venerdì 28 novembre 2014

Sophie Kinsella - I love shopping

Sono ormai passati sei anni e mezzo da quando sono stato per la prima volta in compagnia delle avventure di Rebecca (Becky) Bloomwood nel primo capitolo di I love shopping di Sophie Kinsella, primo romanzo (ne ho già parlato QUI) che è rimasto anche l’unico per me dal momento che, nonostante abbia letto molti altri libri della scrittrice britannica, non ho proseguito con gli altri capitoli della saga (e di questo mi rammarico). Soprattutto, in mezzo c’è stato anche il deludentissimo film con Isla Fisher, che non è riuscito minimamente a ricreare il piglio frizzante del libro, almeno per come me lo ricordavo. Ora l’ho riletto, e devo dire che non ha perso un grammo della sua simpatia e del suo brio. Le ragioni di un simile successo (sono ormai sei i sequel, per un totale di sette romanzi) sono ovvie: la protagonista creata dalla Kinsella (cioè il prototipo della donna kinselliana, quella che poi è protagonista in tutti gli altri romanzi dell’autrice, anche se con altri nomi), con tutte le situazioni buffe in cui viene catapultata (soprattutto per colpa sua), è un personaggio memorabile. Becky fa la giornalista per una rivista finanziaria, cioè dice alla gente come gestire le proprie finanze, senza capire nulla di finanza e senza nemmeno sapere come gestire le sue di finanze, dal momento che è piena di conti in rosso e continua a essere colta dalla sindrome dello shopping compulsivo (quella particolare patologia che porta a sentirsi appagate solo comprando qualcosa, se in saldo meglio così si fa un affare e ci si illude di aver risparmiato, e a immaginarsi che quel particolare capo di vestiario le darà la celebrità); ha una vita insoddisfacente, un lavoro che non le piace (ammette di aver solo imparato a copiare un comunicato e ad annuire con espressione intelligente alle conferenze stampe, oltre che a fare domande come se sapesse di cosa sta parlando e a presentarsi alle occasioni importanti con il “Financial Times” sotto braccio per essere considerata una persona intelligente). È una bugiarda inveterata, rifiuta di fare i conti con i propri problemi, adduce ogni volta scuse inverosimili per non pagare (che le è morto il cane, che si è fratturata una gamba, che ha contratto la mononucleosi infettiva o che “ha trovato il Signore e accolto la salvezza di Gesù Cristo”), si inventa che il responsabile della banca che la perseguita sia un molestatore seriale, passa il tempo immaginandosi che le sostituiscano per errore l'estratto conto con qualcun altro, di ricevere una distribuzione di proventi straordinari da parte della sua banca o di vincere la lotteria (accorgendosi però che non potrebbe ugualmente permettersi una casa a Belgravia, sentendosi una pezzente). E le cose le vanno pure bene: l’ottimismo della Kinsella è veramente contagioso.

lunedì 10 novembre 2014

Gianfranco De Turris (a cura di) - "Albero" di Tolkien

L’ho già scritto: dopo Difendere la Terra di Mezzo di Wu Ming 4 e Santi pagani nella Terra di Mezzo di Tolkien di Claudio Testi, parlare di Tolkien in Italia sarà difficile per tutti. Figuriamoci per opere precedenti come questo “Albero” di Tolkien, allegra e scalcinata cavalcata agiografica nei territori del simbolismo a cura di Gianfranco De Turris che riunisce saggi di autori “di destra” e rappresenta bene l’appropriazione che è stata fatta in Italia (e sottolineo solo in Italia) di Tolkien da parte di questa parte politica. Infatti, paradossalmente, mentre negli Stati Uniti Il Signore degli Anelli era considerata la bibbia delle beat generation americana, degli hippie e dei giovani contestatori di Berkeley, in Italia fu totalmente ignorato dalla sinistra (per un vecchio pregiudizio contro la narrativa fantastica e forse una certa miopia ideologica) e trovò asilo politico a destra, finendo per essere interpretato alla luce del mito, del simbolismo, della spiritualità iniziatica e del neopaganesimo (e, per un fenomeno tipicamente italico, Tolkien divenne ipso facto un autore fascista). Fu addirittura fonte d’ispirazione per i famigerati Campi Hobbit (1977-1980), espressione della nuova destra giovanile in contrapposizione all’MSI di Almirante (che non li riconobbe mai), della cui esperienza De Turris rivendica subito l’autenticità