Esce I
Bianchi e i Blu di Dumas in edizione completa per Fede & Cultura,
dopo essere uscito a puntate per Gondolin. Speriamo che questo tomone di oltre
700 pagine faccia breccia in un nuovo tipo di pubblico e che venda due copie,
cosa per nulla scontata in questi tristi tempi di crisi del
libro. Intanto, ecco la mia dotta prefazione:
* * *
La sua
fama è legata principalmente a capolavori come Il conte di Montecristo e
al ciclo dei moschettieri (I tre moschettieri, Vent’anni dopo e Il
visconte di Bragelonne), ma in realtà Alexandre Dumas è ancora oggi uno dei
romanzieri tra i più prolifici e amati del mondo. La sua fama di gaudente
libertino gli restò sempre cucita addosso e la critica ufficiale e accademica
non lo ha mai amato troppo, ma la sua produzione è sterminata e conta centinaia
di titoli fra romanzi, opere teatrali, saggi, memoriali e pamphlet polemici, a
riprova di una versatilità davvero fuori dal comune. La storia fu sempre il suo
terreno preferito e la utilizzò come sfondo privilegiato sul quale tratteggiare
i suoi grandi affreschi narrativi, restando sempre il più aderente possibile
alla realtà.
È il
caso di questo I Bianchi e i Blu, corposo romanzo ambientato
tra la Rivoluzione francese e il periodo napoleonico che mescola allo stesso
modo storia e finzione, personaggi noti e sconosciuti; insieme a I
compagni di Jéhu e a Il cavaliere di Sainte-Hermine, va a
formare una trilogia che doveva portare a compimento il ciclo dei grandi
romanzi storici francesi: già dal titolo è chiaro l’intento celebrativo di
quanti combatterono in così delicati frangenti, da una parte i Blu, i
sostenitori della Rivoluzione, e dall’altra i Bianchi, i
sostenitori della controrivoluzione.
I
Bianchi e i Blu presenta una struttura in quattro
parti, che costituiscono ognuna un nucleo narrativo a sé stante, separato nel
tempo, senza un protagonista principale e con personaggi che compaiono,
spariscono e magari ricompaiono. La prima parte, intitolata L’armata
del Reno, è ambientata a Strasburgo, nel dicembre 1793, in pieno Terrore:
la ghigliottina continua a tagliare teste e i prussiani sono alle porte della
città, che vive in una specie di follia paranoica mentre la Repubblica è in
guerra contro i suoi nemici interni ed esterni. La seconda parte, Attacco alla
Convenzione, ci trasporta nella Parigi della “reazione termidoriana” dopo
la caduta di Robespierre, nell’ottobre 1795, appena prima dell’istituzione del
Direttorio, quando le sezioni di Parigi presero d’assalto la Convenzione
nazionale. La terza parte, Il colpo di Stato, ci trasporta nel
settembre 1797 e racconta le tensioni e i complotti interni al Direttorio, che
in teoria avrebbe dovuto assicurare alla Francia la stabilità ma che in realtà
porta allo scoperto le tensioni accumulate negli anni precedenti, ormai pronte
a deflagrare con il tentato colpo di Stato organizzato da tre dei cinque membri
del Direttorio con il sostegno dell’esercito. Infine, la quarta e ultima parte, L’ottava crociata,
ci catapulta nella campagna d’Egitto di Napoleone nel 1798-99, quando il futuro
imperatore dei francesi (il quale si è già distinto nell’appoggiare il Direttorio)
mette sotto assedio San Giovanni d’Acri con lo scopo di completare la conquista
della Terra Santa e di annetterla all’Egitto, indebolendo così l’esercito turco
alleato degli inglesi.
La
trama dunque non è lineare e potrebbe disorientare un po’ per la sua natura
frammentaria e l’inserimento di così tanti fatti e personaggi storici con cui
magari i lettori italiani hanno poca dimestichezza (si contano, tra gli altri,
Saint-Just, i giovani Charles Nodier ed Eugène de Beauharnais, i generali
Pichegru e Cadoudal, Madame de Staël e il suo salotto, oltre a svariate
nobildonne e personaggi della politica del tempo). A ciò si deve aggiungere la
propensione alla digressione, arte nella quale Dumas eccelleva, con interi
capitoli volti a raccontare il background di determinati dettagli storici o
geografici e con l’autore che interviene personalmente per dare giudizi sulle
vicende narrate. Da una parte Dumas fa un panegirico della Convenzione, capace
di difendere il Paese dall’aggressione esterna e resistere ai diversi
estremismi interni; dall’altra mette in scena la ragioni degli altri, i
legittimisti (scioani e compagni di Jéhu), in qualche modo celebrandoli. Meno
simpatia riserva invece per chi abusa del potere, come Euloge Schneider, ex
frate cappuccino ora commissario rivoluzionario e fanatico estremista (è
incredibile quanti invasati prima di diventare rivoluzionari fossero preti,
come il Cimourdain de Il Novantatré di Victor Hugo), il quale
cerca di sposarsi con una fanciulla ricattandola e minacciando suo padre.
