lunedì 30 luglio 2018

David Herbert Lawrence - L'amante di Lady Chatterley

Scrivere un romanzo zozzo è una cosa, ma fare critica sociale con un romanzo zozzo è veramente degno di stima. È quel che ha fatto David Herbert Lawrence con L’amante di Lady Chatterley, libro considerato scandaloso per l’epoca in cui fu scritto (gli anni Venti) e uscito per trent’anni in versioni purgate delle scene di sesso più crude; venne pubblicato in edizione integrale dalla Penguin solo nel 1960 in seguito alla legge sulle pubblicazioni oscene, cosa che portò la casa editrice a essere processata e assolta da una giuria, con un conseguente boom di vendite di due milioni di vendite nel Paese. Sembra che anche alla Mondadori, che pubblicò il libro nel 1947, si presentò la polizia che però rimase proverbialmente di princisbecco perché il libro era andato a ruba e ne era rimasta una sola copia. Come sempre, parlare troppo di una cosa produce l’effetto contrario, e infatti Anthony Burgess disse che, dopo la vittoria contro la censura, era finalmente possibile affermare che L’amante di Lady Chatterley non era poi un gran libro. Più che altro, è un libro pesante. Narrato in terza persona, racconta la vicenda di Connie, diminutivo di Constance, una fanciulla (non «il tipo della ragazza sottile e magra come un’aringa» ma «una bella trota di Scozia») proveniente da una famiglia molto libera e aperta, con alle spalle un viaggio a Dresda e un amante tedesco (proprio come la sorella, sua compagna di quell’esperienza) prima della Prima Guerra Mondiale. Si ritrova sposata a Sir Clifford Chatterley, un nobilotto delle Midlands, zona mineraria piuttosto cupa e triste del centro dell’Inghilterra. Partito per la guerra, ne fa ritorno paralizzato dalla vita in giù e privato della virilità. La vita di Lady Chattlery è dunque molto grigia, tanto che a un certo punto si distrae con un amico scrittore del marito, Michaelis, che però pensa solo a se stesso e non è affatto attento ai desideri di soddisfazione sessuale di lei; si rifà dunque con il guardiacaccia Oliver Mellors, un uomo più semplice, gentile e dolce, e con lui avrà un figlio e chiederà il divorzio. Certamente il linguaggio usato da Lawrence doveva essere “estremo” per l’epoca in quanto l’autore indugia a lungo, soprattutto nella seconda parte, in descrizioni naturalistiche dei rapporti sessuali («Poteva soltanto aspettare, aspettare, e gemere nell’ombra mentre lo sentiva ritrarsi, ritrarsi e contrarsi, fino al momento terribile in cui egli sarebbe scivolato fuori da lei abbandonandola, mentre tutto il suo corpo rimaneva aperto e molle, dolcemente supplichevole, come un anemone di mare sotto le onde, perché egli ritornasse in lei a soddisfarla»). Insomma, non scade mai