venerdì 19 febbraio 2016

Lorenzo Pingiotti - La leggenda nera di Papa Borgia

Ne ho già parlato QUI anni fa ma ritorno sull’argomento essendone coinvolto in prima persona: La leggenda nera di Papa Borgia è riuscito per Fede & Cultura con una nuova edizione, una nuova impaginazione e soprattutto una nuova copertina. Molto trash, ma d’impatto. D’altra parte, i Borgia tirano sempre e, negli ultimi due anni, hanno prodotto ben due fiction televisive da più stagioni (qui in copertina campeggia appunto Jeremy Irons, protagonista di una delle due) che hanno continuato a riproporre la vulgata a base di incesti, veleni e omicidi che permane nell’immaginario collettivo (in molti pensano ancora a Lucrezia Borgia come a una dissoluta e a un’avvelenatrice, senza sapere che è morta terziaria francescana). L’idea alla base della nuova edizione è stata quella di riproporre un libro notevole per contenuti con un taglio più commerciale, quindi con una copertina allusiva agli scandali del pontefice in questione ma con un sottotitolo di senso opposto (Perché dobbiamo riabilitare il Pontefice più calunniato della storia), per non parlare della quarta di copertina:
Sacrilego, simoniaco, incestuoso, avvelenatore, nepotista. La storia ha sempre presentato così Papa Alessandro VI, al secolo Rodrigo Borgia, secondo una vera e propria “leggenda nera” che resiste tutt’oggi nell’immaginario collettivo. Nel corso del Novecento, però, non pochi storici e storiografi si sono interrogati sula fondatezza di quelle accuse, domandandosi se non siano piuttosto il risultato della propaganda dei molti nemici politici, primo fra tutti il Guicciardini. Questo saggio scandaglia da vicino il pensiero e l’azione del più controverso Papa della storia, dimostrando come questi in realtà fosse tollerante, frugale e liberale, attento ai movimenti monastici, devoto alla Madonna, sostenitore della pratica del rosario e dell’adorazione eucaristica.
Santo Subito.

Monaldo Leopardi - Monaldo e Pulcinella

Tutti conoscono (e forse odiano, a causa della scuola) Giacomo Leopardi, il maggior poeta italiano dell’Ottocento, ma pochi conoscono Monaldo Leopardi, suo padre, un personaggio che, proprio negli anni in cui stava diventando di moda parlare di costituzione, si professava inflessibilmente reazionario e sostenitore dell’assolutismo monarchico. Fu letterato anche lui, come prova questo libretto su cui ho avuto modo di lavorare per Fede & Cultura, Monaldo e Pulcinella, che raccoglie vari dialoghetti allegorici, grotteschi e paradossali con cui il nostro smonta i dogmi impartiti dalla filosofia e dalla propaganda rivoluzionaria e sovverte il comune modo di pensare secondo cui il paese della libertà coincida con quello della cuccagna (da qui il sottotitolo Dialoghi sui rischi della libertà). Curata da Roberto Marchesini (che ha scritto anche l’introduzione, curiosamente intitolata Il gallinaccio e il trippaccino), l’opera si incentra soprattutto sul Viaggio di Pulcinella (titolo originario Viaggio di Pulcinella. Trattenimento scenico recitato al mondo di oggi per far ridere il mondo di domani), un immaginario viaggio in nove scene di un immaginario Dottore, intellettuale dalle posizioni liberaleggianti, che lascia Napoli per sfuggire all’assolutismo borbonico e approdare in Francia, terra della libertà dove il popolo è apparentemente sovrano. A fargli compagnia troviamo Pulcinella, personificazione del senso comune, cioè quell’insieme di quelle verità che ogni uomo percepisce come giuste e vere anche se non se ne rende razionalmente conto. Con un stile polemico e disincantato, Leopardi mette in scena tutta una serie di personaggi simbolici e allegorici (il finanziere esoso, il militare irragionevole, il proprietario derubato, il giornalista senza scrupoli, l’ideologo fintamente democratico) attraverso cui attacca qualsiasi principio rivoluzionario, colpevole secondo lui di aver portato allo sperpero di denaro pubblico (con salari di sussistenza garantiti a chi non se li merita), all’aumento delle tasse, alla coscrizione obbligatoria, al disinvolto ricorso alla guerra, al declino dei mestieri e del commercio, alla concessione dell’asilo politico a tutti (per portare in futuro disordini e rivendicazioni), alla moltiplicazione di dazi e monopoli (per finanziare la burocrazia di Stato), alla soppressione delle identità locali e all’indifferenza religiosa. Così il viaggio del Dottore e di Pulcinella termina con una precipitosa fuga dal paese della libertà (la Francia) verso il paese dell’assolutismo ingiustamente calunniato (il Regno delle Due Sicilie), e lungo la strada i due incontrano l’Esperienza, che consegna loro una lettera per i re della terra scritta per lei da un certo 1150, alter ego dello stesso Monaldo (1150 in numeri romani diventa MCL, ovvero Monaldo Conte Leopardi). Ci sono poi altri dialoghetti tra Voltaire e Lafayette, tra un filosofo liberale e un assassino («Sicuro che voglio assassinarti, ma vogli farlo secondo le regole, e ti voglio convincere che gli assassini ragionano meglio dei filosofi liberali»), tra una donna filosofa e una donna cristiana, e infine tra lo stampatore e lo scrivano (lo stesso autore che spiega di aver scritto questi dialoghi perché «il mondo è affamato di verità, e per quanto il padre della bugia con tutta la sua figliuolanza si siano maneggiati a screditarla, gli amici della verità sono più di quanto si crede»). Inutile lamentarsi per la lingua difficile e farraginosa: si tratta di un’opera scritta quasi 200 anni fa, e l’italiano è molto cambiato da allora.

