Se
pensate che il fantasy sia sempre uguale a se stesso e non abbia più niente da
dire, Fidanzati dell’inverno della francese Christelle Dabos potrebbe
fare per voi. Si tratta del primo capitolo di una trilogia, L’Attraversaspecchi,
ambientato in un futuro prossimo venturo steampunk/Belle Époque in cui scienza
e magia convivono e in cui, a seguito della frammentazione della Terra, l’umanità
è molto diminuita e si è ridotta in clan, le arche, dove tutti gli appartenenti
alla stessa famiglia condividono lo stesso potere, che è diverso per ogni clan:
altrove le famiglie hanno il potere di infliggere colpi attraverso il sistema
nervoso, di vedere le stesse cose o di conservare la memoria. La protagonista
della storia, Ofelia, appartenente all’arca di Anima, viene promessa in sposa a
un appartenente all’arca del Polo, Thorn, che si presenta subito come un nobile
ombroso, sprezzante e altezzoso (nessuno dei due vuole questo matrimonio);
ovviamente, si dovrà svelare anche lui, rispecchiando lo stereotipo del bello
burbero e problematico. Trasferita a Città-cielo e inizialmente affidata alla
zia di Thorn, Berenilde, donna capricciosa, narcisista e calcolatrice, che la
nasconde sotto le sembianze di un domestico maschio, Ofelia scoprirà che in
questo regno ci sono un’infinità di intrighi politici e tutti cercano di
uccidersi a vicenda, e in più lei dovrà cercare di sopravvivere e di venire a
capo del suo matrimonio. Il libro è ben scritto, ha una trama molto dinamica
(anche se con qualche lungaggine di troppo) ed è a tutti gli effetti un romanzo
di formazione con una protagonista adolescente (cosa che ne fa uno young adult)
che ha un’evoluzione all’interno della trama: parte goffa, insicura e con poca
personalità, ha gli occhiali (è miope), sternutisce sempre e si morsica le
cuciture dei guanti, ma è curiosa e intraprendente. Ha due poteri, la capacità
di percepire la memoria degli oggetti semplicemente toccandoli e quella di
viaggiare attraverso gli specchi; questi due poteri non sono mai abusati ma
sempre dosati nella giusta maniera, forse per essere ripresi nei successivi
capitoli della saga quando la nostra Ofelia sarà cresciuta come personaggio e
li padroneggerà in pieno. Gli altri personaggi sono abbastanza
monodimensionali, ma quello che veramente convince è la costruzione del mondo,
che rispecchia perfettamente una realtà in cui tutti mentono e indossano delle
maschere: Città-cielo è un vero e proprio labirinto sospeso che si organizza in
verticale (ci si muove con degli ascensori) con delle porte magiche che fanno
sbucare in punti diversi e addirittura dei microclimi particolari. È la città
delle illusioni che permettono lo stravolgimento degli spazi o in un infinito
gioco di specchi (ma, paradossalmente, in questo mondo di inganni gli specchi
rifiutano chi tenta di attraversarli interpretando un ruolo diverso dal
proprio): Ofelia non si può fidare di niente e di nessuno, neanche di quello
che vede. Inoltre, questo mondo magico ci viene mostrato un po’ per volta e non
spiegato, cosa che aumenta l’immersività visto che il lettore scopre le cose
insieme a Ofelia. Molto bella l’idea delle clessidre usate come “viaggi vacanza”
per ricompensare i servitori e farli viaggiare attraverso delle vere e proprie
illusioni.
martedì 31 dicembre 2019
lunedì 30 dicembre 2019
Stuart Turton - Le sette morti di Evelyn Hardcastle
«Nulla
di meglio di una maschera per rivelare la vera natura di chi la porta»: proprio sul concetto di maschera ragiona questo Le sette morti di Evelyn Hardcastle,
giallo con elementi mystery che mescola Edgare Wallace, Cluedo, Downton
Abbey e Black Mirror e
immerge il lettore in una storia molto originale e perfettamente congegnata.
Tutto parte dal protagonista Aiden Bishop, che si sveglia in un bosco, non ha
memoria di sé, crede di assistere a un omicidio, vede una ragazza che scappa,
cerca una via di fuga e approda a una casa enorme e abbandonata a se stessa.
La tenuta è quella di Blackheat, e nella casa sono radunati numerosi
personaggi, invitati a una festa in maschera in onore del ritorno a casa della
figlia degli Hardcastle, Evelyn, dopo essersi trasferita a Parigi. Curiosamente,
19 anni prima, nello stesso giorno si è tenuta la stessa festa, durante la
quale è morto il figlio minore degli Hardcastle, Thomas, fatto che ha fatto
deflagrare le relazioni all’interno della famiglia e ha segnato in particolar modo Evelyn. A poco a poco Aiden comincia a capire di essere finito in un gioco più
grande di lui, fatto di intrighi e scoperte: scopre di non poter fuggire da
Blackheath e di avere otto giorni per scoprire il segreto della morte di
Evelyn, che ogni sera alle undici muore per un colpo di pistola al ventre
cadendo nel laghetto della tenuta. Se all’inizio scopre di essere nel corpo di
un medico, Aiden ogni giorno si sposta in un corpo diverso appartenente agli
ospiti della casa, vivendo dunque in prima persona gli accadimenti dello stesso
giorno fino a quando non sprofonda nel sonno: questi personaggi non sono semplici burattini che lui può muovere a piacimento,
ma veri e propri personaggi mossi da emozioni, pulsioni e traumi sempre
più difficili da gestire, che condizionano Aiden secondo il loro modo di
pensare, la loro personalità e i loro difetti fisici. Il campionario umano è
molto ben assortito: ci sono il banchiere, l’agente di polizia, il giocatore d’azzardo,
il medico spacciatore, lo stupratore seriale. Arbitro di questo gioco è un
personaggio parecchio inquietante, vestito da medico della peste, che non svela
il proprio volto; ad affiancare la sua presenza costante ci sono la misteriosa
domestica Anna, il cui nome non compare né tra gli invitati né nel personale di
servizio, e il lacchè, infallibile cecchino che minaccia di uccidere
spietatamente ognuna delle incarnazioni del protagonista. Ovviamente, la
narrazione in prima persona permette una totale identificazione con il
protagonista da parte del lettore, che ne condivide lo smarrimento, e la
questione delle varie incarnazioni è perfetta per rivivere la giornata dai
diversi punti di vista e ricostruire il background e le motivazioni di ognuno, in
una complessa rete di ricatti, verità e menzogne (e ne vengono dette molte). All’inizio
non si capisce nulla ma, stando al gioco, si viene a capo di un vero e proprio
mosaico di dettagli e indizi disseminati lungo il testo, cosa che spinge a una
rilettura per poter apprezzare molti particolari che, soprattutto all’inizio,
si sono inevitabilmente persi. Certo, qualcuno potrebbe avere problemi a non
accettare la natura irrazionale dell’indagine (anche se la ricostruzione dell’enigma
è del tutto razionale), ma Stuart Turton è capace di utilizzare il giallo per
parlare di colpa, peccato, redenzione e perdono. Un romanzo da non sottovalutare.
lunedì 23 dicembre 2019
Friedrich Reck-Malleczewen - Il re degli anabattisti
Nuova
edizione Fede & Cultura per quello che è a suo modo un classico, Il re degli anabattisti di
Friedrich Reck-Malleczewen, aristocratico prussiano cattolico morto nel campo
di concentramento di Dachau, che racconta una vicenda che costituisce parte
cospicua anche del fortunato romanzo Q
di Luther Blissett: la presa di Münster da parte degli anabattisti
nel 1534-35 e il loro tentativo di rinnovamento (o sovvertimento) sociale prima
della capitolazione davanti alle truppe del vescovo-principe von Waldeck. Da un
lato Münster, città della Vestfalia caratterizzata fin dall’inizio della
Riforma da un protestantesimo combattivo e lontano dai compromessi di Lutero;
dall’altro l’anabattismo, che non solo predica la necessità di un nuovo
battesimo da adulti ma che rappresenta un’opposizione interna al
protestantesimo di Lutero (i contadini di Thomas Müntzer avevano cercato di
opporsi al sistema feudale e per questo erano stati ferocemente repressi dai
principi). Come sempre accade in questo caso, partendo dalla volontà di tornare
alla purezza della religione cristiana e da pubbliche dichiarazioni di “reciproca
tolleranza” e di “libertà di religione”, costoro tentarono di tornare allo
stato edenico attraverso un rinnovamento sociale basato sulle Scritture dell’Antico
Testamento: suddivisero la città in parti, cambiarono nome alle strade,
proibirono la proprietà privata ed elessero un profeta, Jan Matthys, alla cui
morte succedette Jan Bockelson di Leida, uno capace di ammazzare dichiarando: «La porta della misericordia è sbarrata». In breve Bockelson divenne il re di Münster, la
nuova Sion in terra, ormai ricettacolo di tutti i criminali dell’impero e
contraddistinta dal sangue e dalla follia: una comunione dei beni che diventa
comunitarismo se non proprio comunismo («Un
cristiano non deve possedere denaro e il suo argento o il suo oro appartengono
all’uno come all’altro»),
lussuria sfrenata, abusi di ogni tipo, chiese devastate e imbrattate, conventi
saccheggiati, poligamia obbligatoria (pena la morte se le donne rifiutavano),
isteria collettiva, propaganda, eliminazione delle “bocche inutili”, esecuzioni
sommarie e quotidiane per punire il peccato sulla base di un semplice sospetto.