con il plurale “noi”. A dargli manforte è Mario Bortoluzzi, che illustra le ragioni di simile appropriazione (indebita): «L’“identificazione” immediata da parte dei giovani missini con la “visione della vita antimoderna, tradizionale e spirituale” espressa nei racconti del professore inglese e la “demonizzazione” dell’opera tolkieniana operata da larga parte dell’intellighenzia della sinistra nostrana (Umberto Eco in testa) che bollò come oscurantista e reazionaria la produzione di Tolkien. Fu un riconoscersi collettivo, in primis, nei confronti dei principali protagonisti de Il Signore degli Anelli, gli hobbit. Perché hobbit “si sentirono”… quei giovani, in guerra contro l’Oscuro Signore che già allora ammorbava la Terra di Mezzo con la dittatura del “pensiero unico”, la distruzione dell’identità dei popoli e la selvaggia devastazione della natura ad opera dei moderni orchi. […] Non fu né appropriazione, né mistificazione, come qualcuno recentemente ha insinuato a proposito “dell’uso strumentale di Tolkien da parte della Destra”, fu “identificazione immediata”. […] Il rifiuto di una concezione materialista e consumista della vita e delle cose, la riaffermazione di un universo valoriale che traeva linfa e origine dalla Tradizione così come era stata per anni rappresentata da autori come M. Eliade, R. Guénon e J. Evola (quest’ultimo soprattutto in Rivolta contro il mondo moderno) e il contemporaneo desiderio di superare vecchi schemi ormai logori e non più comprensibili ai contemporanei, tutto ciò, trovò nell’universo tolkieniano un efficace veicolo espressivo metapolitico». Proprio il riferimento a questi autori, e specialmente a Evola, fornisce in pieno il senso della lettura di Tolkien operato dalla destra. De Turris dice chiaramente che Tolkien era un uomo di destra, «un cattolico fra i protestanti, un cattolico tradizionalista fra i cattolici, un conservatore dal punto di vista etico e morale, un monarchico, un patriota, un antidemocratico», una specie di cantore della Tradizione contro la Modernità, il campione delle «civiltà del tempo che rimangono immutabili durante il volgere dei secoli» contro «le civiltà dello spazio che si espandono solo a livello fisico sul pianeta», di un «mondo che si basa su una concezione spirituale, metafisica, sacra e tende verso l’alto privilegiando l’essere» contro «una società che i basa sulla indifferenziazione democratica». Lo stesso ricorrere alla metafora dell’albero del titolo del volume e alla divisione in radici, rami e foglie prende pretestuosamente spunto dalla frase di Tolkien “le radici profonde non gelano” (ripetuto continuamente a mo’ di mantra lungo tutti i saggi) e innesta l’immaginario tolkieniano nel solco della Tradizione, rendendolo così capace di rigenerare il mondo moderno. A completare poi la lettura evoliana ci pensa Sebastiano Fusco che sostiene che nell’opera di Tolkien si possono rintracciare simboli (eterni e immutabili) di qualcos’altro, a prescindere dal contesto, dalla trama in cui sono calati e perfino dalle intenzioni dello stesso autore (che li avrebbe così inseriti involontariamente), con l’inevitabile conseguenza della decontestualizzazione; così, la spada di Aragorn rappresenterebbe la regalità, il combattimento di Gandalf contro il Balrog un procedimento alchemico e l’aquila un simbolo di elevazione spirituale. Ancor peggio fa Stefano Giuliano che, attraverso un esercizio di mitologia comparata a prescindere dall’epoca storica e dal contesto, applica a Tolkien la tripartizione funzionale oratores, bellatores e laboratores (sacerdoti, guerrieri e allevatori) tipica dei popoli indoeuropei elaborata da Georges Dumézil, senza che ci sia la benché minima prova della conoscenza di simile teoria da parte di Tolkien. La stessa teoria viene applicata da Adolfo Morganti nella lettura dell’eroe (Aragorn, eroe arturiano), che deve scoprire la sua chiamata a divenire simbolo della sintesi e quindi dell’intera communitas attraverso un percorso di tipo iniziatico e un’epopea di restaurazione. Sempre a questo proposito, Errico Passaro analizza l’eroe tradizionale (nelle sue varianti solare e lunare) in senso junghiano e nietzschiano (l’eroe solare è superiore alla dimensione etica e non disdegna di ricorrere alla furia cieca e nichilista per