nella beceraggine irreale di 50 sfumature, anche se a volte le soluzioni adottate, se oggi non scandalizzano, hanno però un effetto parecchio ridicolo («Sei genuina, sei! Genuina, anche un po’ puttana. Là tu vai di corpo e là tu orini: e metto la mano qua e là, e per questo mi piaci. Hai un vero culo di donna, fiero di sé. Non ha vergogna di sé, eh no!»). Incentrando il suo romanzo su una figura femminile insofferente alle rigide regole della società britannica, Lawrence mette al centro un recuperato rapporto con la corporeità e la fisicità dell’amore contro la mentalità austera e penitenziale di provenienza vittoriana che escludeva la donna da quest’ambito. Anzi, si potrebbe dire che il sesso veicola la riscoperta della propria femminilità e della propria libertà. Ma il romanzo scandalizzò anche per una questione sociale: il fatto che la moglie di un nobile se la facesse con un guardiacaccia era considerato un tradimento di classe. Insomma, una rottura fisica e sociale delle tradizioni: tutto il romanzo è dominato dall’idea del tramonto della vecchia Inghilterra delle convenzioni e della divisione classista della società, con il comunismo minaccioso in agguato e una visione negativa del progresso e dall’industrializzazione, fattori portatori di disumanizzazione («Non credo» dice Oliver «al mondo né al denaro, né al progresso né all'avvenire della nostra civiltà. Se l’umanità vuol avere un avvenire dovrà subire un grandissimo cambiamento da quella che è ora»). La relazione tra Connie e Oliver, all’inizio solo sessuale, si trasforma ben presto in qualcosa di più profondo; il marito, uno che sostiene che «la gente può essere e pensare come vuole, in privato, purché mantenga inalterate la forma e la struttura della società», sarebbe anche favorevole a chiudere un occhio su eventuali relazioni della moglie con un suo pari e addirittura su un’eventuale gravidanza dovuta a un altro uomo, ma si rifiuta di accettare l’amore della moglie per un servo e del seguente scandalo. Freddo e distaccato, Clifford non dà troppa importanza al sesso nemmeno prima dell’incidente e si dedica anima e corpo alla letteratura, spinto dalla segreta ambizione di ottenere la fama. Connie non viene compresa nemmeno dalla sorella Hilda, che ha condiviso con lei la giovinezza disinibita e si definisce un’intellettuale socialista dalla parte dei lavoratori ma sostiene che non ci si può mescolare con la gente del popolo; solo Mrs. Bolton, la signora che accudisce Clifford e che è rimasta vedova, la capisce perché sa che cos’è l’amore fisico, avendolo vissuto e rimpianto. In chiusura c'è anche una parentesi di vacanza a Venezia e viene pure citata fuggevolmente Mestre: il mio orgoglio cittadino ha fatto registrare un’impennata.