Il tutto, ovviamente, condito e legittimato da citazioni bibliche e presunti comandi
ricevuti direttamente da Dio: in un’occasione si pensa addirittura di uccidere
il vescovo von Waldeck come Oloferne inviando nel suo accampamento una specie
di Giuditta con una camicia intrisa di veleno. La cosa più grottesca è proprio il
ruolo di Bockelson, autentico “re giullare”, e del suo sgherro Knipperdolling
dai «tratti paranoici del santone», cui si deve la decisione (dovuta a una visione) di
abbattere i campanili, simbolo dell’illecita superiorità della Chiesa
cattolica, affinché tutto ciò che era elevato fosse umiliato. Reck-Malleczewen
ricostruisce questa pagina nerissima della Riforma protestante e la legge in
chiave controrivoluzionaria, ovvero come il primo grande esperimento di
trasformazione violenta della società compiuto in Occidente, direttamente
connessa all’esperienza della Germania nazista, di cui lo stesso
Reck-Malleczewen era strenuo oppositore. In questo senso si capiscono le sue
parole quando parla di «una
diabolica intossicazione tedesca, un evento nel corso del quale dagli antri
segreti di quest’anima ambigua evasero tutti i diavoli, gli spiriti e i
satanassi che fino ad allora si era osato fissare soltanto sulle devote tavole
gotiche». L’autore affronta l’episodio di Münster in chiave di
«follia collettiva» ed «emblematica psicosi»,
interrogandosi come abbia potuto verificarsi «proprio in questo angolo della Germania
settentrionale, tra una borghesia apparentemente compassata». Quindi individua la chiave di tutto nel
Rinascimento, periodo che «ha
comportato per la Germania l’introduzione violenta di uno stile di vita
straniero» e che ha segnato lo slittamento
da una società incentrata su Dio a una basata sul denaro, corrispondente alla
rottura dell’unità dei cristiani e dell’impero: il crollo delle «idee più antiche e sacre» ha lasciato spazio al più sfrenato individualismo,
spingendo l’uomo nordico «ad
accettare l’idea che un capitale che genera interessi fosse un elemento chiave
nel corso della storia». In
questo modo l’etica svuotata di senso di matrice calvinista diventa virtù fine
a se stessa, per arrivare fino a Robespierre «che alla fine, paradossalmente, distrugge la stessa
vita per amore della virtù».
Addirittura, secondo Reck-Malleczewen, Bockelson nemmeno ci credeva a quel che
predicava ed era pronto a tradire la causa «se
questo gli avesse consentito di ottenere la pace con l’impero e una vantaggiosa
uscita di scena» e
soprattutto avesse avuto alle spalle qualche potenza più forte, esattamente
come Napoleone perseguitò i giacobini e richiamò l’antica nobiltà emigrata.
Certo, spesso l’estrazione aristocratica dell’autore («la canaglia detesterà sempre ciò che non può entrare
nel suo cranio scimmiesco»),
specie quando si scaglia contro l’affermazione dell’uomo-massa o denuncia della
rottura dell’unità dei cristiani e dell’impero in nome di «quel delirio avvelenato» che è l’«uguaglianza
di tutti gli uomini»,
principio che darà origine agli enciclopedisti dell’Illuminismo, alla
Rivoluzione francese e a quella bolscevica («Buona
notte, amato mondo antico e religioso; buona notte, anti-co Sacro Impero; buona
notte, mondo dei cercatori di Dio e dei costruttori di cattedrali… buona notte,
buona notte»). Dal
punto di vista stilistico, invece, siamo di fronte a un testo modernissimo, che
mescola discorso diretto e indiretto, prima e terza persona, frasi profetiche e
visioni, scene di violenza e prove documentali; addirittura si interroga su
come evolveranno le cose e si rivolge agli stessi rivoltosi, rammentando loro
le imprese compiute. In questo modo catapulta il lettore in uno scenario quasi
pulp: basti la narrazione in prima persona della fame a Münster, con la gente
costretta a mangiare le rilegature in pelle dei libri, gli stivali e le
candele, e a cuocere lo sterco di vacca e le proprie feci; o la descrizione
della messa orgiastica con il re, le sue regali mogli e l’intera comunità che
presentano all’altare offerte sacrificali consistenti in ratti morti, teste
putrefatte di gatti e zoccoli di cavalli uccisi. Niente di più distante da un
saggio classico e accademico.
sabato 14 dicembre 2019
Tom Gauld - Mooncop
Anche
la solitudine può essere poetica, come prova Mooncop, deliziosa graphic
novel scritta e disegnata da Tom Gauld in bianco, nero, blu e azzurro che
immagina una luna colonizzata e abbandonata dall’uomo. Il satellite è ormai semideserto,
in un vero e proprio fallimento dell’immaginario fantascientifico, come a suggerire
la negazione di un futuro che (per noi) non è ancora arrivato; tutti tornano
sulla Terra e vengono sostituiti da automi intelligenti, quasi una metafora dei
piccoli paesini di provincia che si svuotano e scompaiono. È un volume molto
malinconico, fatto di poche cose, sfumature e piccole disavventure che fanno
sorridere e sognare: il protagonista è un poliziotto che si aggira per la
superficie lunare deserta al fine di far rispettare la legge: la sua ronda consiste
in una ragazzina da riportare a casa, una signora anziana che è stata tra le
prime a trasferirsi sulla luna e che ora è alla ricerca del cane, l’automa senile
di Neil Armstrong che vaga attorno al Museo locale. Tutto è pervaso di un’ironia
sottile e gentile, basti pensare al poliziotto che ha il 100% di crimini
risolti (0 su 0) e all’inserviente del negozio di ciambelle eletta impiegata
del mese. Il tratto è essenziale, gli elementi sono ridotti all’osso: tutti (compreso
il cane e il bar) sono dotati di casco, e la Terra assume
valenza poetica prendendo il posto della luna nel nostro immaginario celeste.
martedì 10 dicembre 2019
Franco Cardini - I Templari
Grande
medievista, storico delle crociate ed esperto di rapporti tra cristianesimo e
islam, Franco Cardini è uno dei più accreditati studiosi che possono spiegare chi e cosa fossero i cavalieri Templari, troppe volte dipinti come soggetti
ambigui, apostoli di una fede segreta attorno a cui si è costruito un mito che
li vorrebbe ancora vivi e in possesso di segreti talmente sconvolgenti da
cambiare, se rivelati, la storia stessa del mondo (basti pensare al successo di
bestseller come Il Codice Da Vinci o, molto più semplicemente, a
programmi come Voyager). In questo agile libretto Cardini spazza via
ogni ambiguità: nati dopo la conquista di Gerusalemme della Prima Crociata (1099)
con il nome di pauperes milites Christi, i Templari furono un ordine
monastico-cavalleresco che seppe unire i tradizionali voti di povertà, castità
e obbedienza all’uso delle armi, andando a costituire quella che in gergo
canonico si chiama “milizia”. Rappresentavano un’evoluzione del semplice
concetto di miles sancti Petri coniato da papa Gregorio VII, cioè non più
un monachesimo che fugge il mondo e abbraccia il “martirio incruento” della
penitenza, bensì “il restare nel mondo per agire in esso usando gli strumenti
mondani per un fine che tale non era considerato”. Anche se in breve si affermarono
come una potenza economica di prim’ordine, il compito principale dei Templari
era quello di combattere e proteggere i pellegrini sulle vie che portavano a
Gerusalemme, Santiago de Compostela e altri punti focali della cristianità. Diedero
prova di sagacia militare e diplomatica e si mescolarono alle vicende politiche
della Terrasanta. Con la cacciata dei cristiani da quest’ultima, i Templari
persero il loro ruolo storico e caddero in disgrazia: la loro avventura terminò
quando si attirarono le invidie del re di Francia Filippo IV il Bello,
desideroso di impossessarsi del loro patrimonio e di ridurre, allo stesso tempo,
il potere della Chiesa. Egli li fece arrestare e confessare svariate eresie con
tortura: non pago, fece anche bruciare l’ultimo gran maestro, Giacomo di Molay,
attirando, secondo la leggenda, la maledizione di questi su di sé e su tutta la
sua stirpe per intere generazioni. Era il 1312, e l’avventura dei Templari
finì. I membri dell’Ordine furono lasciti liberi, alcuni tornarono allo stato
laicale sposandosi, altri scelsero di entrare nell’ordine gemello di San
Giovanni (gli Ospitalieri) e negli ordini monastici o mendicanti, altri si
dedicarono invece a forme di libera attività (un templare finì corsaro, un
altro divenne addirittura capo della guardia di un emiro di Tunisi). Da storico,
Cardini sottolinea molto decisamente che qui finisce la vicenda dal punto di
vista storico: laddove ci sia stata una sopravvivenza occulta dell’Ordine è
bene chiarire che si tratta di effetti del fenomeno conosciuto come “templarismo”, impostosi tra Sei e Settecento e legato a un uso distorto della
storia, specie da quando Andrew Michael Ramsay, uno scozzese fedele alla
dinastia Stuart esule in Francia, si inventò di sana pianta una diaspora dei
Templari in tutta Europa e una loro connessione con la massoneria e il segreto
del Graal. Da questo momento in molti hanno contribuito ad aggiungere equivoco
a equivoco, falsificazione a falsificazione, confusione a confusione, fra
teorie cospirazioniste del complotto ed elucubrazioni sul governo universale
dei Superiori Sconosciuti, dalla Santa Vehme al Thal di Zacharias Werner, dalla
Sinarchia alla Loggia Luminosa del Vril. Si è venuta così a creare una
paccottiglia fantaculturale che fa tendenza e trova costantemente un grosso
pubblico, fino a raggiungere un livello massmediale che sfrutta la passione per
l’esoterismo di persone che preferiscono raccontarsi delle mediocri fiabe
piuttosto che affrontare la lettura di un buon libro.