lunedì 15 febbraio 2016

Daniel Pennac - La fata carabina

Sebbene sia uno degli scrittori più conosciuti e adorati del globo, Pennac per me era un assoluto sconosciuto. Già questo mi fa partire male. Se poi consideriamo che per iniziare ho scelto il secondo capitolo del Ciclo di Malaussène, saltando completamente il primo (Il paradiso degli orchi), la frittata è fatta. Logico che quindi che, da profano, mi mancassero alcuni elementi, ma ho deciso ugualmente di affrontare la lettura di questo La fata carabina, romanzo troppo strano e particolare per essere catalogato secondo un genere di appartenenza, come si vede già dal ribaltamento presente all’inizio con l’omicidio di un poliziotto da parte di una vecchina. La trama è complessa e mette insieme diversi equivoci (uno strano caso di tossicodipendenza da parte di persone di una certa età, un serial killer che uccide vecchiette a colpi di rasoio, una donna che viene gettata da un ponte vicino al commissariato di polizia) che si verificano nel quartiere-cittadina di Belleville a Parigi, popolato di razze meticce e sovrapposte, e vedono coinvolto il protagonista della nostra storia, Benjamin Malaussène, di mestiere capro espiatorio (per conto delle Edizioni del Taglione) che prende su di sé le sfuriate degli altri. Vive in una famiglia allargata che è una specie di comune, prendendosi cura dei fratellastri che gli vengono periodicamente scaricati dalla madre, viaggiatrice eccentrica che sforna figli a ripetizione sempre da uomini diversi (qui si aggiunge una nuova sorellina, Verdun, a cui viene dato questo nome in ricordo di un vecchietto veterano dell’omonima battaglia). In aggiunta, c’è un grosso cane che soffre di epilessia e una fidanzata giornalista d’assalto che scompare e dà al nostro ben più di una preoccupazione. Soprattutto, in quanto imputato di colpe non proprie, Malaussène è il capro espiatorio perfetto per fatti di cronaca apparentemente inesplicabili sui quali indagano il commissario Cercaire e gli ispettori Rabdomant, Pastor e Thian (che indaga sotto le mentite spoglie di una vecchietta vietnamita). Pennac mescola thriller e umorismo nero, con tocchi noir e pulp, e se nella prima parte si fa fatica a imparare a conoscere personaggi grotteschi e strampalati e a seguire tutti i fili di una narrazione non immediata («Un mondo dove dei serbo-croati latinisti fabbricano donne-killer nelle catacombe, dove vecchie signore ammazzano gli sbirri incaricati di proteggerle, dove librai in pensione sgozzano per la gloria delle Belle Lettere, dove una cattiva ragazza si defenestra perché il padre è più cattivo di lei»), nella seconda il ritmo si fa più sostenuto fino all’inaspettato (e felice) finale. Molto interessante si rivela la scrittura: Malaussène è il protagonista che racconta le vicende in prima persona, con tanto di timori e sfoghi espressi contro Dio, ma le sue avventure riguardano solo una parte della narrazione, che si estende agli ispettori di polizia (soprattutto Pastor) e alle loro indagini, raccontate in terza persona (per non parlare delle sezioni scritte come una sceneggiatura). La voce di Malaussène diviene quindi una specie di “voce collettiva” che fa da collante alle vicende, in conformità alla sua funzione di capro espiatorio. In più c’è un grande e dichiarato amore per la letteratura e la lettura come puro piacere (il vecchio e misantropico ex libraio Risson che ogni sera racconta, facendolo vivere, Guerra e pace ai fratelli di Malaussène), capace di trasformarsi in realtà con il passaggio di consegna finale in cui sarà Thian a raccontare gli avvenimenti a cui tutti quanti hanno preso parte e ormai divenuti romanzo (La fata carabina, appunto). Folle ma ambizioso.