domenica 22 luglio 2018

J.K. Rowling - Harry Potter e il Calice di Fuoco

La rilettura di Harry Potter procede e giunge al quarto capitolo, Harry Potter e il Calice di Fuoco. Mi sono già espresso al riguardo QUI ben dieci anni fa ma, visto che di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia, mi sento di aggiungere qualche riflessione. A differenza degli altri tre capitoli che seguono lo stesso schema, dall’inizio dell’anno scolastico fino ad arrivare pian piano alla risoluzione di un mistero che coincide con la fine della scuola, la struttura questa volta è più complessa e riflette l’entra nell’adolescenza (Harry ha i primi palpiti d’amore per Cho Chang, personaggio abbastanza marginale, ma ci sono anche le prime scaramucce tra Hermione e Ron). Questo quarto capitolo sacrifica quindi (fortunatamente) gli elementi di magica quotidianità che sono stati caratteristici della saga: via gli zii di Harry, le lezioni di magia sono ridotte al minimo indispensabile, il quidditch è limitato alla scena iniziale della grandiosa finale della Coppa del Mondo, mentre la vicenda è focalizzata sul Torneo Tremaghi, una gara tra le principali scuola europee di magia (Hogwarts, Beauxbatons e Durmstrang). Vista la pericolosità delle prove, possono parteciparvi solo gli studenti maggiorenni dell’ultimo anno, eppure qualcuno riesce a stregare il Calice di Fuoco che vigila sul rispetto delle regole e sceglie i rispettivi campioni, uno per scuola: Harry è il secondo campione di Hogwarts. Silente e altri pensano che Voldemort voglia uccidere Harry durante una delle prove, sospetto confermato dall’evocazione del Marchio Nero, simbolo dei Mangiamorte (i sostenitori di Voldemort), durante la finale della Coppa del Mondo di quidditch, e dal fatto che Harry avverta sempre più spesso un dolore alla cicatrice (come Frodo nel Signore degli Anelli) e abbia sogni su Voldemort, come se quest’ultimo fosse dentro di lui. Alla fine Voldemort appare davvero, e cerca disperatamente di recuperare il suo corpo fisico, come Sauron nel Signore degli Anelli: peccato che anche lui riveli di essere affetto dalla sindrome di Macchia Nera o del cattivo logorroico, vale a dire che ammorba Harry e il lettore con uno spiegone di pagine e pagine sulle sue intenzioni e il suo metodo di lavoro (peccato, perché le scene della sua rinascita e dei Mangiamorte nel cimitero sono davvero efficaci). Se già nel secondo e nel terzo volume aveva cominciato ad affacciarsi timidamente la storia sociale del mondo dei maghi, con le differenze tra creature magiche apparse a brandelli in maniera accennata e in certi casi anche comica, adesso l’orizzonte comincia ad allargarsi, sia dal punto di vista spaziale, estendendosi all’Europa, sia dal punto di vista temporale, svelando ancora di più la situazione che si è venuta a creare dopo la caduta di Voldemort: i processi che si sono tenuti non hanno intaccato di molto le sue schiere, visto che i Mangiamorte per la maggior parte sono pronti a rispondere subito al suo richiamo, e soprattutto non è ritornata né la giustizia né l’uguaglianza. Il mondo dei maghi ricorre in maniera sconsiderata alla giustizia, affidando la prigione di Azkaban ai terribili Dissennatori e condannando a morte o all’ergastolo creature innocenti senza processo o in seguito a processi-farsa (come accaduto nel caso dell’ippogrifo Fierobecco e di Sirius Black), mentre i personaggi ricchi e influenti (i purosangue divenuti Mangiamorte) sono sfuggiti alla punizione. E a questo punto faccio pubblica ammenda per non aver dato, dieci anni fa, il giusto valore alla battaglia di Hermione per la liberazione degli elfi domestici, che sono a tutti gli effetti degli schiavi che nessuno cerca di difendere dai maltrattamenti dei padroni (anzi, si dice che gli elfi domestici servono per natura e che sono contenti così). È quindi ovvio che questo mondo non è un’utopia consolatoria, ma ha anzi parecchie zone oscure: alla fine il Ministro della Magia, Cornelius Fudge, rifiuta di credere al ritorno dell’Oscuro Signore, e Silente gli rinfaccia l’amore per la poltrona e la fissazione per la purezza di sangue, perché «non è importante ciò che si è alla nascita, ma ciò che si diventa». Il grande insegnamento della Rowling è a proposito delle scelte che si fanno e che determinano molte cose, a partire dal bene per se stessi ma soprattutto per gli altri: non è un caso che si insista molto sul tema del sacrificio, di Harry per gli amici e dei suoi genitori per lui, e che venga continuamente ribadito che l’amore per gli altri è l’incantesimo più potente.

venerdì 20 luglio 2018

Antonio Caprarica - Tanto sesso, siamo inglesi!

