martedì 19 settembre 2017

Alexandre Dumas - Il colpo di Stato. I Bianchi e i Blu - Parte III

Al di là di ogni scetticismo, la pubblicazione de I Bianchi e i Blu di Alexandre Dumas arriva al terzo volume e ora ne manca solo uno per vederne la conclusione (e arriverà prima del previsto). Per tutti quelli che protestano perché avrebbero preferito un volume unico con le quattro parti tutte insieme e disprezzano il cattivo costume dell’editoria italiana di dividere in più parti le edizioni straniere, il sottoscritto (che è anche il curatore dell’opera) ricorda che è già un miracolo avercela fatta così, vista l’impossibilità di pubblicare un tomo da 800 pagine per una piccola realtà come Gondolin e l’interesse non esattamente smisurato per un libro del genere (si tratta pur sempre di un’opera minore, non certo del ciclo dei Moschettieri o del Conte di Montecristo). Inoltre Dumas scriveva sui giornali, e la struttura de I Bianchi e i Blu permette una separazione in quattro diversi capitoli, costituendo ognuna delle sue parti un nucleo narrativo a sé stante, separato nel tempo, con personaggi che ricompaiono o spariscono. Dopo il fallito attacco alla Convenzione del 13 vendemmiaio dell’anno IV (5 ottobre 1795) raccontato in Attacco alla Convenzione, ne Il colpo di Stato Dumas racconta, come sempre in forma romanzata, le tensioni e i complotti interni al Direttorio, che in teoria avrebbe dovuto assicurare alla Francia la stabilità ma che in realtà sta portando allo scoperto le tensioni accumulate negli anni precedenti, ormai pronte a deflagrare. Il titolo allude al colpo di Stato del 18 fruttidoro dell’anno V (4 settembre 1797) organizzato da tre dei cinque membri del Direttorio con il sostegno dell’esercito: i generali, tra i quali Napoleone, si schierano su diverse posizioni, a seconda del proprio tornaconto personale (e Napoleone è troppo scaltro per scoprirsi troppo, giudicando non essere ancora arrivato il momento per un’azione personale). Nel frattempo, la provincia è scossa dalla reazione monarchica, soprattutto grazie ai Compagni di Jéhu, società segreta comandata dall’inflessibile Morgan che si occupa di procurare ai ribelli della Controrivoluzione i soldati necessari per l’armata. Proprio l’inizio, con l’arrivo di un misterioso viaggiatore, che si rivela essere la nostra vecchia conoscenza Coster de Saint-Victor, alla certosa di Seillon, covo dei Compagni, è narrativamente straordinario: i Compagni non conoscono misericordia nei confronti dei loro membri traditori, neppure se hanno ceduto alla tortura, e ne uccidono giustappunto uno mediante un coltello a forma di croce perché il condannato possa baciarlo al momento di morire in mancanza di un crocifisso. Contemporaneamente, la giovane Diana de Fargas, sorella del condannato giustiziato, parte per la Bretagna con un lasciapassare firmato di suo pugno da Barras (uno dei direttori) e conduce un complesso gioco tra le diverse fazioni in lotta per realizzare la sua vendetta: si imbatte in Coster, si unisce agli scioani capitanati da Cadoudal e allo scontro di questi con le forze della Repubblica. Proprio qui le forze nemiche stringono una singolare alleanza per giustiziare il fanatico François Goulin, annegatore di nemici della Rivoluzione e capace di replicare all’orrore di Diana di fronte alla vista della ghigliottina: «Vorrei sapere chi è l’aristocratico che parla con così poco rispetto dello strumento che ha contribuito maggiormente al progresso umano dopo l’aratro». Per il resto, grande spazio viene dedicato alla vita militare e agli episodi di colore come il duello tra Faraud e Falou (già incontrati nell’Armata del Reno) a proposito della disputa tra signore e cittadino e quindi del voi e del tu con cui rivolgersi agli altri (tu e cittadino sono rivoluzionari, signore e voi monarchici). C’è poi una sezione su Avignone, città papale invasa dalla Rivoluzione, che gronda letteralmente sangue: in episodi come quelli del poveraccio massacrato sui gradini dell’altare, dell’uccisione del conte di Fargas e del massacro dei rifugiati nella torre Trouillasse (ottenuta dietro la somministrazione di eccitanti al popolaccio per renderlo rabbioso), Dumas è incredibilmente efficace nel ritrarre la violenza del popolo, gli inganni perpetrati da chi detiene il potere, la meschinità dei carnefici. Soprattutto, ammette chiaramente di essere sempre stato attratto dai vinti e di essersi rivolto a loro, avvertendo il bisogno «se non di riabilitare, almeno di attirare la pietà delle generazioni che verranno sugli uomini che per esse si sono sacrificati»: per questo si sofferma a lungo sul doloroso viaggio e l’agonia dei prigionieri del colpo di Stato, costretti a privazioni indicibili e alla fine condannati alla deportazione, non solo compatendoli ma trasformandoli addirittura in eroi. 

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