martedì 2 febbraio 2016

Teresa Radice, Stefano Turconi - Il porto proibito

La graphic novel che non ti aspetti. Soprattutto perché viene dall’Italia. Concepito e realizzato da Teresa Radice (testi) e Stefano Turconi (disegni), pubblicato dalla sempre eccellente BAO Publishing, Il porto proibito mi ha folgorato e commosso, tenendomi incollato alle pagine nonostante le notevoli dimensioni (oltre 300 pagine). Un’avventura alla Stevenson (citato nel cognome del protagonista, oltre che in un altro personaggio di nome Benbow, come la locanda de L’isola del tesoro) con atmosfere alla Master & Commander, ma che non è un racconto di avventura in senso classico. Ambientato nei primi anni del 1800, durante le guerre napoleoniche (il periodo d’oro della marina), racconta la storia di Abel, un ragazzino che ha perso la memoria e viene ripescato dall’HMS Explorer, una nave britannica, a bordo della quale conosce il capitano William Roberts e dimostra le sue doti nell’arte della navigazione. Tornati a Plymouth, Roberts gli trova una sistemazione nella casa delle figlie dell’ex capitano dell’Explorer, Abel Stevenson, che pare sia scappato dopo aver rubato il bottino della nave e aver ucciso delle guardie (Roberts mira a sposare proprio una delle figlie): le giovani si trovano in una situazione difficile dal punto di vista personale ed economico, in quanto credono innocente il padre e possiedono una locanda nella quale non vuole soggiornare nessuno per non contaminarsi con un traditore. Abel conosce Rebecca, una donna molto misteriosa e triste che esce molto raramente e che gestisce un bordello in città: entrambi condividono la capacità di vedere all’orizzonte un misterioso porto (il porto proibito cui allude il titolo) che nessun altro riesce a vedere. Dopo aver scoperto che Abel sa leggere, lo ospita tutti i giorni per farsi leggere da lui un libro: da questo momento i due formeranno una strana coppia che si aiuterà a vicenda nello scoprire la verità e il passato di entrambi, e la loro storia si intreccerà a quella del capitano Nathan MacLeod, innamorato perdutamente di Rebecca ma incapace di portarla via con sé per la ritrosia di lei e la volontà di lui di continuare ad andare per mare. Molti potrebbero rimanere delusi dalla mancanza di veri colpi di scena e dalla prevedibilità del finale, ma il tutto è trattato in maniera talmente malinconica e poetica da passarci volentieri sopra. L’espediente del viaggio per mare per ritrovare se stessi veicola temi adulti e complessi come l’amore (sia carnale sia parentale), la morte, il ricordo, la lontananza e le seconde possibilità che vengono concesse ad alcuni (Last Chance è l’emblematico nome della nave di Nathan McLeod), il tutto unito a un uso incredibile delle citazioni letterarie (oltre che bibliche) che pescano dichiaratamente a piene mani dai poetici romantici dell’Ottocento come Wordsworth, Byron, Blake e Coleridge, i cui versi si fondono con l’ambientazione e i personaggi e sono fondamentali per la formazione della propria persona (i libri servono a Rebecca per spiegare ad Abel che cosa sta vivendo): nel caso della Ballata del Vecchio Marinaio si tratta di una presenza costante e addirittura si fonde con la vicenda di Abel diventandone la chiave di lettura. Tutto questo fa sì che, se proprio volessimo trovare un difetto all’opera, in certi punti il tono sia troppo romantico, troppo letterario, quasi autocompiaciuto, ma raramente mi sono imbattuto in un simile trasporto verso il mondo culturale di riferimento (per dire, perfino i quattro atti di cui si compone l’opera sono introdotti ciascuno da un frontespizio stile libro d’epoca). L’amore per il mare è genuino, le battaglie e le tempeste avvincono, i marinai intonano vere canzoni marinare, le storie che raccontano affascinano, Plymouth è ricreata in maniera credibile. E i disegni? Capisco che per alcuni il fatto che i due autori (marito e moglie) siano già stati autori di storie per Topolino costituisca già di per sé un sufficiente elemento di condanna, ma Turconi ci delizia con il suo delicato tratto a matita in bianco e nero, dai contrasti poco accentuati, che conferisce plasticità e grazia a tutti i personaggi e ricrea alla perfezione l’ambientazione navale (le corde, le vele, i cannoni, i vestiti dei marinari). Se non è un capolavoro poco ci manca.