Dario Calimani - T.S. Eliot. Le geometrie del disordine
Da quando, ormai quasi vent’anni fa, l’ho portato all’esame
di Letteratura inglese all’università, T.S. Eliot mi è rimasto dentro. Ogni
tanto riaffiorano in me versi della Waste Land come “Madame Sosostris,
la famosa chiaroveggente, aveva un brutto raffreddore”, “Temi la morte per
acqua!”, “Giag giag a sozze orecchie”, “In the room the women come and go / Talking
of Michelangelo” e “You! hypocrite lecteur! – mon semblable, – mon frère!”. Quest’estate
a Londra mi sono pure imbattuto nella sua casa, a High Street Kensington, e mi
è venuta voglia di riaffrontarlo, riprendendo in mano il libro di testo del mio
professore Dario Calimani, ahimè fuori catalogo, che presenta Eliot come un modernista
pur «con
la delusione e il rimpianto del classicista a cui sono venuti a mancare i
valori su cui ha fondato la sua esistenza», e spiega quindi come per lui
il Modernismo «è una rivoluzione formale applicata a un contenuto
percepito come degradazione e involuzione». Chiariamo subito che si
tratta di un testo universitario, quindi abbastanza complesso, documentato e
pieno di note bibliografiche e riferimenti testuali, ma è una grandissima
lettura. Vista l’ideologia reazionaria, se non dichiaratamente fascista, e l’antisemitismo
di questo genio del Novecento, Calimani parte dal dilemma posto dalla poesia di
Eliot al critico, se cioè si debba giudicare la sua poesia dal messaggio oppure
indipendentemente da esso, e la risposta non può che essere una riflessione
critica sul conflitto di questi due ambiti, con un continuo riesame di sé e dei
propri valori. Chiaro che questo esercizio si concentri soprattutto sulla Waste
Land, il capolavoro di Eliot, summa della sua poetica fatta di citazioni e
allusioni testuali, da Dante a Shakespeare a Milton, al punto che ogni verso è
o contiene la citazione da opere precedenti; una poetica che si basa sulla sola
autorità del linguaggio e gioca sempre su contrasti e ossimori che si negano
vicendevolmente e creano un preciso effetto poetico spiazzante, facendo
volutamente smarrire il lettore. Il testo eliotiano rompe il rapporto classico tra
soggetto e l’oggetto della percezione, quindi fa perdere al soggetto la chiave
di decodifica della realtà e all’autore il rapporto con il proprio testo; allo
stesso tempo il lettore dipende da un testo che «non ripone alcuna fiducia in
lui e nella razionalità della sua natura umana».
Eliot «delinea una visione spaziale della
letteratura per la quale le opere del passato e quelle del presente
costituiscono un ordine simultaneo nella coscienza dell’artista che scrive, un
ordine che esula dalla tradizione temporale». Nella Waste Land si
assiste a una moltiplicazione dei tempi (presente, passato, futuro, ma anche
tempo mitico), tutti schiacciati per giustapposizione (tecnica della
sincronicità), con la conseguente scomparsa del tempo e la sua sostituzione con
lo spazio (già anticipata dalla vita misurata in cucchiaini da caffè di Prufrock):
il tempo viene spazializzato e fatto a pezzi, spesso incorniciato
pittoricamente e incastonato con una finzione nell’altra, espediente che sembra
corrispondere alla tecnica di costruzione narrativa ma che in realtà serve solo
ad annullare l’orizzontalità temporale e le barriere verticali che separano
storia, mito e finzione letteraria. Anche tutte le immagini forti e ricorrenti
della Waste Land sono poste in giustapposizione tra loro: la profezia,
spesso mancata (l’indovino Tiresia, la chiaroveggente Madame Sosostris, la
Sibilla decrepita prigioniera in un’ampolla), la fenicità (Phlebas il fenicio,
Didone, la Cartagine di Agostino, le guerre puniche), l’amore tradito, la
metamorfosi, la morte per acqua. La forma abbandona le strutture tradizionali e
diventa metafora del decadimento spirituale e sociopolitico: «Con
la sua forma chiusa, il testo si autolegittima ironicamente e, insieme, si
fissa in un sistema spaziale che, annullato ogni collegamento sequenziale e
deterministico, nega ogni valore all’esperienza dell’uomo nella storia e ogni
senso alla storia stessa. Al tempo della storia, con le irreparabili tragedie
del suo passato e le angosce del suo futuro, subentra la spazialità di un
ordine mitico che promette la serenità dell’inazione e l’immobilità di un
percorso ciclico, rassicurante perché sempre dogmaticamente uguale a se stesso.
[…] Abolita
la sintassi tradizionale, […] il testo ricorre a una sintassi spaziale che,
nell’esulare da modelli di riferimento esterni, dichiara la propria
autoreferenzialità, dando così espressione alla paura del tempo e alla più
completa sfiducia nella storia. Il testo, così come lo spirito dell’autore,
cerca pacificazione nella sicurezza di un modello, stabile e immutabile, che di
fatto trae il proprio fondamento dalla frana dello storicismo e dalle rovine
letterarie della civiltà». La struttura mitica può dunque dare forma,
ordine e significato al caos e all’anarchia della storia contemporanea. È un
caso esemplare di traduzione dell’ideologia dell’autore in un preciso stile che
prende il sopravvento su tutto: in questo senso si devono intendere le “geometrie
del disordine” del titolo.
Ovvio che l’attenzione di Calimani sia rivolta a The
Love Song of J. Alfred Prufrock, che poi love song non è (ma forse, «oltre
che il canto a cui egli non sa dar voce, il canto che egli non sa ispirare»),
«che
avvia una complessa strategia di modelli forali, digressivi, mitici, teatrali e
di distanziamento, attraverso i quali l’io ostenta la propria incertezza, in un
gioco che rivela disagio e volontà di fuga da sé e dalla realtà circostante»;
un testo che uccide l’azione ed è un’ironica negazione del percorso in avanti, e
in cui «lo
stile nega sempre più apertamente possibilità di accesso alla presenza umana». Ma
è la Waste Land a recitare ovviamente la parte del leone nella seconda
parte del volume: in essa perfino il mito di riferimento (i cavalieri della
Tavola Rotonda, la leggenda del Re Pescatore che rivitalizza la terra arida) è
deteriorato e svuotato di significato, visto lo svilimento generale dei valori
della nostra società, mentre il rapporto conflittuale tra fertilità (femminile)
e aridità (maschile), verticalità e caduta, addizione e sottrazione, è ottenuto
mediante il grande spettro di registri verbali che si scontrano tra loro
innestando l’ironia (lo stile basso che distrugge le figure mitiche, lo stile
cavalleresco che nobilita ironicamente realtà meschine). Il testo è composto di
frammenti, di frammenti di immagini, di spazio, di tempo, di frammenti di
frammenti («Con
questi frammenti ho puntellato le mie rovine»); la spazializzazione
applicata al tempo riguarda anche l’immagine del corpo, che viene a sua volta
frammentato (abbiamo piedi, abbiamo occhi, ma mai un corpo), e delle ossa
(sempre scaricate come rifiuti). Riguarda però anche il percorso di tutto il
poema lungo le strade di Londra verso la foce del Tamigi, in un gioco di
materializzazione e reificazione di persone che perdono la loro umanità e si
fanno semplice spazio. Spesso l’ambiente prende vita e acquista umanità per
compensare un’umanità che non c’è (il boudoir della Lady che diventa come la
reggia di Didone, mentre la Lady, Lil, viene giustapposta alla Filomela del
mito che è stata stuprata), in una retorica di umanizzazione/rivitalizzazione del
non umano e di una disumanizzazione/devitalizzazione dell’umano (l’uomo-taxi): «Al
mito, che oppone e sostituisce la natura animale a quella umana, corrisponde la
riproduzione artistica, che oppone e sostituisce la natura morta alla natura
viva».
Il testo eliotiano rinuncia a ogni principio di
consequenzialità logico-temporale: «la
realtà spaziale creata dalla giustapposizione dei tempi è la struttura più
propria di un testo che afferma la frammentazione come unico principio
strutturante e unificante». Tutto
questo fa sì che un frammento di testo non dia senso a un altro frammento di
testo, dal momento che ogni frammento rappresenta virtualmente il suo inizio e
la sua fine. Quello che resta è la complessità e la globalità del testo, sempre
aperto e mai concluso, che pone sempre maggiori domande e offre tante verità
quanti sono i suoi fruitori, chiedendo proprio ai suoi fruitori «di far violenza all’immortale fissità dell’arte per
continuare, malgrado essa, beffardamente, a vivere».