Dopo Il romanzo dei Windsor Il romanzo di Londra, Antonio Caprarica termina la sua personale trilogia su Londra con questo Tanto sesso, siamo inglesi!, un libro che, a partire dal titolo che parodia la vecchia commedia Niente sesso, siamo inglesi, intende sovvertire lo stereotipo dell’inglese un po’ algido e compassato che si è affermata nel corso dell’Ottocento e soprattutto dell’epoca vittoriana, quando il perbenismo della borghesia trionfante e i valori familiari fecero calare sulla società inglese uno spessissimo velo di ipocrisia (e anche sotto quel velo il libertinaggio sessuale continuò a essere praticato). Con il suo consueto stile che mescola storia e gossip, con un che di snobismo pruriginoso, Caprarica infatti dimostra che il sesso è da sempre un pilastro della storia di Londra, città che ha avuto il primo distretto a luci rosse della storia occidentale, quando Enrico II stabilì nel 1162 che i bordelli avrebbero dovuto stare sulla riva sud del Tamigi (il vescovo di Winchester continuò a intascare i proventi fino al XVI secolo). Dopo la grande gelata del puritanesimo di Cromwell, ecco arrivare la grande orgia della Restaurazione di Carlo II, quello a cui il duca di Buckingham rese omaggio dicendo: «Maestà, Voi che siete il padre del vostro popolo…», aggiungendo sottovoce per i vicini: «…o almeno di gran parte di esso». Questo trionfo della fornicazione è la prova, per Caprarica, che «l’insopprimibile tendenza alla débauche dei londinesi somiglia a un fiume, di natura carsica. Ogni tanto è costretto a inabissarsi ma sempre pronto a zampillare alla luce del sole appena i moralisti si rilassano». Nel Settecento a Londra c’erano 50.000 prostitute su una popolazione di 700.000 persone, segno che c’era una domanda altissima (pare che ce ne fossero addirittura 80.000 in epoca vittoriana), e non a caso il Covent Garden aveva acquistato il soprannome di “grande piazza di Venere”: il sesso era la prima industria della capitale, capace di produrre 10 miliardi odierni di sterline, addirittura più dell’industria delle costruzioni. Non bisogna quindi meravigliarsi se Samuel Johnson, il principale intellettuale inglese del Settecento, interrogato su quali fossero le due cose più importanti della vita, rispose: «Drinking and fucking» (bere e fottere). Di quest’ondata di depravazione furono capifila non solo i nobili ma soprattutto i monarchi, basti pensare ai wicked uncles, gli zii dissoluti della regina Vittoria di cui Giorgio IV è l’emblema: una tradizione portata degnamente avanti dal figlio di Vittoria, Bertie, il futuro Edoardo VII, debosciato come difficilmente ce ne sono stati nel corso della storia. Tutto era già stato inventato, quanto a mode e perversioni, compresa quella del toy-boy: la contessa di Oxford, giunta alla quarantina, si portò a letto un Lord Byron più giovane di lei di 16 anni.

Dopo la metà del Novecento Londra è tornata a essere quella che era sempre stata, la capitale della rivoluzione sessuale e della libertà dei costumi, soprattutto grazie alla mitica Swinging London e alla Soho licenziosa degli anni Cinquanta e Sessanta con i suoi peep showsex shop. Sono gli anni degli scandali sessuali, come il famigerato “scandalo Profumo”, che in piena Guerra Fredda vide la giovane modella Christine Keeler avere contemporaneamente una relazione con il ministro della guerra britannico John Profumo e con l’addetto militare dell’ambasciata sovietica, che con ogni probabilità era una spia. Ma anche il caso della mitica Margaret duchessa di Argyll, finita sui tabloid a causa di foto indecenti nella sua residenza di Mayfair in atteggiamenti inequivocabili: davanti al giudice, spiegò al giudice che le sue relazioni con oltre 80 amanti erano dovute al fatto di essere caduta, durante la guerra, per più di dieci metri nella tromba di un ascensore, cosa che le aveva provocato un disordine neurologico che la lasciava senza il senso del gusto e dell’olfatto ma con un vorace appetito sessuale. Oggi, segni evidenti di produzione e vendita di sesso rimangono solo i bigliettini che si trovano affissi sulle cabine telefoniche rosse caratteristiche di Londra, che non servono più per telefonare ma come vetrina espositiva delle grazie di giovani disinibite fanciulle che si mettono sul mercato. Se le prostitute sono drasticamente diminuite (si stima non siano più di 2.000, poche anche rispetto le 7.000-8.000 del Primo Dopoguerra), questo non ha certo impedito al mercato del sesso di reinventarsi attraverso le nuove vie offerte dalla tecnologia, a cominciare dal caso di Belle de Jour, una escort di alto bordo che, all’inizio degli anni Duemila, è stata tra le prime a praticare il mestiere attraverso internet tenendo addirittura un diario su un giornale e dando origine a una serie televisiva (Secret Diary of a Call Girl): anni dopo, si è scoperto trattarsi di Brooke Magnanti, che per sei anni ha esercitato il mestiere per pagarsi gli studi e divenire ricercatrice all’università di Bristol. E si arriva addirittura ad Ashley Madison, prima agenzia web planetaria per le relazioni extraconiugali quotata sul mercato azionario, che offre il servizio gratis alle signore mentre lo fa pagare agli uomini, prova di quanto Londra sia la città più liberale anche in tema di adulterio.