lunedì 1 febbraio 2016

Lovecraft Antologia. Volume 1

Una premessa obbligata: le divinità del pantheon lovecraftiano, i cui corpi si collocano a metà tra il mostruoso, l’animale e il pesciforme, sono in bilico tra diverse dimensioni e sono talmente orribili e al di là dell’umana comprensione da poter essere descritte solo in parte e secondo parametri che esulano dalle leggi della normale fisica. Per questa ragione è difficilissimo illustrare Lovecraft, soprattutto nei fumetti. Figuriamoci quindi se ce la possono fare i pupazzetti di D’Israeli e di Culbard (già autore del mediocre Le montagne della follia) che riducono Cthulhu e Yog-Sothot a ridicole caricature gommose negli adattamenti de Il richiamo di Cthulhu e L’orrore di Dunwich presenti in questa antologia lovecraftiana della Magic Press curata da Dan Lockwood. Ma allora, direte voi, perché persevero nel leggere fumetti ispirati a Lovecraft, se sono sempre così criticone e so già che resterò deluso? Lo faccio perché Lovecraft è da sempre uno dei miei autori preferiti, un po’ perché spero sempre di essere sorpreso, e perché è sempre un piacere veder prendere vita frasi grandiose come «Ciò che è risorto può sprofondare, ciò che è sommerso può riemergere». Intendiamoci, in questo caso non tutto è da buttare e le sceneggiature (molte curate dallo stesso Lockwood) sono tutte di buon livello, soprattutto quella de La maschera di Innsmouth a firma di Leah Moore (figlia di Alan Moore) e John Reppion, veramente un gioiellino per come è trattato il testo originale. Purtroppo è la parte iconografica a deludere, spaziando dal grottesco al realistico e passando per il cartoonesco ma non andando mai al di là del “carino ma nulla più”, tanto che ci si ritrova quasi sempre a rimpiangere il volume di Erik Kriek Da altrove e altri racconti, anch’esso un’antologia di racconti a fumetti ma decisamente più riuscito e dotato di maggiore personalità. Meglio va con I topi nel muro di David Hartman, che riesce a essere davvero evocativo, e L’abitatore del buio di Shane Ivan Oakley, il cui tratto aguzzo e spigoloso ben si adatta alla cornice gotica del racconto e alla colorazione monocromatica nera, bianca e ocra con mirati e sporadici inserimenti di rosso e blu. Questi due sono anche tra i migliori racconti di sempre del Solitario di Providence: il primo reinterpreta la mitologia classica in chiave cosmica (l’antico altare tra le rovine di epoca romana, il culto sanguinario di Attis-Nyarlathotep, tumuli preistorici ed elementi celtici) e svela l’orrore a quanti hanno il coraggio di scavare nel profondo (la missione degli studiosi capeggiati dal proprietario di una tenuta che si mettono a esplorare i sotterranei); il secondo (che racconta di un misterioso abitatore del buio, «una creatura proveniente dai neri abissi del caos» ridestata da chi contempla una pietra, un trapezoedro lucente) unisce la mitologia lovecraftiana con i luoghi classici della letteratura gotica (la chiesa) e presenta tutti gli elementi tipici dell’autore: la possessione, il traviamento dei sensi tradizionali («Vedo luoghi sconosciuti. Altri mondi e altre galassie… Vedo tutto con un senso mostruoso che non è la vista fisica. […] Io sono lei e lei è me. […] C’è un odore rivoltante. Sensi trasfigurati…»), una setta misteriosa (la “Saggezza Stellare”), un culto innominabile, una scrittura segreta e la lettura di libri proibiti (il Necronomicon, De Vermis Mysteriis di Ludvig Prinn e il Libro di Dzyan), le cui pagine sono portatrici di follia ma, allo stesso tempo, costituiscono il filtro attraverso cui la pazzia stessa diventa narrazione. Per la cronaca, gli altri racconti presenti, oltre a quelli già citati, sono Il colore venuto dallo spazio Dagon. Curioso il fatto, in questi tempi di politicamente corretto imperante, che gli autori di questa raccolta non abbiano nascosto il razzismo di Lovecraft, rispettando il fatto che i cultisti delle sue creature marine sono per maggior parte meticci, negri (con la g) e provenienti da isole del Pacifico non completamente civilizzate.