domenica 15 marzo 2015

William H. Green - Lo Hobbit. Un viaggio verso la maturità

La straordinaria editrice Marietti continua a deliziarci con uscite tolkieniane di livello e questa volta lo fa con questo saggio di William Green che, senza timore di smentite, non esito a definire il più bel libro mai scritto su Lo Hobbit, romanzo straordinario apparso in un periodo (gli anni Trenta) dominati dal razionalismo e dal modernismo, in cui «le aberrazioni e le fantasie erano solitamente situate nella mente, spesso malata, di personaggi che si muovevano in ambientazioni realistiche» e «il bene e il male non dovevano essere polarizzati e chiariti dall’autore ma dovevano imitare i valori offuscati dell’esperienza umana reale»: da un’opera moderna di narrativa seria ci si aspettava insomma che fosse moralmente realistica, cioè che evitasse di dirci se un personaggio era buono o cattivo, anzi doveva evitare di rappresentare chiare polarità morali. In quanto medievista, Tolkien considerava questi pregiudizi come patologie del pensiero moderno che non si dovevano applicare alla letteratura per ragazzi (la cui mente è ricettiva nei confronti del fantastico e richiede una moralizzazione) e, grazie a quest’opera, «poté condividere con un vasto pubblico i miti del sacrificio e dell’integrità, valori cristiani permeati dei miti pagai dell’Europa settentrionale» di cui erano intrise le opere da lui amate e studiate (il Beowulf, il Sir Gawain e il Cavaliere Verde, la Saga dei Volsunghi), un patrimonio di leggende che scoprì di poter sovrapporre alla narrativa popolare. Realizzò quindi una storia della buonanotte che, inizialmente, non doveva avere niente a che vedere con il corpus di leggende che sarebbero poi finite nel Silmarillion, fatta eccezione per il nome di Elrond (tenuto, pare, per pigrizia) e il riferimento a Gondolin, ma che possiede tematiche prese direttamente da quell’universo: l’Arkengemma è infatti, a tutti gli effetti, “un Silmaril a misura di nani” che ha su Thorin lo stesso effetto corruttivo che i Silmaril hanno sugli elfi del Silmarillion (tanto che lo stesso Tolkien temeva, per sua stessa ammissione, di aver dissipato tutti i suoi temi preferiti e i personaggi nello Hobbit). Green legge il romanzo alla luce della teoria delle fiabe elaborata dallo stesso Tolkien, della verosimiglianza ma anche dello stupore fantastico che permette di fuggire dalla realtà senz’anima di un’epoca meccanizzata e materialistica, della sua convinzione del dialogo esistente tra mondo primario (reale) e secondario (quello delle fiabe), e soprattutto alla luce dell’eucatastrofe, l’improvvisa svolta gioiosa nella stessa definizione di Tolkien, che permea la storia nella sua interezza e nelle sue singole parti. Green enuclea cinque parti, ognuna composta di diversi capitoli ma da una medesima struttura, individuandone un’improvvisa svolta gioiosa che risolve una situazione critica, a cui segue un intervallo di riposo in un luogo chiamato “casa accogliente”. Attraverso un approccio psicologico di stampo junghiano, Green dimostra come Lo Hobbit sia «una variazione della storia archetipica sull’apprendistato in cui un eroe privo di esperienza va per il mondo e scopre se stesso attraverso avventure e difficoltà»: un eroe non giovane (Bilbo ha cinquant’anni) ma «un gentiluomo di mezza età che, essendo rimasto troppo vicino a casa, è diventato spiritualmente arido», «una figura comica che deve imporsi coraggiosamente per guadagnarsi un’identità in un mondo in cui egli è quasi immeritevole di essere notato, perfino tra i compagni di bassa statura». All’inizio infatti l’attenzione è rivolta, più che a lui, all’ambientazione, alla sua comoda casa sotterranea, senza alcuna traccia di eroismo: quando Gandalf appare sulla soglia della sua casa per chiamarlo all’avventura (la classica chiamata dell’eroe), Bilbo è a un bivio, «destinato ad avvizzire e morire oppure erompere in una nuova vita». Il romanzo è permeato interamente da una continua dialettica tra infanzia e età adulta, dal conflitto tra la componente paterna Baggins (più conservativa e legata alla tana) e