Caprarica racconta anche la diffusione dell’omosessualità, condannata dalla legge (il reato di buggery, che da Enrico VIII prevedeva la morte) ma ampiamente tollerata e praticata, a parte saltuarie ondate moralizzatrici e ricatti da parte di tutori dell’ordine corrotti: molti erano i frequentatori delle numerose mollies’ houses, i bordelli omosessuali, così come i clienti dei rent boys. L’autore non manca poi di analizzare nel dettaglio le perversioni più diffuse come lo spanking, la sculacciata, con la variante del caning, la fustigazione con la canna, per non parlare dell’invenzione di altri ingegnosi marchingegni: un fenomeno che ha dimensioni di massa fin dal Medioevo ed è diffuso ancora oggi (viene citato addirittura il caso di un importante banchiere della City che è dovuto ricorrere al chirurgo plastico per rifarsi il fondoschiena), forse risultato della sublimazione inconscia delle punizioni corporali che venivano inflitte a scuola. Per non parlare del travestitismo e delle orge sadomaso a tema nazista come quella che ha coinvolto Max Mosley, presidente della Federazione Internazionale dell’Automobile, o dell’ancor più triste passione per i minorenni che in Inghilterra è stata tollerata fino ai nostri giorni, come nel caso di Peter Morrison, noto pedofilo e stupratore rimasto saldamente ai vertici del governo di Margaret Thatcher. Immancabile il capitolo sulla relazione Carlo-Camilla, incentrato sulla vita sessuale del principe prima delle nozze con Diana: non ci fosse stato, non sarebbe stato un libro di Caprarica.

giovedì 19 luglio 2018

Hilaire Belloc - Cromwell il dittatore

Ormai ho perso il conto di quanti libri di Belloc ho contribuito a ripubblicare. Questa terza uscita del 2018 (le altre due sono state Napoleone e la nuova edizione di Giovanna d’Arco) è la volta di Cromwell il dittatore, tipica biografia dello storico anglofrancese dedicata a un personaggio storico: una dissertazione dotta per non dire pedante, una critica che non nasconde momenti di ammirazione, una trattazione che prevede che si conosca già quasi a menadito l’oggetto di studio. Sicuramente lo stile di Belloc è fortemente vittoriano, e non è facile da affrontare oggi. Tuttavia, l’aspetto interessante è che Oliver Cromwell è uno dei personaggi più inusuali e controversi della storia moderna: puritano fanatico proveniente da quel ceto di nuovi ricchi che avevano beneficiato delle confische operate dalla Riforma a danno della Chiesa cattolica (categoria sempre ignorata dalla storiografia ufficiale e contro cui si rivolge il disprezzo dell’autore), guidò la rivoluzione del Parlamento contro l’assolutismo regio, fece decapitare il re Carlo I e, da capo rivoluzionario, si fece dittatore. Capace di slanci di coraggio e animato da grandi ideali (voleva cambiare lo Stato e la società dalle fondamenta basandosi sulla Bibbia, soprattutto sul Pentateuco), fu allo stesso tempo un tiranno spietato che si abbandonò a massacri e confische nei confronti degli oppositori (celebre è il caso della cattolica Irlanda). Oltre a fare analisi di tipo sociologico ed economico, Belloc affronta compie una vera e propria indagine psicologica del personaggio per capirne la personalità, la fede puritana e le motivazioni che muovevano la sua politica, cercando di scalfirne il mito di eroe virtuoso attorno a cui si è cementata l’unità nazionale e religiosa inglese: di certo, non agì seguendo un ideale di giustizia o di altruismo e neppure di bene pubblico, ma si comportò a seconda delle circostanze, valutando il proprio tornaconto personale con incredibile opportunismo. Allo stesso tempo, però, Belloc cerca anche di non banalizzare la figura di Cromwell come antieroe criminale, riconoscendone gli indiscutibili meriti come comandante militaredi cavalleria.