venerdì 6 dicembre 2019
Philip Roth - Il complotto contro l'America
I
romanzi di Philip Roth vertono tutti sul rapporto, complesso e conflittuale,
tra la cultura ebraica e la società americana, una doppia identità difficile da
accettare ma feconda dal punto di vista narrativo. Non fa eccezione questo Il complotto contro l’America,
ucronia che parte dalla tradizionale domanda “what if”: cosa sarebbe accaduto
se alle elezioni presidenziali del 1940 avesse vinto non Roosevelt ma il
simpatizzante fascista e antisemita Charles Lindbergh, l’eroe dell’aria, il
primo ad aver compiuto la trasvolata oceanica? Niente di nuovo, in fondo, basti
pensare a La svastica sul sole
di Philip K. Dick o Fatherland di
Robert Harris, che immaginano entrambi un futuro in cui i nazisti hanno vinto
la guerra. Qui il nuovo presidente, giocando sulla paura degli americani per
una nuova guerra, dichiara la neutralità del Paese e, di fatto, si allea a
Hitler. Non si tratta di un’ucronia fantascientifica “di genere”: Roth gioca
con quello che già sappiamo, mescolando realtà e finzione, paura e paranoia,
ricostruendo un fascismo americano fatto di personaggi e organizzazioni
politiche, reali e possibili. Soprattutto, mescola macrostoria, storia
personale e storia familiare: se negli altri romanzi Roth ha sempre un alter
ego, qui invece si chiama proprio Philip Roth, cioè mette se stesso nell’ucronia
e parla della sua infanzia (la collezione di francobolli che cominciano ad
avere la svastica) in una famiglia ebraica, oscillando tra il punto di vista
ingenuo di se stesso bambino che prende coscienza della propria diversità e quello dell’adulto che nel frattempo ha capito
tutto quello che è successo. L’antisemitismo viene raccontato nella sua
evoluzione e nel suo crescendo, dalle prime paure ai pogrom veri e propri,
passando per l’accettazione di compromessi scomodi (la visita di von Ribbentrop
alla Casa Bianca) e le deportazioni “morbide”, il cui esito non può che essere
uno solo: l’istituzione di una dittatura armata che, in base a una serie di
menzogne create ad arte, elimina i diritti civili e qualsiasi voce di
dissidenza, fino al congestionato finale in cui la macrostoria prende il
sopravvento per il precipitare della situazione e il ruolo eroico svolto
dal sindaco Fiorello LaGuardia. Potremmo dunque pensare di trovarci di fronte a
un ampio saggio travestito da romanzo, ma la grandezza di Roth sta nel
raccontare l’antisemitismo a partire da un punto di vista familiare, a partire
dalla gita a Washington con la perdita della prenotazione in albergo, con i
diversi esiti e la progressiva disgregazione della famiglia Roth (il cugino
Alvin si arruola con gli inglesi e perde una gamba, mentre il fratello Sandy si
lascia assorbire dalla cultura contadina americana e mangia maiale); oltre a
ragionare su lato oscuro di un’America che resta razzista e intollerante, capace di trovare una propria personale via al fascismo, Roth
contrappone una cultura ebraica perdente, quella democratica e rooseveltiana
della famiglia Roth, a quella vincente e compromessa con il potere incarnata
dal rabbino Bengelsdorf (marito della zia di Philip), che sostiene il nuovo
presidente e convince gli ebrei che va tutto bene. Ancora più interessante il
fatto che la maggiore opposizione a Lindbergh nel romanzo venga da un padre
provocatore e arrogante che, nonostante abbia ragione, passa sempre dalla parte
del torto. Una scrittura civile e identitaria, critica e problematica, capace
di interrogare e mettere tutti di fronte alle proprie responsabilità (anche quelle del protagonista, che fa spedire il suo vicino di casa che non sopporta nel Kentucky causando indirettamente la morte della madre, nonostante lui gli abbia salvato la vita). In chiusura, una panoramica storica sui veri personaggi apparsi nel romanzo.
giovedì 5 dicembre 2019
Gilbert Keith Chesterton - San Francesco d'Assisi
Di G.K. Chesterton ho già tradotto anni fa San Tommaso d’Aquino, ma non ne ho
mai parlato nel timore di averlo capito poco. Il mio problema con Chesterton è
il suo stile provocatorio, la prosa contorta e la propensione alla divagazione
parlando d’altro. Non fa eccezione questo San Francesco d’Assisi
(riproposto da Fede & cultura e tradotto sempre dal sottoscritto), saggio
dedicato a un santo fondamentale nel cammino di conversione al cattolicesimo
dello stesso scrittore inglese ma soprattutto a un personaggio capace di
esercitare una strana attrattiva sull’immaginazione dei vittoriani. Scrive
proprio Chesterton nel saggio su San Tommaso: «C’è qualcosa nella storia di San
Francesco che rispondeva a tutte le più nascoste e umane qualità inglesi:
segreta tenerezza del cuore, poetica vaghezza della mente, amore del paesaggio
e degli animali. San Francesco è stato il solo cattolico medievale che, per i
propri meriti, è divenuto popolare in Inghilterra. La classe media ha trovato
il suo vero missionario nel tipo che, fra tutti, essa maggiormente disprezzava:
quello del mendicante italiano». Logico quindi che la figura del santo di
Assisi riveste una duplice importanza, sia per l’autore che per la sua società
di appartenenza.
Pur ripetendo che il suo lavoro è solo un’introduzione
priva di pretese di esaustività, Chesterton si fa cantore di un San Francesco
ispiratore dell’arte di Giotto, della poesia di Dante, della drammaturgia
moderna, ma soprattutto di un santo controcorrente e antimoderno, destinato a
una gloria eterna proprio perché non di moda: così l’autore inglese legge la
decisione di Francesco di esporsi alla derisione cittadina e di mortificarsi
per imitare Cristo, una persona reale, non un’idea. Allo stesso modo per il
santo la religione non era una teoria ma «qualcosa di più simile a una
storia d’amore», al punto da abbracciare una gioiosa follia e diventare uno
specchio di Cristo. Anche il suo amore per la natura non era da intendersi come
un panteismo sentimentale alla maniera romantica, ma solo un modo di amare il
Creatore e la sua grandezza (esattamente come la sua amicizia esclusivamente
spirituale con Santa Chiara). Comunque la si giri, non si può parlare di San
Francesco senza parlare di Dio, e non si può parlare di lui solo in chiave
razionale come hanno fatto molte (e pur valide) letture contemporanee.
Possiamo quindi perdonare a Chesterton le numerose pagine
di polemica nei confronti del paganesimo naturalista che per secoli ha negato
all’uomo la realtà ultraterrena e le cui conseguenze sono durate fino al
periodo che va dal XII al XIII secolo, quando cioè, «da frammenti di
feudalesimo, libertà e sopravvivenze del diritto romano» è nata la grande
civiltà del Medioevo, epoca di «riforme senza rivoluzioni», dopo la
purificazione dei secoli dell’espiazione cristiana. Da giornalista, Chesterton
si scaglia contro il modo di fare storia in maniera giornalistica, cioè senza «raccontare
la storia nella sua complessità»: per esempio, invita a considerare come le
continue guerre tra città che caratterizzavano quel tempo erano nulla se paragonate
agli scontri tra gli eserciti della contemporaneità, e che gli uomini del
Medioevo erano chiamati a morire per le loro case, i loro luoghi di culto e i
loro governanti e non «per gli echi di remote colonie riportati in anonimi
giornali». Le guerre del Medioevo non paralizzavano la civiltà, come prova il
fatto che quelle «bellicose città» hanno prodotto personaggi del calibro di
Dante, Michelangelo, Ariosto, Tiziano, Leonardo e Colombo; senza considerare
che «c’era più internazionalità nel mondo delle piccole repubbliche di allora
di quanta non ce ne sia nei grandi blocchi nazionali impenetrabili e omogenei
di oggi». Allo stesso modo, è importante spazzare via i pregiudizi che si hanno
sul Medioevo, con l’Inquisizione, le Crociate e tutto il resto, come siamo
portati a fare dalla leggenda nera diffusa dal protestantesimo.
È abbastanza chiaro che a Chesterton il paganesimo e
la sua mitologia trasformata in allegoria non stanno simpatici, e infatti
esalta l’immaginazione favolistica e infantile di San Francesco fatta «di pure
fantasie su fiori, animali ed esseri inanimati» che lo portò a creare una nuova
mitologia personale: i suoi Frate Sole e Sorella Allodola sono l’equivalente di
Fratel Coniglietto e Comare Volpe dei Racconti dello Zio Tom.
Il suo linguaggio ha reso più accessibile il divino all’uomo, ha attirato gli
uomini ed è stato capace di inviare i servi di Dio per le strade del mondo.
Chesterton insiste sulla sua immaginazione, il suo umorismo, la sua cortesia,
la sua generosità, la sua umiltà, la sua visione teatrale di tutte le cose, la
sua idea di martirio come fine di vita e mezzo per convertire il mondo, e
ricostruisce la vicenda umana di Francesco in tutti i suoi momenti salienti (la
partecipazione alla guerra, la prigionia, la malattia e la crisi, la
ricostruzione della chiesa di San Damiano, l’incontro con il papa, il viaggio
per incontrare il sultano, le divisioni nell’ordine francescano, le stimmate),
fino a una complessa analisi sulla veridicità dei suoi miracoli, sulla loro storicità e sulla loro
interpretazione.
