lettore è in grado di riconoscere stili fonetici caratteristici di ciascun popolo e di iniziare a identificare i tratti ricorrenti della formazione delle parole). Questo effetto di coerenza interna e autenticità annulla in maniera decisiva qualsiasi tentazione di individuare allusioni esterne all’interno della narrazione e protegge l’integrità dell’universo di invenzione  ne arricchisce la complessità. Inoltre, l’utilizzo del tema del viaggio in senso strutturale (Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli iniziano e terminano sull’uscio di Casa Baggins) è una parte essenziale dei tratti distintivi rispetto alla tradizione del romanzo, che spiega le numerose divagazioni (soprattutto le avventure degli hobbit appena usciti dalla Contea) apparentemente scollegate dalla trama principale che trasgrediscono i principi dell’unità romanzesca: Rosebury dice che pensare che uno snellimento dell’opera in nome di questi principi la renderebbe più efficace a livello complessivo è del tutto sbagliato (anzi, secondo lui non si può che dare ragione a Tolkien, che cioè il libro era difettoso perché troppo breve). È proprio la vastità del mondo descritto a essere significativa in senso strutturale e tematico: ogni dettaglio in più (comprese le poesie e le Appendici, le parti meno romanzesche in assoluto), se coerente con il resto, rafforza l’impressione di trovarsi di fronte a un mondo che possiede la coerenza del mondo reale; allo stesso tempo, il progressivo aumento di particolari ha l’effetto di ampliare gradualmente la percezione di quello che sta accadendo nella Terra di Mezzo e far rendere conto che il punto di vista degli hobbit (cioè il nostro) è solo parziale, esattamente come la nostra esperienza di vita. Senza contare che gli episodi apparentemente superflui servono per celebrare qualità come l’umorismo, la poesia, il canto e l’amicizia, e soprattutto per rievocare quella calma domestica e quella contemplazione spontanea e creativa che la missione di Frodo deve difendere, in opposizione allo spirito nichilista di Mordor. Un secondo campo di intervento di difesa Rosebury lo riserva a livello stilistico, smentendo le critiche di chi accusa Tolkien di usare espressioni arcaiche e obsolete, visto che il 90% del testo del Signore degli Anelli è assolutamente limpido: la sua sintassi distorta rispetto al consueto ordine del periodo si spiega con la volontà dell’autore di dare un diverso effetto espressivo rispetto al linguaggio colloquiale. è invece importante sottolineare la raffinatezza di uno stile che riesce a rendere le differenze sociali e linguistiche dei vari personaggi e dei diversi popoli (addirittura, il fatto che Théoden ricorra a metafore semplici e domestiche mentre Denethor usi espressioni astratte e simmetriche ci dice qualcosa sul loro diverso carattere e su quanto siano diversi i loro popoli). Rosebury esamina quindi le altre opere narrative e poetiche realizzate o abbozzate da Tolkien nel corso della sua vita, non risparmiando critiche al Silmarillion (pervaso da uno stile tragico, aspro e cupo, che presenta una teologia esplicita e una riflessione sulla diffusione universale del peccato e sulla facilità con cui le creature si lasciano ingannare e corrompere, sul potere tenace dell’orgoglio, dell’avidità e del risentimento, oltre che sugli abissi di crudeltà  e di malvagità a cui essi conducono), scritto in uno stile alto piuttosto stancante e prova di una certa incapacità del Tolkien scrittore maturo di trasformare la sua materia in una narrazione riuscita come Il Signore degli Anelli, ma comunque in possesso di punti di forza, le parti cioè in cui la materia mitica e leggendaria possiede un’audacia, una chiarezza di zione e una forza morali tali da giustificare lo stile elevato: è il caso del mito della creazione da parte di un Dio di intelligenze angeliche chiamate a subcreare con il suo stesso spirito, per Rosebury chiave interpretativa della visione religiosa, estetica e morale di Tolkien. Quelli che partecipano a questo progetto subcreativo possono ottenere che venga conferita realtà ai frutti della loro immaginazione, chi invece resta irretito dalla prospettiva di dominare le proprie (o le altrui) creature, chi cerca di umiliare le cose e le persone create al rango di “macchine”, viene esso stesso umiliato. È una visione che pone Tolkien all’opposto di Hobbes, perché pensa che l’uomo che l’uomo non possieda il diritto naturale al dominio: perfino Dio, per Tolkien, usa questo diritto il minimo indispensabile. Esiste solo il diritto di creare, esaltazione della creazione artistica e letteraria che discende direttamente dal romanticismo e che è espressa compiutamente in un’opera minore come Foglia di Niggle. Un principio che, allo stesso tempo, per Rosebury spiega l’atteggiamento di simpatia di Tolkien verso un’anarchia cristiana nei confronti della politica secolare e delle istituzioni, da lui concepite come intrinsecamente coercitive, perché solo la libera adesione dei singoli al volere di Dio poteva per lui produrre una buona società. Con buona pace di chi ancora vorrebbe Tolkien cantore di un autoritarismo antimoderno e magari critica la splendida interpretazione di Wu Ming 4 sul libero arbitrio e la contestazione dell’autorità in Tolkien: Rosebury è sulla stessa lunghezza d’onda. Su Tolkien come fenomeno culturale vero e proprio (a cui fa riferimento il titolo del volume) verte invece l’ultimo capitolo, dedicato all’influenza che il mondo del Signore degli Anelli ha esercitato sul mondo dei giochi e dei videogiochi, sulla sua assimilazione a generi e contesti a lui estranei, sulla letteratura fantasy post-tolkieniana e sugli adattamenti dell’opera, come quello radiofonico della BBC del 1981, quello cinematografico di Ralph Bakshi del 1978 e, soprattutto, quello di Peter Jackson nei primi anni Duemila. Proprio qui, a mio avviso, Rosebury si dimostra meno convincente: le sue critiche, espresse in corso d’opera (al momento in cui scriveva, erano usciti solo due dei tre film della trilogia di Jackson), a quello che è ormai ritenuto a tutti gli effetti un classico a dieci anni di distanza, risultano forse dettate dalla sensazione del momento e dalla sua personale sensibilità (come si fa a bollare la colona sonora di Howard Shore come “wagneriana”, nell’accezione peggiore del termine?) e finiscono per farlo assomigliare un po’ al tipico critico bacchettone armato di matitone rosso e blu, anche se trovo interessante la critica all’immaginario visivo basato sui lavori di Alan Lee e John Howe partendo dal presupposto che le influenze predominanti in Tolkien erano la pittura preraffaellita, i disegni di William Morris e l’Art Nouveau. Inoltre, la sua riflessione sul fatto che durante la visione del film si è consapevoli di star vedendo la Nuova Zelanda e non la Terra di Mezzo, a dimostrazione dell’abisso che divide la narrativa dall’adattamento cinematografico, potrebbe essere facilmente smentita, visto che per moltissimi fan (me compreso) la Nuova Zelanda È la Terra di Mezzo, e la si pensa esattamente così.

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