Oppure per François Goulin, annegatore di nemici della Rivoluzione e capace di
replicare all’orrore di una fanciulla di fronte alla vista della
ghigliottina: “Vorrei sapere chi è l’aristocratico che parla con così poco
rispetto dello strumento che ha contribuito maggiormente al progresso umano
dopo l’aratro”. Non è un caso che contro di lui si formi una vera e propria
alleanza tra governativi rivoluzionari e ribelli controrivoluzionari per porre
fine alla sua esistenza utilizzando lo strumento da lui tanto amato.C’è poi una
sezione su Avignone, città papale invasa dalla Rivoluzione, che gronda
letteralmente sangue: in episodi come quelli del poveraccio massacrato sui
gradini dell’altare, dell’uccisione del conte di Fargas e del massacro dei
rifugiati nella torre Trouillasse (ottenuta dietro la somministrazione di
eccitanti al popolaccio per renderlo rabbioso), Dumas è incredibilmente
efficace nel ritrarre la violenza del popolo, gli inganni perpetrati da chi
detiene il potere, la meschinità dei carnefici. Soprattutto, ammette
chiaramente di essere sempre stato attratto dai vinti e di essersi rivolto a
loro, avvertendo il bisogno “se non di riabilitare, almeno di attirare la
pietà delle generazioni che verranno sugli uomini che per esse si sono sacrificati”:
per questo si sofferma a lungo sul doloroso viaggio e l’agonia dei prigionieri
del colpo di Stato, costretti a privazioni indicibili e alla fine condannati
alla deportazione in Guyana, non solo compatendoli ma trasformandoli
addirittura in eroi.
Nel romanzo
ci sono molte scene memorabili: il brindisi di Schneider che beve dal collo di
una bottiglia rotta tagliandosi le labbra; Saint-Just che condanna a morte un
suo amico d’infanzia per essersi svestito prima di andare a letto e non aver
rispettato l’ordine di restare vestiti per i militari; ancora Saint-Just che
legge della riconquista della città insorta di Tolone da parte di Bonaparte e
impone ai soldati di restare schierati ad ascoltare mentre vengono decimati
dalle cannonate del nemico; la spia polacca di Pichegru travestita da suonatore
di organetto; il sottotenente Faraud che combatte da solo contro un branco di
lupi e poi baratta il grado di caporale in cambio di alcuni prussiani
catturati; il duello tra lo stesso Faraud e Falou sotto gli occhi di Napoleone
a proposito della disputa tra signore e cittadino e
quindi del voi e del tu con cui rivolgersi
agli altri (tu e cittadino sono rivoluzionari, signore e voi monarchici);
Coster de Saint-Victor, capace, nella stessa sera, di dare origine a una sollevazione
e di rubare amante e cena a Barras, uno dei cinque membri del Direttorio;
Napoleone e Joséphine de Beauharnais che si recano individualmente, entrambi
sotto mentite spoglie, dall’indovina che li smaschera e predice loro il futuro.
Molto
efficace è anche il ritratto che Dumas fa della società della reazione
termidoriana, quando Parigi vede affermarsi nuove tipologie sociali, gli incredibili e
le meravigliose, giovani seguaci di un lusso ostentato e
stravagante: i primi si lasciano crescere lunghe trecce alla maniera
aristocratica ed esibiscono affettazione nei modi e nella parlata (si rifiutano
di usare il tu rivoluzionario e la r di rivoluzione), le
seconde sono vestite con tuniche provenienti dall’antichità pagana. Nel frattempo, la provincia è scossa dalla reazione
monarchica, soprattutto grazie ai Compagni di Jéhu, società segreta comandata
dall’inflessibile Morgan che si occupa di procurare ai ribelli della
Controrivoluzione i soldati necessari per l’armata e che ha il suo covo
nell’abbandonata certosa di Seillon: i Compagni non conoscono misericordia nei
confronti dei loro membri traditori, neppure se hanno ceduto alla tortura, e ne
uccidono giustappunto uno mediante un coltello a forma di croce perché il
condannato possa baciarlo al momento di morire in mancanza di un crocifisso.
Grande
spazio è poi dedicato alla vita militare, alle operazioni belliche
dell’esercito rivoluzionario, alla bontà e alla spontaneità dei soldati
francesi, tanto che si capisce che Dumas simpatizza con loro e ne celebra le
gesta (non resta mai neutrale, ma si riferisce sempre ai francesi dicendo
“i nostri”), aspetti portati all’estremo con l’ultima parte ambientata in
Egitto, dove Dumas, figlio di un generale di quella campagna caduto in
disgrazia, ci porta sul campo di battaglia, tra le cariche e le palle di
cannone, in un crescendo di atti cruenti ed eroici, e ritrae le eroiche truppe
francesi che, fronteggiando ogni possibile difficoltà (malattie, privazioni e
clima ostile), combattono strenuamente in luoghi resi famosi dalla Bibbia e dai
Vangeli; anzi, l’intera campagna si configura come una vendetta nazionale della
sconfitta dei Corni di Hattin (1187) dei cavalieri crociati guidati da Guido di
Lusignano contro il Saladino, e assume le connotazioni di una nuova crociata.
Anche in questo caso ci sono scene memorabili come quella in cui Napoleone
chiede ai suoi generali informazioni sul deserto della Siria distribuendo loro
le biografie di Plutarco, libri di mitologia e la Bibbia; oppure quella del
trucco messo in pratica sulla spiaggia dal mercante di palle di cannone per
recuperare pezzi di artiglieria o quella del commodoro inglese Sidney Smith
che, di fronte al dono delle teste dei nemici uccisi che il pascià Al-Jazzar
gli fa recapitare come prezioso regalo, dichiara: “Ecco cosa vuol dire avere un
barbaro per alleato”.