affermarsi) e si dilunga nell’analisi degli attributi di Aragorn, che secondo lui assommerebbe in sé le 22 caratteristiche minori dell’eroe elencate da Lord Raglan; soprattutto, per Passaro, Aragorn assomiglia «più ad un re e ad un eroe pagano, legato ad un’etica guerriera senza mezzi termini, che ad un Carlo Magno ante litteram». Ed ecco introdotto il particolare del paganesimo (notare che per De Turris, come già detto, Tolkien era cattolico): Alberto Lombardo vuole dimostrare in ogni modo e senza possibilità di smentita che Tolkien è un politeista e che la sua epica vede trionfare «un’etica guerriera, nobile, eroica». A partire dall’origine degli dei e del mondo così come raccontata nel Silmarillion, l’uomo non sarebbe il fine ultimo della creazione e non sarebbe il figlio unico e prediletto del Dio unico, perché è dotato di libero arbitrio ma deve convivere in un mondo di esseri diversificati, tanto che (e questa è un’affermazione pesante e ampiamente discutibile) «se Il Silmarillion e Il Signore degli Anelli fossero stati pubblicati anonimi, nessun lettore avrebbe potuto ragionevolmente immaginare che ne fosse autore un cristiano». Poco importa dunque se De Turris ha già scritto che Tolkien era cattolico: serviva solo per sottolineare che era un cattolico tradizionalista, che per De Turris significa che seguiva la Tradizione, quella di Evola, in lotta contro il mondo moderno, non la liturgia cattolica in latino pre-Vaticano II (come invece significa essere “cattolico tradizionalista”). Un trucchetto che gioca con le parole e suggerisce qualcosa di diverso e funzionale al discorso, in linea con una lettura distorta, partigiana e decontestualizzata dell’autore, dei suoi motivi e delle sue fonti, inserito in un contesto che non gli appartiene e, soprattutto, al di fuori di quelli che sono i maggiori studi internazionali sul tema: è come se De Turris e i suoi avessero creato un circolo autoreferenziale i cui membri continuano a citarsi da soli, rendendo Tolkien un fenomeno estremamente provinciale (vanificando così anche capitoli più ragionati e complessi come i due saggi di Marco Respinti sulle fonti letterarie di Tolkien e i suoi rapporti con C.S. Lewis). Non gioca poi a favore del libro la presenza del saggio Frodo Baggins, l’eroe che non ha fallito a firma di Gianluca Casseri, responsabile dell’uccisione a colpi di arma da fuoco di due senegalesi a Firenze a fine 2011 prima di togliersi lui stesso la vita, cosa che ovviamente non fa in alcun modo di De Turris e degli altri autori dei criminali conniventi ma, semmai, lascia aperti degli inquietanti interrogativi sul legame di una certa destra con il razzismo xenofobo. Più interessante si rivela l’analisi delle divinità e delle figure femminili da parte di Chiara Nejrotti, forse troppo improntata a un approccio da mitologia comparata ma comunque convincente del dimostrare che il mondo di Tolkien è monoteista e che in esso sono confluiti elementi biblio-cristiani (le potenze angeliche, la Vergine Maria), pagani (gli dei delle saghe nordiche) e medievali (l’amor cortese); ribatte all’accusa di poca considerazione nei confronti delle donne, come se Tolkien le ritenesse incapaci di autonomia, e dell’assenza della sessualità nel rapporto uomo-donna (accusa che «nasce più dal voler giudicare con la mentalità tipica del nostro mondo contemporaneo e desacralizzato qualcosa che ad essa non appartiene»), perché Tolkien non era un misogino o un puritano a oltranza e non giudicava la sessualità un tabù intoccabile, ma la considerava «come un fatto naturale, che appartiene automaticamente al rapporto di coppia correttamente inteso come unione di corpi e anime». La Nejrotti è convincente nell’attribuire uguale importanza a uomini e donne anche a livello sociale, anche se la sua concezione (figlia del simbolismo) è un po’ statica e non considera la dialettica sociale (come nel bellissimo saggio di Tom Shippey in appendice a Difendere la Terra di Mezzo di Wu Ming 4) e generalizza forse un po’ troppo quando dice che le figure femminili in Tolkien agiscono su una dimensione spirituale, di guida e di consiglio, di preveggenza e di lungimiranza, a differenza delle figure maschili che intervengono sul piano materiale, fisico e guerriero. Convincente è anche Edoardo Volpi Kellermann