lunedì 1 febbraio 2016

Lovecraft Antologia. Volume 1

Una premessa obbligata: le divinità del pantheon lovecraftiano, i cui corpi si collocano a metà tra il mostruoso, l’animale e il pesciforme, sono in bilico tra diverse dimensioni e sono talmente orribili e al di là dell’umana comprensione da poter essere descritte solo in parte e secondo parametri che esulano dalle leggi della normale fisica. Per questa ragione è difficilissimo illustrare Lovecraft, soprattutto nei fumetti. Figuriamoci quindi se ce la possono fare i pupazzetti di D’Israeli e di Culbard (già autore del mediocre Le montagne della follia) che riducono Cthulhu e Yog-Sothot a ridicole caricature gommose negli adattamenti de Il richiamo di Cthulhu e L’orrore di Dunwich presenti in questa antologia lovecraftiana della Magic Press curata da Dan Lockwood. Ma allora, direte voi, perché persevero nel leggere fumetti ispirati a Lovecraft, se sono sempre così criticone e so già che resterò deluso? Lo faccio perché Lovecraft è da sempre uno dei miei autori preferiti, un po’ perché spero sempre di essere sorpreso, e perché è sempre un piacere veder prendere vita frasi grandiose come «Ciò che è risorto può sprofondare, ciò che è sommerso può riemergere». Intendiamoci, in questo caso non tutto è da buttare e le sceneggiature (molte curate dallo stesso Lockwood) sono tutte di buon livello, soprattutto quella de La maschera di Innsmouth a firma di Leah Moore (figlia di Alan Moore) e John Reppion, veramente un gioiellino per come è trattato il testo originale. Purtroppo è la parte iconografica a deludere, spaziando dal grottesco al realistico e passando per il cartoonesco ma non andando mai al di là del “carino ma nulla più”, tanto che ci si ritrova quasi sempre a rimpiangere il volume di Erik Kriek Da altrove e altri racconti, anch’esso un’antologia di racconti a fumetti ma decisamente più riuscito e dotato di maggiore personalità. Meglio va con I topi nel muro di David Hartman, che riesce a essere davvero evocativo, e L’abitatore del buio di Shane Ivan Oakley, il cui tratto aguzzo e spigoloso ben si adatta alla cornice gotica del racconto e alla colorazione monocromatica nera, bianca e ocra con mirati e sporadici inserimenti di rosso e blu. Questi due sono anche tra i migliori racconti di sempre del Solitario di Providence: il primo reinterpreta la mitologia classica in chiave cosmica (l’antico altare tra le rovine di epoca romana, il culto sanguinario di Attis-Nyarlathotep, tumuli preistorici ed elementi celtici) e svela l’orrore a quanti hanno il coraggio di scavare nel profondo (la missione degli studiosi capeggiati dal proprietario di una tenuta che si mettono a esplorare i sotterranei); il secondo (che racconta di un misterioso abitatore del buio, «una creatura proveniente dai neri abissi del caos» ridestata da chi contempla una pietra, un trapezoedro lucente) unisce la mitologia lovecraftiana con i luoghi classici della letteratura gotica (la chiesa) e presenta tutti gli elementi tipici dell’autore: la possessione, il traviamento dei sensi tradizionali («Vedo luoghi sconosciuti. Altri mondi e altre galassie… Vedo tutto con un senso mostruoso che non è la vista fisica. […] Io sono lei e lei è me. […] C’è un odore rivoltante. Sensi trasfigurati…»), una setta misteriosa (la “Saggezza Stellare”), un culto innominabile, una scrittura segreta e la lettura di libri proibiti (il Necronomicon, De Vermis Mysteriis di Ludvig Prinn e il Libro di Dzyan), le cui pagine sono portatrici di follia ma, allo stesso tempo, costituiscono il filtro attraverso cui la pazzia stessa diventa narrazione. Per la cronaca, gli altri racconti presenti, oltre a quelli già citati, sono Il colore venuto dallo spazio Dagon. Curioso il fatto, in questi tempi di politicamente corretto imperante, che gli autori di questa raccolta non abbiano nascosto il razzismo di Lovecraft, rispettando il fatto che i cultisti delle sue creature marine sono per maggior parte meticci, negri (con la g) e provenienti da isole del Pacifico non completamente civilizzate.

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