lunedì 11 aprile 2016

Nick Hornby - Shakespeare scriveva per soldi

Secondo volume che raccoglie gli articoli scritti da Nick Horby per la rivista americana “Believer” (il primo era Una vita da lettore) con le recensioni dei libri da lui letti per un periodo che va dal 2006 al 2008, con il titolo Shakespeare scriveva per soldi che deriva dalla risposta che lo stesso Hornby dà alla domanda “cosa spinge gli scrittori a scrivere?” e cioè che Shakespeare scriveva per soldi, per mantenere una famiglia e un teatro (e questa era la ragione per cui era così prolifico). Insomma, il classico libro che il lettore medio trova noioso, precludendosi così la sagacia e l’intelligenza tipiche di Hornby (che dal canto suo fa di tutto per irridere gli snob, pur mantenendo lui per primo notevoli vette di snobismo). La struttura è la stessa: all’inizio di ogni capitolo ci sono due liste, quello che lui ha comprato e quello che ha effettivamente letto, e questo permette (per chi ne ha voglia e tempo, o apprezza queste cose) di confrontare, mese per mese, quanto ha effettivamente letto in relazione a quanto ha comprato (e di realizzare che ogni lettore compulsivo compra molti più libri di quelli che riuscirà mai a leggere in una singola vita). Tornano anche i Polysyllabic Spree, il gruppo di entità quasi soprannaturali che dirige il “Believer” costituito da un numero imprecisato e variabile di uomini e donne che in questo caso hanno ripreso Hornby confinandolo nelle segrete del loro quartier generale sui monti Appalachi e obbligandolo a consumare letteratura vera («ho nascosto sotto la lingua tutti i romanzi sperimentali sloveni senza vocali che cercavano di farmi leggere e dopo li ho sputati»). L’idea alla base delle recensioni è che la lettura chiama nuova lettura, cioè un libro ne suggerisce un altro, e quindi la nostra lista dei libri da leggere continua ad aumentare invece che diminuire, tanto che è impossibile terminare la lettura di ogni articolo mensile senza avere la voglia di leggere uno dei titoli di cui parla Hornby. Il processo di scelta dei titoli è assolutamente caotico e dipendente dal sentimento, dal caso, dal gusto personale («un bel romanzo è un romanzo che ti fa correre al computer a cercare foto di prostitute su Internet»), da un avvenimento, dagli interessi o da una semplice curiosità, senza distinzioni tra cultura alta e bassa ma anzi con un’incrollabile fiducia nella letteratura e nella narrazione: l’esatto opposto a ogni ragionamento programmatico di libri come I 1001 libri da leggere prima di morire («senza fare nomi, devo dire che il compito imposto dal titolo è impossibile per definizione, visto che almeno quattrocento dei libri indicati ucciderebbero comunque»). In questo caso, Hornby scopre un’insospettabile passione per i romanzi adolescenziali, ingiustamente sottovalutati, che «non sono leggeri nel senso che sono usa e getta o da dimenticare: anzi, tutti, senza eccezioni, mostrano intelligenza, complessità, profonda partecipazione e profonde intenzioni. Sono leggeri nel senso che non sono concepiti per opporre resistenza all’interesse del lettore: vogliono essere letti velocemente e senza fatica. […] Ignorare i libri per adolescenti perché non si è adolescenti è un po’ come rifiutarsi di guardare i thriller perché non si è poliziotti o pericolosi criminali». A quanti poi lo accusano di essere destinato a sparire nel giro di un quarto di secolo per la sua caratteristica di utilizzare nelle sue opere rimandi alla cultura popolare, l’autore dà un consiglio: «Non leggete gli scrittori che pensano ai posteri. Quelle sono persone serie e i loro libri, se li leggeste adesso, li banalizzereste. E poi a loro i soldi non interessano. È gente superiore». Per il resto, torna la sua fissa per la musica e il calcio (suoi veri marchi di fabbrica), con riflessioni semiserie sulla simulazione e l’antisportività («Il momento più triste di questi Mondiali è stato vedere Thierry Henry, mio modello di vita e mio eroe, l’uomo che sia io sia mia moglie avremmo voluto come padre dei nostri figli, coprirsi la faccia dopo aver ricevuto un colpo al petto. Tu quoque, Thierry?»).

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