martedì 26 novembre 2019
Jacques Le Goff - Il Dio del Medioevo
Scomparso
da poco, Jacques Le Goff è uno dei più grandi medievisti mai vissuti, e per
questo ogni suo libro è davvero degno di essere considerato. Anche se si tratta
di un piccolo libro-intervista (si legge in nemmeno due ore), come poteva esserlo Mille e non più mille di Georges Duby, in cui il nostro
risponde a delle domande che gli vengono poste su uno dei temi centrali nella
storia medievale: il ruolo di Dio, la sua concezione e la conseguente
riorganizzazione dello spazio in base a essa. Il Dio del Medioevo è il libro indicato per quanti
che pensano che nel Medioevo tutti pensassero allo stesso modo e che la società
fosse un monolite governato dalla Chiesa cattolica: Le Goff spiega infatti che
l’idea di Dio che c’era nel Medioevo era composita, e non solo perché il Dio
cristiano si sovrappose ai culti pagani precedenti trasformando in monoteismo
ciò che era politeismo assumendone molte forme antropomorfe. Il punto più
delicato nel Medioevo è proprio il monoteismo, visto che l’idea dell’unico Dio
in tre Persone ha suscitato infiniti dibattiti ed eresie: tutte le maggiori
eresie del Medioevo ruotano sulla definizione della natura della seconda
Persona della Trinità, Gesù vero Dio e vero uomo oppure solo
Dio o solo uomo. Non a caso Gesù Cristo, che inizialmente nell’Alto
Medioevo è ritratto in trono, giudice e sovrano, in seguito (XIII-XIV secolo)
sale sulla croce e si mostra sofferente, compassionevole e redentore dell’uomo,
in linea con la tendenza a umanizzare sempre più il divino e renderlo più
accessibile. Se poi a ciò ci aggiungiamo le raffigurazioni dello Spirito Santo
e della Vergine Maria, per non parlare degli angeli e dei santi, siamo alla
presenza di una tale mescolanza e compresenza di figure da pensare a una sorta
di politeismo, oppure a un monoteismo ibrido che distingue nettamente il
cristianesimo dalle altre religioni monoteiste come quella ebraica e quella
islamica, anche grazie alla possibilità di raffigurare il divino (l’iconoclastia
non ha mai preso piede in Occidente). E non bisogna nemmeno stupirsi che
Gioacchino da Fiore avesse diviso la storia dell’uomo in tre tappe, ognuna
sotto il dominio di una Persona della Trinità, prima dell’avvento dell’Anticristo
e della seconda venuta in terra del Cristo in gloria e del Giudizio universale.
L’iconografia oltrepassa la pittura: per questo Le Goff indaga Dio anche dal
punto di vista ideologico e politico, origine dell’autorità e garante del
rapporto feudale. Ne emerge una religione molto ricca e dinamica che generò una
civiltà variegata e che, grazie a una continua esegesi (la teologia e la
Scolastica), riattualizzò e storicizzò il Dio dell’Antico Testamento,
rendendolo funzionale alla società del tempo.
lunedì 18 novembre 2019
Susanna Clarke - Jonathan Strange & il signor Norrell
A dispetto della sua scarsa fama e diffusione in Italia, Jonathan
Strange & il signor Norrell è lo straordinario debutto letterario di
Susanna Clarke (che per scriverlo ci ha messo nove anni), arrivato alla fama
anche grazie a Neil Gaiman: la leggenda narra che l’autrice abbia frequentato
un corso di scrittura creativa e abbia prodotto un pezzo che ha esaltato a tal
punto l’insegnante da finire nelle mani di Gaiman, il quale se ne è innamorato
a sua volta e l’ha definito “il più bel romanzo fantastico inglese scritto
negli ultimi settant’anni”. Un romanzo anche e soprattutto sulla magia nell’Inghilterra
del primo Ottocento, che prende l’avvio in una situazione in cui la magia è
solo un fatto storico documentato e un segreto perduto: infatti essa è andata
deteriorandosi sempre di più in seguito alla scomparsa del Re Corvo, signore
dei Regni Fatati, dell’Inferno e della Gran Bretagna del Nord. I maghi sono “teorici”
si trovano a studiarla come professione accademica e non ritengono possibile né
conveniente metterla in pratica, diversamente dai cosiddetti maghi da strada
(indovini e cartomanti) con le loro tende gialle. Logico immaginarsi lo stupore
quando si scopre l’esistenza di un vero mago “pratico”, Gilbert Norrell, capace
di realizzare dalla distanza un incantesimo che dà la vita alle statue della
cattedrale di York. Convinto di dover restituire prestigio alla magia inglese e
aiutare il governo nella guerra contro la Francia di Napoleone, mette in atto
le sue arti magiche per accattivarsi la simpatia del politico di turno
facendone risorgere la moglie, Lady Pole, ma contemporaneamente emerge un altro
mago, Jonathan Strange, molto diverso dal collega e molto più aperto e
intraprendente: è lui a venire spedito in Portogallo e Spagna ad assistere sul
campo Wellington nella guerra contro i francesi.
Centro del romanzo è proprio il conflitto fra i due
protagonisti, i quali, approfonditamente descritti dal punto di vista
caratteriale e psicologico, sono uno il contrario dell’altro. Il misantropo
Norrell ha una concezione della magia come segreto da custodire gelosamente (e
infatti usa sua influenza politica per adottare misure restrittive nei
confronti degli altri maghi), il secondo come conquista e come ebbrezza. La
loro rivalità si inquadra perfettamente nella profezia alla cui ombra si dipana
l’intera storia (due maghi devono reggere le sorti e il buon nome della magia
inglese) e le loro opposte personalità non fanno che contrapporsi assumendo di
volta in volta svariati ruoli reciproci (maestro-allievo, amici, colleghi,
alleati, rivali e nemici), screditandosi a vicenda e comportandosi in maniera
non esattamente esemplare finché non saranno costretti a trovare un sodalizio
contro il pericolo comune quando la stessa magia rivelerà il proprio lato
oscuro e sinistro, come prova l’interazione con il re del reame fatato di
Senzasperanza, “il gentiluomo dai capelli lanuginosi”, una creatura piena di sé
e con uno senso della moralità tutto suo, una limitatissima comprensione dei
desideri e dei bisogni umani e un codice morale assolutamente incompatibile con
il nostro, cosa che ne fa il villain
della situazione. Sarà proprio lui a rapire Arabella, la moglie di
Strange facendola passare per morta e a mettersi in testa di mettere sul trono
inglese Stephen, Black, un mite servitore di colore.
In quasi 900 pagine, l’opera attinge a piene mani da
varie tradizioni letterarie (il romanzo gotico, la letteratura romantica,
Charles Dickens, Jane Austen, l’eroe byroniano, la comedy
of manners), ma anche dal folklore inglese e irlandese. A un’occhiata
superficiale potrebbe sembrare un polpettone contenente qualunque cosa e invece
il risultato è, oltre che sofisticato ed elegante, divertentissimo. La Clarke
ricorre continuamente sull’inglesità, cioè che cosa fa di un inglese un inglese,
e al contrasto fra quello che è ragionevole e rispettabile e quello che è
irragionevole e non rispettabile, ed è spesso divertentissima come nell’episodio
della resurrezione dei soldati napoletani che cominciano a parlare «in
una lingua gutturale con più urla di ogni altro idioma conosciuto ai presenti»
tanto da sembrare «uno dei dialetti dell’inferno». Ma il romanzo stupisce
soprattutto per la maestria con cui è stato ideato e realizzato. Oltre alla
coppia complementare che dà titolo all’opera Strange/Norrell, tutto si basa poi
su altre coppie di personaggi caratterizzati da affinità e differenze: il
gentiluomo dai capelli lanuginosi e Stephen Black, Norrell e il suo servitore
Childermass, Strange e Arabella, Arabella e Lady Pole (costrette a subire le conseguenze
della magia nel loro quotidiano), Drawlight e Lascelles (decisi a sfruttare la
fama di Norrell a proprio beneficio). Inoltre, oltre alla vicenda principale,
vengono raccontati episodi e aneddoti (tutti riguardanti il tema della magia)
inseriti sotto forma di nota a piè di pagina, in un complesso e interminabile
gioco di rimandi e digressioni che fa sì che il lettore si allontani
continuamente dalla narrazione principale e si smarrisca in un mondo
alternativo e avvolgente.
La magia di Susanna Clarke è qualcosa di infido e
radicalmente diverso dalla solita idea delle bacchette magiche: piuttosto, nel
romanzo gli incantesimi sono procedure molto complesse, simili a delle ricette
e a dei rituali per sottomettere i fenomeni naturali, che richiedono studio e
conoscenza per poter venire padroneggiate. Non a caso, il signor Norrell
possiede la biblioteca più grande del mondo e non consente a Strange di aver
accesso a determinati testi, nella paura di venire da lui superato nell’arte
magica. Inoltre, non solo i due protagonisti sono due bibliomani, ma tutto il
romanzo si basa sui libri, richiamando un numero portentoso di riferimenti
bibliografici: libri che citano libri che a loro volta citano altri libri, fino
alla creazione di un vero e proprio labirinto metaletterario. Lo stesso mondo
fatato, le “Terre Altre” abitate dalla “gente incantata”, non sono mai
descritte direttamente, ma solo per adombramenti e riferimenti bibliografici.
Le note sono legate a eventi del passato ma a livelli temporali diversi,
sfasati fra loro: c’è l’età presente, dove la magia è appena stata riscoperta
da Strange e Norrell, quindi l’età argentea e a ritroso fino all’età aurea,
dominata da John Uskglass, il Re Corvo. Ogni nota e ogni microstoria si
sovrappone anche a livello stilistico, a suggerire l’irraggiungibilità e l’impossibilità
di raccontare il mondo incantato: non è un caso che chi cerca di spiegare cosa
gli è successo nelle Terre Altre non riesce a esprimersi, dilungandosi in una
serie di dettagli oziosi e incomprensibili riguardanti altre storie, e solo la
pazzia è una delle strade privilegiate per accedere alla dimensione magica.
