martedì 24 marzo 2015

Walter Scott - Rob Roy

Esce per Gondolin, per cui il sottoscritto ha già curato la riedizione del classico Il cavaliere di Lagardère di Paul Féval, Rob Roy di Walter Scott, padre del romanzo storico famoso di solito per essere servito da ispirazione per I promessi sposi di Alessandro Manzoni. Non un romanzo di cappa e spada, questa volta, ma un bel romanzo di avventura incentrato sulla figura storica di Rob Roy MacGregor, bandito e razziatore, patriota e giacobita, che si guadagnò la fama di Robin Hood scozzese nel periodo di agitazione politica conseguente all’unione della Scozia con l’Inghilterra che portò alla fine del mondo dei clan (tutte cose tornate recentemente di moda grazie al successo della serie televisiva Outlander, tratta dall’omonimo romanzo di Diana Gabaldon). Il mio incontro con lui risale al 1996, in concomitanza del mio cambio di PC, e precisamente con il CD-Rom di installazione di Windows 95: nel dischetto, infatti, era disponibile il trailer dell’omonimo film con Liam Neeson e Jessica Lange, una specie di Braveheart ambientato nel Settecento (e non nel Trecento) che vedeva fieri scozzesi in kilt combattere contro i cattivissimi inglesi. Ovviamente, di Rob Roy non avevo mai sentito parlare prima, e solo durante la mia vacanza-studio in Scozia nell’estate del 1998 sono venuto nuovamente a contatto con questa figura storica ammantata di leggenda. In seguito ho scoperto che su di lui ci aveva scritto un romanzo anche Walter Scott e, vista la sua assenza dal mercato editoriale, ho pensato di riproporlo in edizione restaurata. Fatta questa doverosa premessa, è bene chiarire che, nonostante il titolo, la storia narrata non è affatto imperniata sulle gesta di Rob Roy e con il film non c’entra nulla. Anzi, per essere precisi, questo bandito generoso e dagli illustri natali resta sempre sullo sfondo, comparendo solo a metà libro e come un vero e proprio deus ex machina, il cui intervento nei momenti più opportuni fa volgere per il meglio le cose, anche a costo della sua vita (sulla sua testa pende una grossa taglia, ma nonostante questo gira per Glasgow ed entra nella prigione della città). Ambientato alla vigilia della rivolta giacobita in Scozia del 1715, il romanzo racconta fondamentalmente di un viaggio, quello compiuto dal giovane Francis Osbaldistone, protagonista dell’intera vicenda, e, come sempre accade, il viaggio è simbolo di maturazione e di crescita per chi lo compie: in questo caso, si tratta di un viaggio in un altrove non fantastico ma reale, la Scozia dei clan e delle ribellioni giacobite, così strano e peculiare da sembrare appunto fantastico, simbolo di un passato barbarico (rappresentato dai clan e dagli Stuart) che cozza con il presente (il regno unitario degli Hannover). A questo viene connesso il tema dell’accettazione di una visione concreta della vita: all’inizio della vicenda, infatti, il nostro Francis è un indolente sognatore che pensa di dedicarsi alle proprie illusioni poetiche (ed è a tutti gli effetti un poetastro da strapazzo) e di vivere di rendita grazie alla posizione di suo padre, il quale vorrebbe invece che il figlio si impegnasse nell’azienda di famiglia a Londra. Siccome a quei tempi i bamboccioni venivano mal tollerati, Francis si ritrova diseredato e buttato fuori di casa, sulla via per il castello di suo zio (fratello di suo padre) nel Northumberland, nel nord dell’Inghilterra. Gliene capitano di tutti i colori: viene accusato di aver depredato un viandante di certi importanti documenti, si inimica il cugino Rashleigh (destinato a sostituirlo nell’azienda paterna) e scopre che questi ha complottato per rovinare suo padre, si innamora senza speranza della cugina Diana e parte per la Scozia dove si ritroverà al centro di uno scontro tra giubbe rosse e guerrieri delle Highlands. Alla fine del viaggio, sempre secondo tradizione, il nostro eroe ritornerà arricchito non solo nello spirito ma anche nelle tasche: soprattutto, avrà acquistato senno e concretezza, e non è un caso che, nel bel mezzo della rivolta, prenda l’iniziativa, si ritrovi a capo di un reggimento di uomini e riprenda legittimo possesso dell’azienda paterna. Strutturalmente, il romanzo si divide in due parti che pongono i personaggi in situazioni e ambienti diversi: la prima si svolge principalmente nell’ambito di Osbaldistone Hall (la casa dello zio di Francis) nel Northumberland, la seconda invece abbraccia l’azione e catapulta il nostro protagonista prima a Glasgow e poi nelle Highlands, in un mondo ostile e ignoto, dove l’azione subisce una brusca accelerata. I temi romantici (il maniero avito, l’amore tormentato) sono ben presenti, così come qualche eccessiva lungaggine, specie all’inizio (il romanzo è del 1817 e risente delle riflessioni moraleggianti che si usava inserire a quel tempo); inoltre, l’ambientazione storica e i risvolti politici potrebbero risultare indigesti a un lettore italiano non avvezzo a questi temi. La caratterizzazione dei personaggi però è convincente: il balivo Nicol Jarvie, integerrimo e leale ma cavilloso e concreto (al punto che, di fronte alla selvaggia bellezza di Loch Lomond, dichiara che sarebbe bene, a fini economici, prosciugarlo); il giardiniere e servitore Andrew Fairservice, impiccione e fanfarone nonostante la viltà e il furore protestante; Diana Vernon, coraggiosa e diretta al punto di essere anticonformista ma addirittura pronta a rinunciare all’amore e a una vita serena in ossequio ai suoi ideali cattolici e giacobiti; i cugini di Francis, gretti e volgari, intenti nelle occupazioni più futili e ben poco inclini alle questioni importanti; il perfido cancelliere Jobson, fautore di una giustizia spietata l’inquietante Owen, capo-contabile la cui cieca dedizione al lavoro della ditta coincide con una completa rinuncia a se stesso come individuo e al discernimento nel sapersi scegliere gli agenti più fidati, quasi una replica dei mercanti di Boccaccio che esprimevano “la ragion di mercatura”. Infine, una nota di merito per il malefico Rashleigh, il villain del romanzo, zoppo e deforme ma dalla voce suadente e dalle maniere compite. Diverso da tutti i suoi fratelli, è colto, astuto e ambizioso: il suo odio per Francis è assoluto e non esita a proclamarlo perfino in punto di morte (mentre Francis, da bravo eroe, ripudia la sua avversione davanti al nemico morente), lasciando questa vita pieno di orgoglioso rancore. Un altro motivo di interesse del romanzo è la tecnica narrativa che, dall’inizio alla fine, fa rivolgere il protagonista a Will Tresham, figlio del socio di suo padre, che non ha alcun ruolo se non quello del destinatario: un espediente, questo, che permette di raccontare il mondo dei clan scozzesi a un lettore moderno e borghese con il suo stesso occhio, abbattendo le eventuali barriere date dall’evocazione di una realtà così remota e particolare. In altre parole, Will Tresham siamo noi, ed è a noi che Francis Osbaldistone rivolge il racconto della sua avventura. Ultima notazione: l’edizione è tutta illustrata con illustrazioni di fine Ottocento, e devo dire che aggiungono veramente molto.

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