quella materna Tuc (ribelle e avventurosa), tra la vocazione all’avventura e il rimpianto di casa, con il passaggio dall’esterno all’interno (sono numerosissimi, come illustra Green, in cui i nani si trovano intrappolati all’interno di un ambiente) e viceversa (si può venire attaccati anche negli spazi aperti). Inoltre, c’è una continua e insistita simmetria rovesciata tra i luoghi e le situazioni: la collina con la caverna del drago Smaug (che come Bilbo è un solitario ma non ama ricevere visite), la visita di Gandalf e dei nani all’inizio e alla fine, il fumare la pipa che apre e chiude ritualmente la narrazione. Per non parlare del tema del doppio, che torna costantemente: i troll, per esempio, per Green incarnazione della fame infantile, «creature di appetito egoistico che litigano come bambini ingordi», che sono tre e quindi suggeriscono la debolezza che Bilbo deve superare prima che possa svilupparsi. Gollum è poi il vero e proprio doppio di Bilbo, anzi, secondo la terminologia junghiana è la sua “ombra” (quella parte della nostra personalità che rappresenta le caratteristiche che disprezziamo negli altri e non vediamo in noi stessi): come lui, vive sottoterra, in una galleria, su una collina, da solo, e come lui parla da solo, parla di cibo e ha la stessa propensione all’inganno piuttosto che alla violenza. Pur essedo diversissimi, i due si riconoscono, come si vede dalla famosa gara di indovinelli (che a sua volta è costruita sulla contrapposizione sopra-sotto, vita di superficie-vita sotterranea): Gollum è uno specchio e rappresenta quello che Bilbo sarebbe potuto diventare se non fosse mai uscito di casa. Il gioco dei rimandi continua per illustrare quanto lo hobbit nel corso del viaggio cresca in personalità (Bilbo fallisce di rubare ai troll ma riesce a rubare una coppa al drago senza che questi se ne accorga, e riesce utile ai nani proprio quando questi subiscono le conseguenze dei loro errori). Il famoso ritrovamento dell’anello da parte dello hobbit finisce per rappresentare l’unità degli opposti (il lato Baggins e il lato Tuc), spaziali e psicologici (il conscio e l’inconscio), e permette all’eroe di acquistare la connessione con il sé, tanto che, da quando se ne è impossessato, Bilbo non ha più bisogno di Gandalf e riesce a compiere pienamente il suo percorso di conquista della consapevolezza di sé con il “tradimento” dell’Arkengemma («se Bilbo avesse compiuto il suo atto di eroismo finale stimolato da Gandalf, questo sarebbe diventato un atto dello stregone e non il completamento personale di un personaggio eroico. Gandalf torna precisamente quando Bilbo ha svolto con successo il ruolo dello stregone in sua assenza, quando lo hobbit non ha più bisogno di lui: il suo ritorno significa che Bilbo ha interiorizzato nei suoi modesti limiti hobbit i poteri dello stregone»). Per questi motivi, dice Green, Tolkien «ha esplorato il tema tradizionale dell’eroe che va alla ricerca dell’individuazione attraverso una complessa ma elegante sintesi di accenni e decise imitazioni di epiche tradizionali, narrativa del XIX secolo e storie per l’infanzia contemporanee, il tutto infuso, e qui sta forse il suo contributo più personale, di un senso della storia e del potere del linguaggio». Molto interessante quando l’autore spiega l’assenza di figure femminili nel romanzo ipotizzando che Tolkien volesse evitare temi sessuali ma allo stesso tempo occuparsi di rapporti stretti, perché secondo lui nel “mondo caduto” il sesso rovinava i rapporti tra uomini e donne (essendo “l’arma preferita” del diavolo), e che quindi abbia forse dato a figure maschili tratti di quelle femminili (Tolkien stesso ebbe nella sua vita un sacerdote che rivestì il ruolo di sua madre dopo che questa morì): aspetto, questo, da non sottovalutare, considerando che quanto di avventuroso e intraprendente deriva a Bilbo dalla madre Belladonna Tuc. In chiusura, note filologiche sui nomi dei personaggi e dei luoghi (Tolkien era un filologo) e qualche suggerimento su come utilizzare il romanzo in chiave didattica.

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