Senza contare che ogni magia ha un prezzo, così come l’ambizione che la muove. Una
lettura grandiosa, al termine della quale anche voi crederete di essere là dove
finivano un tempo tutti i maghi, «dietro
il cielo, dall’altro lato della pioggia».
domenica 10 novembre 2019
J.R.R. Tolkien - La Compagnia dell'Anello
Dire la mia sulla nuova traduzione del Signore degli Anelli è un’impresa
rischiosa, sebbene argomento decisamente acchiappalike. Per molta gente, qui in
Italia, pensare di ritradurre un testo sacro come questo è una bestemmia o una
questione di lesa maestà: come ci si è potuti permettere anche solo di pensare
di sconfessare la vecchia traduzione del 1967 di Vittoria Alliata di
Villafranca sotto (si dice) la supervisione dello stesso Tolkien? Una
traduzione che poi è stata pesantemente modificata da Quirino Principe che
livellò tutti i dialoghi su un registro alto, demolendo la stratificazione
linguistica e la varietà lessicale di un filologo come Tolkien, fatta talmente
bene che in seguito ha dovuto subire un progressivo lavoro di sistemazione nel
corso degli anni (si conta una mezza dozzina di interventi)? Aggiungiamoci che
la vecchia traduzione è ammantata di una certa connotazione politica (di
destra) ben precisa e che la nuova è stata realizzata in collaborazione con la
recente Associazione Italiana di Studi Tolkieniani (di sinistra), e apriti
cielo: hanno cominciato a fioccare articoli dal titolo “Come assassinare
Tolkien” e “Giù le mani da Tolkien”, che accusano la Bompiani di aver
scientemente messo in atto una nuova lettura di Tolkien in chiave terzomondista
e politically correct, capace di alterare la sua portata di classico
eterno e tradizionale, antimoderno e antisistema. Tutti discorsi che si fermano
come sempre alla frontiera di Chiasso e, guarda caso, non si fanno mai per
nuove traduzioni di Dostoevskij, Dickens o Proust, autori che sono considerati
classici: anche Tolkien è un classico che parla a tutti, non un’allegoria
chiusa, ed è normale che venga ritradotto dopo qualche anno rispetto alla prima
edizione. Ora, sono il primo a dire che il nuovo traduttore Ottavio Fatica
avrebbe potuto essere più diplomatico invece che accusare la vecchia traduzione
di avere “500 errori a pagina per 1.500 pagine”, ma sul fatto che la vecchia
versione Rusconi (rimasta quella, nonostante le revisioni, anche in seguito del
passaggio dei diritti a Bompiani) fosse piena di manipolazioni e alterazioni c’è
poco da discutere. Da parte sua, Vittoria Alliata non è stata da meno, visto
che ha denunciato per diffamazione Fatica, sancendo una nuova faida in un
settore, quello editoriale, già frequentato da pazzi scatenati e sempre più
incentrato sulle polemiche social. Poi è arrivata in anteprima la nuova
interpretazione della poesia dell’Anello, faccenda molto delicata in quanto di
particolare significato nel cuore di ogni tolkieniano: le resistenze sono state
ovviamente forti, dopo 50 anni durante i quali ci si è affezionati a un testo e
a determinati nomi (consacrati, è bene ricordarlo, dall’adattamento della
trilogia cinematografica di Peter Jackson), ma da qui a improvvisarsi filologi
su YouTube ce ne passa, peggio ancora evocare teorie del complotto e bassa
dietrologia. Quindi lo sdegno si è rivolto a Samwise Gamgee tradotto come “Samplicio”,
cosa che ha portato ad accuse infamanti di aver snaturato la natura del nome:
neanche qui bisogna stupirsi troppo, visto che nell’era di internet tutti sanno
fare il mestiere di tutti e non si tiene conto del fatto che Samwise, come
spiegato da Giampaolo Canzonieri (principale consulente di Fatica per questa
traduzione), viene dall’anglosassone samwís che
significa “semplice”. Insomma, nessuno vi ha rubato l’infanzia e non c’è alcun
bisogno di andare a insultare la gente su Facebook o trasformarsi in haters: la
vecchia traduzione resterà comunque, e nessuno vi obbliga ad acquistare la
nuova.
Diciamo subito una cosa: non solo manca la mappa della
Terra di Mezzo, ma la copertina di questo primo volume fa schifo. Mettere
questa specie di superficie lunare (pare sia una fotografia satellitare del
pianeta Marte), quando ormai c’è un intero immaginario legato a Tolkien, è una
scelta veramente assurda. Sarebbe bastato acquistare i diritti di un’immagine
di Alan Lee o John Howe per risolvere la cosa, ma come detto l’ambiente
editoriale è frequentato da pazzi scatenati e non bisogna stupirsi troppo
nemmeno delle superfici lunari. D’altra parte, non si deve giudicare un libro
dalla copertina, giusto?
Venendo al testo, finalmente è stata eliminata la
famigerata prefazione di Elémire Zolla che correda tutte le edizioni italiane
del Signore degli Anelli dal 1970 in
poi e che interpretava il romanzo in chiave simbolica, mistico-alchemica e
oracolare, attraverso simboli eterni in dialogo tra loro e con una presunta
verità astorica che con i personaggi in esso contenuti non hanno davvero niente
a che fare (senza contare che svelava la conclusione del romanzo). In compenso,
è stata lasciata solamente la prefazione di Tolkien alla seconda edizione, cioè
le parole dell’autore stesso che chiarisce la sua posizione sulle letture
allegoriche della sua opera: «Quanto al significato profondo o al “messaggio”,
nelle intenzioni dell’autore non ne ha alcuno. Non è né allegorico né legato
all’attualità. (...) Io detesto cordialmente l’allegoria in tutte le sue
manifestazioni e l’ho sempre fatto sin da quando sono diventato abbastanza
grande e accorto da individuarne la presenza. Preferisco di gran lunga la
storia, vera o finta, con la sua molteplice applicabilità al pensiero e all’esperienza
dei lettori. Credo che molti confondano “applicabilità” con “allegoria”; ma una
risiede nella libertà del lettore, l’altra nel predominio deliberato dell’autore».
Chi ha orecchie per intendere, intenda.
Quanto all’opera del traduttore, conscio di attirarmi le
ire di molti, sottolineo la sua incredibile cura nel rendere il registro medio
di Tolkien, che ogni tanto si innalza o si abbassa bruscamente a seconda del
personaggio che sta parlando, o che si arricchisce di arcaismi, giocando sull’attrito
che creano questi effetti. Molte volte sembra proprio di leggere un nuovo
libro, che in alcuni casi trascina e commuove, come nel caso del dialogo tra
Frodo e Gandalf, o che si adatta alla perfezione alla polifonia di Tolkien,
come accade per il Consiglio di Elrond, l’episodio in cui maggiormente le
parole e il modo di parlare dei vari personaggi implicano la loro etica e il
loro modo di vedere le cose. E poi bisogna segnalare l’estrema attenzione per
le sottigliezze: per rendere parole come drownded per drowned o vittles per victuals pronunciate da Hamfast
Gamgee, il padre di Sam, Fatica ricorre a storpiature lessicali come “affocato”
al posto di “annegato” o “pappatoria” al posto di “mangiare”. Oppure rispetta i
neologismi (intraducibili) come “eleventy-one” dall’Old English e lo traduce “undicento”,
e fa ricorso a forme gergali in uso anche nell’italiano come “Il signor Bilbo
gli ha imparato a leggere e a scrivere” per tradurre “Mr. Bilbo learned him his
letters”. Tutte cose che non aveva mai notato nessuno, per inciso. Non si
tratta di invenzioni, ma di un tentativo di dare una sfumatura che nell’originale
connota un ben preciso modo di parlare di determinati personaggi: ignorarla
nella convinzione di rendere più scorrevole o evocativo un testo non è affatto
una motivazione adeguata, anzi, conferma la brutta abitudine di rifiutarsi di
analizzare Tolkien sotto una luce nuova, più meticolosa e fedele. Come al
solito, si conferma la pessima tendenza a opporsi al nuovo, in quanto il vecchio
è meglio, anzi, è bello per partito preso.
Il lavoro di Fatica riguarda anche nomi e toponimi, senza
rispettare le proposte del passato (quindi Rivendell non è né Forraspaccata né
Gran Burrone), dando anzi sfoggio di grande creatività specie per rendere i “nomi
parlanti” (creati apposta così da Tolkien): per i nomi, vengono eliminate le traslitterazioni
fonetiche (Tuc ridiventa Took) e presentate varianti come Ruggitoro/Muggitoro,
Brandibuck/Brandaino, Sabbioso/Sabbiaiolo, Scavari/Scavieri, Paffuti/Paciocco,
Rintanati/Cavacciolo, Serracinta/Pancieri, Tassi/Tanatasso,
Soffiatromba/Soffiacorno, Tronfipiede/Pededegno, Grassotto Bolgeri/Ciccio
Bolger, Cactaceo/Farfaraccio, Grampasso/Passolungo, Billy Felci/Bill Felcioso.
Inoltre, l’incomprensibile “Gaffiere” diviene “Veglio”, l’Assemblea degli
hobbit non è più nazionale ma conteale (tra l’altro il concetto di nazione non
esiste nella Terra di Mezzo), i Raminghi diventano Forestali (altra cosa, a
quanto pare, per molti insopportabile), Occidente diviene Occidenza, i Warg non
sono più Mannari, Mezzuomo si riduce a Mezzomo. Soluzioni che possono non
piacere, ma che sono comunque lecite.
