lunedì 5 febbraio 2018

Paolo Cognetti - Le otto montagne

Acclamato come ennesimo caso editoriale e premiato dalla vittoria nel Premio Strega, Le otto montagne di Paolo Cognetti ha avuto un grande successo di critica e di pubblico: chi ama la montagna ci si è ritrovato, quindi lo scrittore è indubbiamente riuscito a parlare a un certo tipo di lettori e a rifletterne i sentimenti. Il romanzo racconta infatti la storia di un rapporto, quello che instaura tra l’uomo e la montagna, nella fattispecie fra il protagonista Pietro e le alpi occidentali: fin da piccolo Pietro ha trascorso con i genitori le vacanze estive a Grana, paesino sotto il Monte Rosa, dove ha subito la sua iniziazione montana all’ombra di un padre burbero e invasivo innamorato delle camminate. La prima parte del romanzo è tutta qui, nel rapporto tra Pietro e il padre, l’iniziale ripudio e il tardivo riavvicinamento, quando il padre ormai è morto e ha lasciato al figlio una proprietà, e il figlio ripercorre i sentieri dell’infanzia per riallacciare i contatti con il genitore perduto e in fondo mai capito. E poi c’è la storia di un’amicizia virile, quella tra Pietro e Bruno, che esprime la dialettica fra chi resta e chi se ne va, fra chi appartiene a un mondo e chi ne è estraneo, fra l’uomo che torna alla natura e l’uomo che resta nella natura: Bruno resta sempre in montagna perché ci è nato, appartiene a quel mondo, mentre Pietro è un estraneo, ogni estate torna in montagna ma poi riparte per Milano, e anche da adulto abbandona Grana per seguire i suoi viaggi. La trama non è troppo complessa: Cognetti confeziona un romanzo esistenziale in cui la montagna è un personaggio fondamentale, dotato di volontà propria, che parla e agisce come una sorta di deus ex machina (la valanga), ma che soprattutto diventa una sorta di dimensione filosofica, metafisica e sacrale, con le sue regole e i suoi riti (lo scuoiamento del camoscio), come del resto si intuisce dal titolo che fa riferimento a un viaggio di Pietro in Nepal e a un mandala. Ma soprattutto la montagna è il luogo-esperienza in cui si va a rivedere ciò che si è stati («Un uomo con due baffi bianchi mi raccontò che per lui era un modo di ripensare alla sua vita. Era come, se attaccando lo stesso vecchio sentiero, una volta all’anno, si addentrasse tra i ricordi o risalisse il corso della propria memoria»), che parla di se stessi e delle proprie esperienze («Non era un paesaggio poi molto diverso da quello di Grana, e guidando pensai che tutte le montagne in qualche modo si somigliano, eppure non c’era niente, lì, a ricordarmi di me o di qualcuno a cui avevo voluto bene, ed era questo a fare la differenza. Il modo in cui un luogo custodiva la tua storia. Come riuscivi a rileggerla ogni volta che ci tornavi. Poteva esisterne solo una, di montagna così, nella vita, e in confronto a quella tutte le altre non erano che cime minori, perfino se si trattava dell’Himalaya»). Allo stesso tempo però non si tratta nemmeno di un idillio alpestre e solo apparentemente la montagna rappresenta una vita migliore rispetto a quella tradizionale (i familiari di Bruno non sono precisamente dei simpaticoni), vista la sua natura ambigua e il fatto che si tratta di un mondo giunto alla fine della propria civiltà (non a caso è abbandonato e presenta già i segni della trasformazione). Anche il finale, che vede Bruno crollare sotto i colpi della crisi economica e del fallimento matrimoniale, non comunica affatto modelli positivi di riferimento. Pietro, dal canto suo, è perennemente insoddisfatto, né adulto né ragazzo: il suo percorso di riavvicinamento al genitore è irrisolto e il suo tentativo di vivere l’eredità paterna è interrotto dalla sua volontà di andare in Nepal a lavorare per le onlus, cosa che lo porta ad abbandonare l’amico e la proprietà. Ecco, proprio il rapporto tra le due parti (quella del padre e quella dell’amicizia) non è la cosa più riuscita del romanzo, specie nella seconda parte. Dal punto di vista stilistico, Cognetti non sperimenta nulla ma presenta una lingua semplice e sobria, all’americana, con dialoghi scarni e grande importanza conferita a gesti e sguardi, e con una grande precisione nei termini tecnici che si riferiscono all’universo montano di riferimento. Attenzione, però: è tutto estremamente serio, e non si ride mai.

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