che affronta il tema della musica, così importante perché tutto il Legendarium tolkieniano nasce da essa (la creazione attraverso la musica nel Silmarillion e le canzoni di cui è pieno Il Signore degli Anelli) e perché è un campo che ha a che fare direttamente alle sensazioni, e mai Tolkien ha smesso di ispirare generazioni di musicisti di diversi generi (medievale, celtico, sinfonico, heavy metal, addirittura jazz). Così come è apprezzabile il tentativo di spiegazione che Volpi Kellermann dà del successo tolkieniano: «Un libro come Il Signore degli Anelli viene apprezzato dal quindicenne che vi trova avventura ed eroi dotati di spessore umano, dallo studioso di mitopoietica che vi scopre con piacere la profonda rielaborazione dei temi classici, dal filologo che ne apprezza la ricercatezza nella prosa e nella creazione dei nomi e dei linguaggi, dal libero pensatore che trova in esso una luce di verità in un mondo in apparente decadenza, dallo psicologo e dal filosofo che trovano in esso materia prima per la rielaborazione di valori primari e di una morale autentica ed a-temporale, dal creatore di immagini che trova in esso un’infinita fonte d’spirazione». Chiude il volume una rassegna degli sviluppi pratici del Legendarium nella società moderna, dal cinema all’oggettistica, dai giochi di ruolo e dai videogiochi ai fumetti e alle illustrazioni: un elenco inevitabilmente lacunoso ma abbastanza in grado di dare un’idea di quello che è il fandom tolkieniano. 

martedì 4 novembre 2014

Michael Faber - Il petalo cremisi e il bianco

Tutto quello che è vittoriano mi affascina da sempre, e non ha fatto di certo eccezione questo Il petalo cremisi e il bianco (titolo derivato da una poesia di Tennyson), titanico librone di mille pagine scritto da Michael Faber (che, a quanto pare, ha impiegato ben 21 anni per metterlo insieme), un romanzo storico che è anche un tour nella Londra sporca e sordida del 1875, specchio esteriore di una sporcizia e di una sordidezza morale ed esistenziale. Qualcuno si è arrischiato a dire che per tematiche, ambiente e personaggi questo è il romanzo che Dickens avrebbe voluto scrivere ma non ha mai potuto farlo, ma mi paiono esagerazioni: la tecnica narrativa di Faber (che ne tradisce tutto lo spirito postmoderno) è ben poco dickensiana e inizia subito simile alla cinepresa di un regista che volteggia in piano sequenza e passa da un personaggio all’altro, guidando il lettore e raccomandandogli spesso di seguire le persone che lui indica e di lasciar perdere altri. Peccato che questa tecnica di indubbio fascino (anche se leggermente compiaciuta) pian piano scompaia e che la narrazione ben presto si ricollochi sui binari dei diversi punti di vista separati tra loro attraverso cui la storia procede (insomma, non c’è uniformità dal punto di vista stilistico, ed è un peccato). L’occhio del narratore onnisciente (che ammicca più volte e si riferisce anche a cose che verranno solo parecchi anni dopo, come per esempio a Jack lo Squartatore) ci introduce il personaggio di Caroline, una prostituta dalla vita dura e senza alcuna pretesa oltre a quella di sopravvivere (caratteristica questa che è già la chiave di lettura del romanzo) dopo che le sono morti il marito e il figlio. Caroline non è però la protagonista, ma ci fa da tramite per il vero personaggio centrale della vicenda, la sua collega Sugar, una ragazza di 19 anni e prostituta dall’età di 13, avviata al mestiere da sua madre, la sinistra Mrs. Castaway, tenutaria di un bordello e collezionista di stampe e immagini di santi (talmente piena d’amore per la figlia che, interrogata su cosa sia il Natale, le risponde: «È il giorno in cui Gesù Cristo è morto per i nostri peccati. Senza alcun risultato, visto che li stiamo ancora scontando»). Sugar non è la classica bellezza mozzafiato: è mascolina, magra, alta, con la psoriasi e la voce rauca (a causa di un problema con un cliente), ma nonostante questo è una delle prostitute più conosciute e ricercate di Londra (lei fa tutto, anche le cose che le altre prostitute reputano disgustose), è gentile e amatissima dai clienti mentre in realtà, nella solitudine della sua stanza, sta componendo un’opera letteraria che lei chiama “di vendetta” nei confronti di tutti quelli che hanno abusato di lei. La