Lo stesso accade per i toponimi: Hobbiville/Hobbiton
(come in originale), Decumano/Quartiero, Pianilungone/Vallelunga,
Pietraforata/Gran Sterro, Lungacque/Acquariva, Saccoforino/Scarcasacco,
Tucboro/Borgo Daino, Terra di Buck/Landaino, Crifosso/Criconca,
Terminalbosco/Fondo Boschivo, Sinuosalice/Circonvolvolo,
Tumulilande/Poggitumuli, Montagne Nebbiose/Monti Brumosi, Bosco Atro/Boscuro,
Dunland/Landumbria, Chiane Ditteri/Chiane Moscerine, Terre Selvagge/Selvalanda,
Colle Vento/Svettavento, Fiume Grigio/Fiume Pollagrigia, Gran Burrone/Valforra,
Rombirivo/Riorombante, Agrifogliere/Agrifoglieto, Valle dei Rivi
Tenebrosi/Vallea dei Riombrosi, Mirolago/Speculago, Argentaroggia/Roggiargento.
Anche le poesie sono cambiate. Fatica ha cercato di
mantenere metro e rime originali (cosa che la versione Alliata/Principe non faceva) e
per questo ha dovuto leggermente forzare sintassi e lessico, oltre che rendere
ragione della tecnica dell’inversione di Tolkien, che dispone le parole in un
ordine diverso rispetto al normale all’interno della frase. Può non piacere, ma
anche questa è una scelta lecita: leggete questa nuova traduzione, criticatela
ma soprattutto ragionate prima di trarre conclusioni affrettate. Amare Tolkien
significa leggerlo davvero.
domenica 27 ottobre 2019
Neil Gaiman - Questa non è la mia faccia
Neil Gaiman è uno degli autori più interessanti del
panorama internazionale, il cui eclettismo gli ha permesso di tracciare una via
assolutamente personale che rimane una fonte di ispirazione per chiunque si
avvicini al mondo del fantastico. Questa non è la mia faccia
è una sua antologia che contiene discorsi, saggi e introduzioni di varia
provenienza (anche temporale), una miscellanea che a un occhio superficiale e poco attento
potrebbe risultare un ozioso e furbo riempitivo per fare due spiccioli aggiuntivi
da parte di un autore che è comunque una rockstar (riprendendo la famosa
definizione del suo amico Alan Moore). Certo, il fatto che racconti la genesi
di molti dei suoi romanzi e racconti lo rende difficile da affrontare per chi
non lo conosce, ma non si tratta solo di questo: l’antologia è piuttosto una
dichiarazione d’amore di Gaiman verso la letteratura, i libri che ha amato, gli
autori da cui ha attinto e che gli hanno insegnato tutto quello che sa sulla
scrittura. È emozionante leggere del suo amore per Le
Cronache di Narnia di C.S. Lewis (da cui copiò l’uso delle
parentesi nei temi e nei compiti scolastici), ciclo che per la prima volta gli
ha fatto pensare che ci fosse un autore dietro un libro, e imbattersi nell’ammissione
che il desiderio di diventare anche lui scrittore, e in particolare scrittore
di fantastico, è nato leggendo Il Signore degli Anelli
di Tolkien. O di quando racconta di quando a scuola raccontò una barzelletta
contenente la parola fuck a un suo
compagno e ottenne il risultato di rischiare l’espulsione e di perdere il
compagno (che la raccontò a sua volta a sua madre), immediatamente ritirato «da
quel covo brulicante di iniquità scatologiche». Un episodio che gli ha
insegnato che le parole hanno un potere e che bisogna selezionare con cura il
proprio pubblico.
Dalle biblioteche alle librerie che hanno caratterizzato
la sua vita, in chiave assolutamente personale, Gaiman trasmette l’idea che la
letteratura non sia un monologo chiuso ma un dialogo sempre aperto, che
arricchisce la persona e le permette di imparare, sognare e vivere in altri
mondi e dimensioni dalle quali è possibile tornare diversi, arricchiti. La sua
fiducia nella narrazione è totale, il suo approccio onnivoro e positivo, tipico
di chi è cresciuto sui libri e che vive per i libri: non è importante leggere
su carta, su ebook o su cd, l’importante è leggere, in base a quello che piace.
E non bisogna nemmeno mantenere un atteggiamento snobistico nei confronti di
determinati generi considerati sciocchi, come la letteratura d’evasione, i
fumetti o i libri per bambini, perché si otterrebbe un effetto
controproducente: «Adulti bene intenzionati possono distruggere con grande
facilità l’amore per la lettura di un bambino: impeditegli di leggere quello
che gli piace, o dategli i libri degni ma noiosi che piacciono a voi, l’equivalente
contemporaneo dei libri "educativi" di epoca vittoriana. Vi
ritroverete con una generazione di ragazzi convinti che leggere non sia figo e,
peggio ancora, che non sia un piacere». Una frase che andrebbe incisa in ogni
libreria come stella polare per tutti quegli adulti noiosi e pieni di
preconcetti che pensano che i bambini debbano essere distolti con la forza dai
libri di loro interesse e costretti a leggere tomi sacri ed edificanti.
Molti sono i consigli forniti sulla scrittura, ma tutti
riguardanti la dedizione e la passione: si deve amare quello che si fa, perché
la scrittura è prima di tutto felicità e benessere, e coltivare le proprie
ossessioni, consci che esse possono produrre arte. Bellissimo è il ragionamento
sui miti, da Gaiman lungamente utilizzati a partire dal fumetto Sandman per arrivare ad American Gods. Con una metafora
presa dal giardinaggio, per il nostro i miti sono come il compostaggio:
«Iniziano come religioni, come credenze con radici profondissime, e come storie
che si aggregano in religioni man mano che si sviluppano. (...) E poi, quando
le religioni passano di moda, o le storie non sono più ritenute vere in senso
letterale, diventano miti. E il compost di miti è diventato terriccio, il
terreno fertile per altre storie e altri racconti che sbocciano come fiori
selvatici». I miti si sono quindi adattati alle diverse epoche («Anansi, il dio
ragno dell’Africa, diventa Fratel Coniglietto alle prese con il bambino di
pece») e si sono trasformati nei supereroi dei fumetti, proliferano nelle
leggende metropolitane, diventano icone e celebrità, e quindi sono nostri in
tutto e per tutto, perché raccontano la nostra vita: da qui la necessità di
raccontarli, riplasmandoli e riadattandoli. Lo stesso vale per le fiabe, nate
come storie che adulti raccontavano ad altri adulti e diventate favole per
bambini quando sono passate di moda, proprio come, secondo l’analogia fatta da
Tolkien, «i mobili non più graditi sono spostati nella nursery: non sono nati
come mobili per bambini, è solo che gli adulti non sapevano più che farsene».
Si ride spesso per tutti gli aneddoti riportati, come quando Gaiman racconta che lui e
Pratchett hanno scritto Buona Apocalisse a tutti!
scambiandosi floppy disk per posta; altre volte ci si meraviglia, come quando scopriamo
che in Cina hanno finanziato una convention di fantascienza dopo aver notato
che chi lavora a Microsoft, Google e Apple da ragazzo leggeva sempre fantascienza.
Oppure quando il nostro stabilisce un’equiparazione tra musical e pornografia:
come nel musical tutto è un pretesto per mettere in scena le canzoni, nel porno
tutto è un pretesto per mostrare una sequenza di scene prestabilite, secondo le
regole codificate dal genere. Senza quelle regole, il pubblico si sentirebbe
fregato: non è l’argomento a fare il genere ma le sue regole. Di sicuro da
Gaiman si deve sapere cosa aspettarsi, cioè dissertazioni e divagazioni sul
fantasy, la fantascienza e l’horror, con una grande attenzione per i diversi
linguaggi, in linea con la sua poliedricità. C’è una galleria di ritratti di
autori che Gaiman ha conosciuto o con cui ha lavorato (Terry Pratchett, Douglas
Adams, Stephen King), una serie di recensioni sui generi e i romanzi amati (Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, Jonathan Strange & il signor Norrell
di Susanna Clarke), l’approccio ai film (l’amato La
moglie di Frankenstein) e alle sceneggiature (MirrorMask), una dichiarazione d’amore
per Doctor Who (che si scopre essere stato fondamentale per la realizzazione di
Neverwhere), una lunghissima
dissertazione sui fumetti (Jack Kirby, Will Eisner, Bone
di Jeff Smith) e il modo di realizzarli, un surreale reportage di una notte passata
per le strade di Londra, la narrazione di una serata agli Ocar, addirittura un
testo sorpresa che saltava fuori nel videogioco SimCity 2000 se si andava in
biblioteca. Non mancano nemmeno capitoli sulla musica (Tori Amos e Lou Reed, a
cui il nostro ha fatto perfino un’intervista) e sull’arte (The Fairy Feller’s Master-Stroke di
Richard Dadd, la National Portrait Gallery), il sostegno a Charlie Hebdo, uno sguardo sulla Siria, senza
dimenticare il racconto dell’incontro con la moglie Amanda Palmer, cantante
alternativa e controversa, oltre a vari ragionamenti sulla vita.