sabato 14 luglio 2018

Luca Pisapia - Uccidi Paul Breitner

Calcio e politica, un binomio eterno. Non ho mai amato troppo chi continua a parlarne (tipo i tuttologi che si mettono a dissertare di massimi sistemi e di geopolitica ogni volta che ci sono i Mondiali), ritenendo che lo sport dovrebbe restare sempre sport ed essere trattato come tale, ma ahimè non posso negare che il problema esista, soprattutto in virtù del fatto che al calcio è spesso legato il consenso e che intorno a esso girano troppi soldi, figuriamoci in occasione di eventi leggendari come i Mondiali di calcio e le Olimpiadi. A riprendere il ragionamento ci pensa questo nuovo Uccidi Paul Breitner. Frammenti di un discorso sul pallone, oggetto narrativo non identificato fortemente politico che mescola elementi di fiction a riflessioni filosofiche, economiche e sociologiche. Lo scrive Luca Pisapia, giornalista de “Il Manifesto”, “La Gazzetta dello Sport” e “Il Fatto Quotidiano”, una specie di Buffa in versione comunista che cita Borges, Fitzcarraldo di Herzog, Osvaldo Soriano ed Eduardo Galeano (autori che personalmente non conosco), stabilisce arditi paralleli tra l’esultanza di Gascoigne e Sheringham con i giochi erotici fra Hitler ed Eva Braun, affastella fatti e racconti che spaziano su e giù per la storia, in prima e terza persona, senza soluzione di continuità, nel segno dell’ibridazione di generi e stili (ci sono perfino dialoghi a mo’ di sceneggiatura), fa emergere le contraddizioni del sistema, chiama in causa il lettore e punta spesso sullo sdegno. Magari, se siete di quelli che non condividono la visione del capitalismo come demone che privatizza i profitti e socializza le perdite grazie ai contributi statali, non è la vostra lettura ideale. Attenzione, però, perché Uccidi Paul Breitner è un libro interessantissimo, che strappa ogni residua illusione o poesia e dimostra che non esiste contraddizione fra calcio e capitalismo: il calcio è una merce, un dispositivo dello spettacolo, un apparato del potere, e per questo nasce moderno, anzi, «non esiste un calcio moderno contro cui scagliarsi oggi in nome di bei tempi mai esistiti». Ecco l’invito a evitare le narrazioni consolatorie e la falsa nostalgia dei bei tempi.

Nessuno è riuscito a sfuggire alle logiche del capitale, come dimostra emblematicamente il Paul Breitner del titolo, il rivoluzionario capellone maoista che non solo fu il primo calciatore ad avere una sponsorizzazione privata ma soprattutto si trasferì al Real Madrid percependo soldi dal caudillo spagnolo Francisco Franco, finendo per questo nel mirino della banda Baader-Meinhof (che incarnò gli anni di piombo nella Germania degli anni Settanta) in quanto compagno traditore controrivoluzionario. Il calciatore, infatti, «eccede sempre il suo ruolo di sportivo e incarna una funzione ideologica ed economica, al pari della star hollywoodiana che si pone in quel perverso rappporto del feticismo della merce in quanto mediatore tra desiderio – investimento emotivo sulla celebrità, cioè ti regala soddisfazione – e riconoscimento – ossia investimento economico sulla celebrità, ne vai a vedere la performance o ne acquisti un feticcio, sempre pagando, per esserne parte anche tu». A questo ragionamento non si sottrae nemmeno lo schema, nella fattispecie quello del mitico calcio totale: nato socialdemocratico e calvinista con l’olandese Rinus Michels, diventato comunista con l’inglese Bill Shankly, applicato scientificamente secondo i dettami del socialismo reale dal colonnello ucraino Valerij Lobanovs’kyj, alla fine «si schianta sulla sussunzione del desiderio sovversivo da parte del capitale nell’applicazione neoliberista di Arrigo Sacchi», araldo del calcio come veicolo promozionale del padrone e delle industrie dello spettacolo dell’intrattenimento (Berlusconi). Inutile cercare un senso politico al Barcellona di Guardiola, il cui tiki taka è «ammirevole senso estetico», «pura adesione formale» e «frutto della globalizzazione dei saperi», perfetta rappresentazione della «miseria impolitica del contemporaneo».