sua storia si incrocia con quella di William Rackham, secondogenito di un importante imprenditore a capo di una famosa industria di cosmetici: indolente e con velleità letterarie, incallito frequentatore di prostitute (si sa, in qualche modo si devono pur dimenticare le preoccupazioni della vita!), William è disgustato dal desiderio di fare più soldi quando bastano e avanzano quelli già fatti, anzi propugna l’idea che la ricchezza in eccesso vada dirottata nelle casse pubbliche e distribuita tra gli indigenti e i senzatetto (potremmo definirlo un socialista utopista). Il padre vorrebbe invece lasciargli l’azienda e, per spronarlo a mettersi in riga, gli taglia i viveri, così William è costretto a vivere nelle ristrettezze, senza minimamente sapere come fare il lavoro che gli vuole imporre il padre e, soprattutto, con una moglie che soffre di problemi di depressione. Venuto a conoscenza dell’aura leggendaria di Sugar, la vuole conoscere, la incontra in un pub, rimane incantato dalla sua cultura e dalla sua intelligenza (il fascino di una donna che disquisisce di letteratura!) e finisce per perdere la testa per lei, giungendo al punto di pagare per tenerla tutta per sé (lei è stata la prima che lo ha fatto sentire ricercato e capito). Le compra una casa che arreda, la riempie di vestiti, si mette concretamente a lavorare nell’azienda del padre, ascolta i suggerimenti di Sugar in merito alla sua attività, giunge addirittura a farla entrare in casa come istitutrice della figlia Sophie, e questo fatto (vero e proprio deus ex machina che spacca letteralmente in due il romanzo) fa sì che le cose comincino ad andare in maniera drammaticamente diversa. Da una parte Sugar si immedesima nella bambina rivivendo il suo rapporto con la madre che l’ha educata nell’odio per la vita e per gli uomini, dall’altra entra in contatto (mai diretto) con la moglie di William, Agnes, infantile, cattolica e malata per via di un tumore che le preme da dietro un occhio e la fa sragionare, ma che viene curata dal dottor Curlew (forse la stessa persona che ha rovinato Caroline) che è interessato a capire dove si è spostato il suo utero, convinto com’è che la pazzia delle donne sia solo un fatto isterico, e che pertanto le crea sempre più disagio. Non si può non provare pena per quest’infelice donna che sogna di angeli e suore e di un posto pacifico dove finalmente ci si prenda cura di lei, ma che a malapena sa di avere una figlia, anzi non ha nemmeno idea di cosa voglia dire avere un ciclo mestruale (leggendo i suoi diari, Sugar si rende conto che crede di avere una malattia che la fa sanguinare); così come non si può provare disprezzo per un uomo meschino come William, campione di ipocrisia e perbenismo. Faber si prende tutto il tempo per descrivere i personaggi e le loro preoccupazioni, denuncia le contraddizioni dell’epoca vittoriana (lo splendore dei teatri e la miseria delle zone popolari, la condizione di emarginazione della donna dell’epoca, il moralismo che blocca a livello affettivo certi personaggi come il fratello di William, Henry) e crea un universo narrativo talmente delineato e dettagliato da risultare davvero immersivo (anche se a tratti decisamente preponderante), ma fondamentalmente spinge in ogni modo la simpatia del lettore nei confronti di Sugar (non la solita eroina, ma una donna forte che è passata attraverso varie sventure e si è creata un carattere proprio grazie a esse, e che alla fine rompe la logica della sottomissione con la sua decisione finale) e vuole trasmettere l’idea di un mondo in cui l’amore non esiste ma si parla solo di affezione e sentimenti in cambio di qualcosa (autostima, sesso, protezione, denaro): per farlo abbonda di cadute di tono e volgarità molto crude e gratuite degne del Profumo di Süskind, per non parlare delle recriminazioni di Sugar contro Dio che sfiorano la bestemmia, e non è un caso che le numerose descrizioni di amplessi presenti nel romanzo siano quanto di più lontano dall’erotismo possa esistere. Per tutte queste ragioni, oltre che per la freddezza con cui tratta i suo protagonisti e per le lunghe digressioni che ne rallentano la lettura, il romanzo può avvincere come annoiare. Certo non è banale, ed è in grado di lasciare addosso un senso di nausea difficile da mandare via.