La rilettura
di Harry Potter procede e giunge al quarto capitolo, Harry Potter e il Calice di Fuoco. Mi sono già espresso al riguardo
QUI ben dieci anni fa ma, visto che di acqua sotto i ponti ne è passata
parecchia, mi sento di aggiungere qualche riflessione. A differenza degli altri
tre capitoli che seguono lo stesso schema, dall’inizio dell’anno scolastico
fino ad arrivare pian piano alla risoluzione di un mistero che coincide con la
fine della scuola, la struttura questa volta è più complessa e riflette l’entra
nell’adolescenza (Harry ha i primi palpiti d’amore per Cho Chang, personaggio
abbastanza marginale, ma ci sono anche le prime scaramucce tra Hermione e Ron).
Questo quarto capitolo sacrifica quindi (fortunatamente) gli elementi di magica
quotidianità che sono stati caratteristici della saga: via gli zii di Harry, le
lezioni di magia sono ridotte al minimo indispensabile, il quidditch è limitato
alla scena iniziale della grandiosa finale della Coppa del Mondo, mentre la
vicenda è focalizzata sul Torneo Tremaghi, una gara tra le principali scuola
europee di magia (Hogwarts, Beauxbatons e Durmstrang). Vista la pericolosità
delle prove, possono parteciparvi solo gli studenti maggiorenni dell’ultimo
anno, eppure qualcuno riesce a stregare il Calice di Fuoco che vigila sul
rispetto delle regole e sceglie i rispettivi campioni, uno per scuola: Harry è
il secondo campione di Hogwarts. Silente e altri pensano che Voldemort voglia
uccidere Harry durante una delle prove, sospetto confermato dall’evocazione del
Marchio Nero, simbolo dei Mangiamorte (i sostenitori di Voldemort), durante la
finale della Coppa del Mondo di quidditch, e dal fatto che Harry avverta sempre
più spesso un dolore alla cicatrice (come Frodo nel Signore degli Anelli) e abbia sogni su Voldemort, come se quest’ultimo
fosse dentro di lui. Alla fine Voldemort appare davvero, e cerca disperatamente
di recuperare il suo corpo fisico, come Sauron nel Signore degli Anelli: peccato che anche lui riveli di essere
affetto dalla sindrome di Macchia Nera o del cattivo logorroico, vale a dire
che ammorba Harry e il lettore con uno spiegone di pagine e pagine sulle sue
intenzioni e il suo metodo di lavoro (peccato, perché le scene della sua rinascita
e dei Mangiamorte nel cimitero sono davvero efficaci). Se già nel secondo e nel
terzo volume aveva cominciato ad affacciarsi timidamente la storia sociale del
mondo dei maghi, con le differenze tra creature magiche apparse a brandelli in
maniera accennata e in certi casi anche comica, adesso l’orizzonte comincia ad
allargarsi, sia dal punto di vista spaziale, estendendosi all’Europa, sia dal
punto di vista temporale, svelando ancora di più la situazione che si è venuta
a creare dopo la caduta di Voldemort: i processi che si sono tenuti non hanno
intaccato di molto le sue schiere, visto che i Mangiamorte per la maggior parte
sono pronti a rispondere subito al suo richiamo, e soprattutto non è ritornata
né la giustizia né l’uguaglianza. Il mondo dei maghi ricorre in maniera
sconsiderata alla giustizia, affidando la prigione di Azkaban ai terribili Dissennatori
e condannando a morte o all’ergastolo creature innocenti senza processo o in
seguito a processi-farsa (come accaduto nel caso dell’ippogrifo Fierobecco e di
Sirius Black), mentre i personaggi ricchi e influenti (i purosangue divenuti
Mangiamorte) sono sfuggiti alla punizione. E a questo punto faccio pubblica
ammenda per non aver dato, dieci anni fa, il giusto valore alla battaglia di Hermione per la liberazione
degli elfi domestici, che sono a tutti gli effetti degli schiavi che nessuno
cerca di difendere dai maltrattamenti dei padroni (anzi, si dice che gli elfi
domestici servono per natura e che sono contenti così). È quindi ovvio che
questo mondo non è un’utopia consolatoria, ma ha anzi parecchie zone oscure:
alla fine il Ministro della Magia, Cornelius Fudge, rifiuta di credere al
ritorno dell’Oscuro Signore, e Silente gli rinfaccia l’amore per la poltrona e
la fissazione per la purezza di sangue, perché «non è importante ciò
che si è alla nascita, ma ciò che si diventa». Il grande insegnamento della
Rowling è a proposito delle scelte che si fanno e che determinano molte cose, a
partire dal bene per se stessi ma soprattutto per gli altri: non è un caso che
si insista molto sul tema del sacrificio, di Harry per gli amici e dei suoi
genitori per lui, e che venga continuamente ribadito che l’amore per gli altri
è l’incantesimo più potente.
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