Il libro è organizzato attraverso macronuclei narrativi: il primo è Argentina 1978 (calcio e potere), Brasile 2014 (calcio ed e economia) e Usa 1994 (calcio e media). Si comincia quindi dalla Coppa del Mondo tenutasi in Argentina nel ’78, quella orchestrata dal regime di Videla e dei desaparecidos che venivano torturati e assassinati tra le mura degli infami Garage Olympoil (il regime chiamò il suo piano criminoso “riorganizzazione nazionale”); niente di nuovo, visto quanto fatto da Pinochet in Cile e dai generali brasiliani come Emílio Garrastazu Médici. Protagonista è Arcadio Lopez, chiuso in un bunker mentre guarda la finale Argentina-Olanda da un piccolo televisore, tormentato da urla strazianti e voci interiori: alla fine si scoprirà chi è reamente e quali fantasmi lo tormentano. Quasi quarant’anni dopo, è la volta di Mr. M, un lurido superpoliziotto intento a coprire gli intrallazzi della Fifa e dei suoi funzionari-agenti segreti nei palazzi del potere di Rio de Janeiro (nel contesto della lotta per il potere tra Blatter e Platini) per l’organizzazione della Coppa del Mondo 2014, ghiotta occasione per piegare ogni tendenza di socialismo bolivariano nel Paese, distruggerne l’economia e far trionfare le multinazionali americane («I grandi eventi, sportivi e non, da sempre servono a privatizzare i profitti e socializzare le perdite, a mutare il paradigma dell’architettura sociale di una città o di un paese favorendo l’ingresso di una classe sociale più forte attraverso una vera e propria pulizia etnico-sociale delle fasce deboli della popolazione»). Chiude il cerchio Usa ’94, quando il calcio subisce la definitiva trasformazione in prodotto televisivo e immagine come lo conosciamo noi oggi grazie al modello Premier League e alla vagonata di miliardi di Sky, un modello reso possibile dalle tragedie dell’Heysel e di Hillsborough, con la responsabilità diretta della polizia e indiretta della Thatcher che hanno dimissionato un’intera classe sociale già privata del lavoro dalle privatizzazioni: «Il tifoso, lo spettatore, non possono afferrare il pallone, che in quanto merce è illusione». Insomma, il calcio del Taylor Report sull’obbligatorietà del posto a sedere allo stadio, che «può quindi essere inteso come un ritorno ad antiche forme di fruizione teatrale totalmente passive»: non a caso sono gli anni dell’affermazione del New Labour di Tony Blair, convinto sostenitore dell’idea di una sinistra parlamentare che «deve abbandonare qualsiasi idea di equità sociale in favore di una cieca e fideistica adesione al libero mercato». E non è nemmeno un caso che Pisapia immagini un bambino che guarda Italia-Nigeria ai Mondiali di Usa ’94 su un televisore di un grande centro commerciale, solitario, esultando al gol di Roberto Baggio e accorgendosi che accanto a lui non c’è nessuno.

