venerdì 31 agosto 2018

Arthur Conan Doyle - Il segno dei quattro

Tempo di rilettura per quello che considero il miglior romanzo di Sherlock Holmes, forse superiore al già straordinario Mastino dei Baskerville e nettamente superiore a Uno studio in rosso e a La valle della paura. Il segno dei quattro per me è la quintessenza della creazione di Arthur Conan Doyle: il cane Toby dall’olfatto eccezionale, l’inseguimento delle tracce di creosoto fino ai moli della South Bank, gli Irregolari di Baker Street, l’inseguimento in lancia lungo il Tamigi, il lillipuziano abitante delle isole Andaman con la cerbottana dai proiettili al curaro, la rivolta indiana dei Sepoy e il tesoro perduto di Agra. Ma soprattutto Conan Doyle non si vergogna a iniziare la sua storia presentando il suo eroe che si droga con la cocaina, la famosa “soluzione al sette per cento”, tutti elementi destinati a consegnare Sherlock Holmes al mito e a essere ripresi in dozzine di apocrifi e di epigoni. E, incredibilmente per i suoi canoni, presenta un personaggio femminile abbastanza interessante e per nulla svenevole, Mary Morstan, che si presenta al 221B di Baker Street con un problema indecifrabile: suo padre, un militare di stanza in India, dieci anni prima le ha dato appuntamento annunciandole di essere tornato in licenza a Londra ma poi è sparito nel nulla e lei non lo ha più rivisto. Da quel giorno, ha iniziato a ricevere ogni anno una perla in una busta. Ora ha ricevuto anche una lettera in cui il benefattore la invita a incontrarlo e a portare due persone fidate, a patto che non siano poliziotti. Holmes e Watson la accompagnano e incontrano Thaddeus Sholto, figlio di un amico del padre di Mary che le racconta di un tesoro nascosto e poi ritrovato da suo fratello Bartholomew di cui è giusto che riceva una parte anche lei. Arrivati a casa di Bartholomew, lo trovano morto in circostanze misteriose e con un biglietto firmato “il segno dei quattro”, già ritrovato in occasione della morte del maggiore Sholto. È il classico delitto della camera chiusa, ma nulla è impossibile per le straordinarie qualità deduttive di Holmes che, partendo dal principio secondo cui «eliminato l’impossibile, ciò che resta, per impossibile che sia, deve essere la verità», applica la scienza calligrafica ed espone monografie di cui è autore sulle diverse ceneri dei sigari. Basterebbe il suo straordinario saggio con cui espone a Watson di aver dedotto l’esistenza di un suo fratello alcolizzato partendo dalla semplice osservazione di un suo orologio da taschino, dello stesso livello dell’episodio di Uno studio in rosso in cui gli spiega come ha fatto a dedurre che è stato in Afghanistan. L’intrigo è veramente appassionante ed è amalgamato meglio per quanto riguarda la spiegazione finale rispetto a Uno studio in rosso, che aveva una netta divisione tra l’indagine e il racconto delle cause che avevano originato il delitto. Watson è molto coinvolto nella vicenda in quanto si innamora di Mary Morstan e spera che lei non rientri in possesso del tesoro per non perdere ogni possibilità sociale di chiederla in moglie. Dal canto suo, invece, Holmes critica Watson per il suo resoconto di Uno studio in rosso rinfacciandogli di aver abusato di romanticismo a discapito della scientificità del suo metodo e ribadisce la sua misoginia («Non bisogna mai fidarsi completamente delle donne – nemmeno delle migliori») dichiarando, di fronte al fascino femminile, che «l’emotività è nemica del raziocinio» e che il suo giudizio non può essere influenzato da sentimenti personali: figuriamoci l’amore, che «è un’emozione, e tutto ciò che è emozione contrasta con la fredda logica che io pongo al disopra di tutto». 

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