Pisapia ne ha per tutti, dai giornalisti pennivendoli («I giornalisti sportivi sono il momento del falso, quindi sono l’unico elemento di verità che c’è nel calcio») ai procuratori (pronti a depredare le famiglie del terzo mondo per intascare e riciclare denaro), attori fondamentali di una narrazione hollywoodiana che rispecchia un copione già scritto e a volte assume le connotazioni di una vera e propria farsa, come dimostrano i casi di giocatori privi di talento come Carlos Kaiser e Ali Dia (quest’addirittura spacciato come cugino di Weah), capaci di passare da una squadra all’altra per un’intera carriera senza che nessuno si renda mai conto del loro effettivo valore. E non si pensi che tutto questo non abbia toccato il nostro Paese: l’Italia è l’emblema del pallone come potere, dal fascismo che lo utilizzò a fini propagandistici (con la retorica del contropiede e dell’eroe “balilla” Giuseppe Meazza che si carica addosso il peso dell’intero Paese per trascinarlo alla vittoria, del fare di necessità virtù e vincere con la furbizia e l’inganno contro il predominio fisico del barbari d’oltralpe) al chiacchieratissimo Italo Allodi, dirigente che ha contribuito decisivamente alle fortune delle squadre per cui lavorava (la Grande Inter, la Juventus, la Fiorentina e il Napoli), a suon di doping e arbitri comprati. A Torino la sua grande rivoluzione semiotica, l’intuizione di allestire una squadra composta da calciatori provenienti dai quattro angoli della Penisola per far identificare tutti, soprattutto gli operai meridionali sfruttati e malpagati alla Fiat: i trionfi domenicali della Juventus avrebbero dovuto essere l’adeguato strumento per spegnere ogni tipo di ardore e stemperare le pulsioni di rivalsa. Non stupisce che il suo grande discepolo sia stato un certo Luciano Moggi. Per non parlare del tipico atteggiamento italiano di autorappresentarsi sempre come vittima dei poteri forti, nel calcio come nella politica e nella vita quotidiana: una retorica condivisa da giornalisti sportivi, esperti di comunicazione e autorità culturali, perché essere vittime dà prestigio, aumenta l’autostima, genera identità e garantisce innocenza.

Se però il calcio da sempre favorisce i nazionalismi, a volte però produce anche i suoi anticorpi; è il caso delle storie del partigiano Bruno Neri, di Michele Moretti che fucilò Mussolini, di Paolo Sollier che usava il pugno chiuso per salutare il pubblico; e ancora dell’algerino Rachid Mekhloufi che gioca per il Fronte di liberazione nazionale del suo Paese, la Dinamo Kiev che sconfisse i nazisti nella certezza di andare incontro alla morte, l’anarchismo pirata della squadra amburghese del St. Pauli, l’ex calciatore Romario che combatte contro la corruzione in Brasile, il ribelle Eric Cantona che finisce però per diventare funzionale alla narrazione del sistema. O personaggi genio e sregolatezza come George Best e Robin Friday, capaci di rovinarsi (letteralmente) con le loro stesse mani. Forse anche parteggiare per squadre e calciatori veramente di sinistra è un inganno, e non serve per restituirci uno sport finalmente pulito.

Se fin qui il discorso è condivisibile, altre cose lasciano abbastanza perplessi, come quando l’autore sostiene che le critiche a Balotelli dopo l’eliminazione da Brasile 2014 siano stato il risultato di una regia volta a demonizzare il negro (Balotelli è criticabilissimo per i suoi atteggiamenti, e direi le stesse cose se fosse un islandese bianco e biondo), e ancora sulle considerazioni sulla vittoria di Spagna ’82 come risultato del compromesso storico del cattocomunista Bearzot o sui successi del calcio italiano del Secondo Dopoguerra di Nereo Rocco e Helenio Herrera fedele specchio di «un paese di fascisti che stava imparando a essere social-comunista rimanendo rigorosamente attaccato alle regole della chiesa [...]. Un calcio un po’ bigotto che ci permettesse di commettere peccati senza andare all’inferno», secondo la definizione di Mario Sconcerti, lo stesso che diceva che Cristiano Ronaldo avrebbe fatto la riserva nella Juventus. Ah, a proposito di Ronaldo: peccato che il suo trasferimento proprio alla Juve sia arrivato dopo la pubblicazione di questo libro. Un capitolo sulla vicenda ci sarebbe stato proprio bene. Anche se forse la lettura di Uccidi Paul Breitner potrebbe fornire la chiave di lettura dell’intera vicenda.