Ovviamente non ho detto tutto. C’è un universo in
questo libro, esattamente come c’è un universo nella mente di Gaiman. Alla fine
la sua lezione è che la lettura fa scoprire mondi e la scrittura ne produce
altri. È il classico libro che ti fa stabilire connessioni, ti mette addosso una voglia incredibile di
procurarti e leggere tutte le opere e gli autori citati che non conosci, e ti
getta nella disperazione perché ti rendi conto che non ce la farai mai. Ma ti esorta anche a rischiare, a provare a dire la tua, a creare la tua opera d'arte.
venerdì 25 ottobre 2019
Jay Asher, Jessica Freeburg, Jeff Stokely - Piper. Il canto della solitudine
Non
nascondo di aver sempre provato una sorta di fascinazione per la fiaba del
Pifferaio Magico, figura quanto mai ambigua perché capace di portare via tutti
i topi dalla città di Hamelin ma soprattutto i bambini, per portarli chissà
dove. Allegoria di un’epidemia di peste? Monito contro l’avarizia umana? C’è
perfino chi sostiene che il Pifferaio rappresenterebbe il reclutatore di un
pellegrinaggio o di una campagna militare, meglio ancora di una crociata dei
bambini. Sono stato quindi attratto da questo Piper. Il canto della
solitudine, graphic novel che è a tutti gli effetti una riscrittura della
celebre fiaba realizzata da Jay Asher, l’autore di Tredici, romanzo ormai conosciuto da tutti grazie
all’omonima serie prodotta da Netflix. Asher immagina una coprotagonista della
fiaba, la dolce Maggie, una ragazza che da piccola ha perso l’udito a causa di
un terribile atto di bullismo nei confronti suoi e di suo fratello, e si occupa
di una vecchina che si è presa cura di lei una volta rimasta orfana. Il
Pifferaio invece è misterioso come nella versione originale e si reca nel
villaggio di Hamelin per liberarlo dall’invasione dei topi grazie alla sua
magia. I due, che condividono un comune destino di outsider e di emarginati in quanto diversi, in
breve si innamorano l’una dell’altro, e qui emergono i due diversi caratteri:
Maggie, nonostante la tenerezza, è solare e fiduciosa verso la vita e il
prossimo («Hamelin
pensava che mia madre e mio fratello non meritassero di vivere. Probabilmente
pensano lo stesso di me. Ma io credo che ogni vita sia degna di essere vissuta»), mentre il Pifferaio è pieno di ombre e, in base a
una sua idea di giustizia, intende vendicarsi degli abitanti del villaggio, che
sono orribili già di loro e che per giunta rifiutano di pagarlo per il lavoro
pattuito. La riscrittura della fiaba affronta quindi in maniera originale il
problema della diversità, della colpa e del perdono, mentre il tema della magia
è risolto come tecnica (il Pifferaio conosce le melodie giuste per addormentare
o comandare animali e uomini e lascia che la gente pensi che sia effetto di un
incantesimo). Spiazzante il finale che arriva alle medesime conclusioni della
fiaba spiegando qualcosa di più ma mantenendo lo stesso tono dolceamaro. Non
male i disegni di Jeff Stokely, anche se a volte diventano caricaturali e pupazzosi. In pieno
stile Netflix, il figlio del mugnaio di Hamelin è nero, non molto coerente con
lo scenario della Bassa Sassonia del XIII secolo, ma si sa che oggi è
necessario fare queste attualizzazioni.
martedì 15 ottobre 2019
Irvine Welsh - Porno
A dispetto
del suo titolo esplicito e provocatorio, Porno è il romanzo prosecuzione
di Trainspotting, diverso ma ugualmente folle, sempre ambientato nella
cornice del sobborgo portuale di Leith, vero e proprio non-luogo per nulla
raccomandabile. Dieci anni dopo, il protagonista è il cinico Sick Boy, al secolo
Simon David Williamson, il quale, sopravvissuto al fallimento londinese come
truffatore, marito e padre, sniffa cocaina e intende fare il botto girando un
film porno (Sette troie per sette fratelli) nel retro di un pub e
partecipare al festival hard di Cannes: per questo, ingaggia una serie di
erotomani e in particolar modo la macchina del sesso Terry, ma il salto di
qualità decisivo avviene quando nella compagnia entra Nikki, splendida
studentessa-massaggiatrice priva di inibizioni. I fili del destino sembrano
riannodarsi perché ritroviamo invischiati nella vicenda tutti i personaggi la
cui amicizia si era disgregata alla fine di Trainspotting a causa della
fregatura di Mark Renton, che all’inizio si nasconde ancora ad Amsterdam (dove
si è rifugiato) ma poi viene scovato da Sick Boy. Spud continua a essere perso
nella sua dipendenza dalle droghe ma è impegnato nell’impresa di scrivere una
storia del suo sobborgo, mentre lo psicopatico Begbie è in prigione per
omicidio ed è ben intenzionato a vendicarsi di Renton. Avendolo letto subito
dopo Trainspotting, non sono incappato in alcun modo nella sindrome del
fan deluso per un seguito deludente e fuori tempo massimo, quindi non mi metto
a gridare che mi hanno rubato l’infanzia o i miei sogni. Pur nella sua disorganica
ed eccessiva lungaggine, Porno ha senza dubbio il merito di donare un
futuro a un gruppo di tossici sbandati che un futuro sembravano non avercelo.
Dopo aver narrato il mondo dell’eroina, Welsh tenta di raccontare quello del
porno amatoriale in chiave di riscatto sociale senza cadere nell’errore di film
come Zack & Miri – Amore a... primo sesso e La banda del porno:
se quei film partono da pretese grevi e oltraggiose ma finiscono nei territori
del sentimentalismo più conformista, Porno resta un bell’esempio di narrazione
amorale, politicamente scorretta e quasi documentaristica nella sua esplicita
crudezza e abbondanza di dettagli sordidi. Nulla è risparmiato al lettore, a
livello di amplessi e scurrilità: di Trainspotting è ripresa la
struttura corale, con i vari capitoli che raccontano in prima persona le
disavventure dei personaggi attraverso i loro diversi punti di vista e la loro
voce, tra eccessi scatologici, bassezze e tentativi di truffa o sopraffazione
(il clima di sfiducia è reciproco e fino alla fine ci chiederemo chi sarà a
fregare chi), con il solito ritmo gergale tipico dell’autore, i cui eccessi tuttavia
questa volta rischiano di sfociare nel manierismo (stimolato dalla tematica
pruriginosa, Welsh sembra divertirsi un sacco a scandalizzare il lettore, e non
si risparmia nemmeno le bestemmie). Allo stesso tempo, il romanzo mantiene la
carica di critica sociale del predecessore («Sigarette, alcol, eroina, cocaina,
anfe, miseria e inculamento del cervello da parte dei media: le armi di
distruzione del capitalismo sono più sottili ed efficaci di quelle del nazismo,
e lui non ce la fa contro di loro») e cerca di raccontare quanto i tempi siano
cambiati anche nello sballo (la diffusione delle droghe sintetiche) e la
disillusione degli anni Duemila («Questa è la nostra tragedia: che nessuno ha
una vera passione, a parte i manipolatori distruttivi come Sick Boy o i viscidi
opportunisti come Carolyn. Gli altri sono tutti talmente buttati giù dalla
merda e dalla mediocrità che li circonda. Se negli anni Ottanta il mondo era “io”
e nei Novanta “esso”, nei Duemila è “oide”. Tutto dev’essere vago e contenuto.
Prima era importante la sostanza, poi lo stile era tutto. Adesso tutto viene
simulato»). Ovviamente, la visione portata dai nostri (anti)eroi è sempre
quella, senza modelli o bandiere di riferimento ma solo nel nome dell’individualismo
più sfrenato («Renton. Chi è? Cos’è? È un traditore, un infamone, uno stronzo,
un crumiro, un egoista bastardo, è tutto quello che uno nato povero dev’essere
per entrare nel nuovo sistema capitalista. E io lo invidio. Troia, invidio
sinceramente il bastardo, perché in realtà non gliene fotte niente di nessuno a
parte se stesso»), e anche l’atteggiamento di sfida e sfrontatezza verso la
società borghese che cerca di responsabilizzarli e reintegrarli è lo stesso
(Sick Boy riceve una lettera dell’ufficio del capo della polizia di Contea che
lo ringrazia per l’importante contributo nella guerra alla droga e lui lo
attacca dietro il bancone del locale come lasciapassare per lo smercio,
vantandosi di «essere un membro benpensante e a pieno titolo dei ceti capitalisti»).
Interessante l’inserimento del personaggio femminile di Nikki, che usa il suo
corpo come scorciatoia nella vita senza che alcuna conquista riesca davvero a
soddisfarla, ma in definitiva rappresenta un’occasione mancata perché nell’ultima
parte viene lasciata in secondo piano per concentrare l’attenzione sul
quartetto delle meraviglie Sick Boy-Spud-Begbie-Renton. Il finale è formidabile
e inaspettato. Non male l’insistenza sulla fissazione dell’anal della nostra
società e la spiegazione di come l’immaginario hard sia basato sulla fantasia.
mercoledì 25 settembre 2019
Irvine Welsh - Trainspotting
Quando andavo al liceo, ormai più di vent’anni fa, Trainspotting era il film cult delle autogestioni o delle occupazioni scolastiche, quello che occupava stabilmente l’aula audiovisivi con tanto di dibattito a seguito: il risultato è che alcune persone se lo saranno visto dieci volte, magari consolate dal mito che veniva diffuso secondo cui il messaggio del film era quello che ognuno ha la sua droga personale. Ovviamente, col senno di poi, il film parlava di tutt’altro, e ovviamente anche il romanzo originale di Irvine Welsh, uscito all’inizio degli anni Novanta ma ancora oggi un autentico pugno nello stomaco per qualsiasi benpensante e una delizia per gli alternativi. Ambientato a Edimburgo, o per meglio dire in un suo sobborgo di Edimburgo, racconta la storia di tre amici eroinomani, Mark Renton, Spud e Sick Boy, che passano il tempo a far finta di cercare un lavoro per campare col sussidio e di disintossicarsi, ma anche ad andare a letto con le ragazze e a fare i conti con l’AIDS. Senza dimenticare le truffe: Mark ha organizzato una frode basata sugli assegni circolari del collocamento e incassa il sussidio a cinque indirizzi diversi, e ruba libri dalle librerie Waterstone per poi rivenderli. Finché il loro amico Begbie, uno psicopatico violento che non si droga ma è alcolizzato, li coinvolgerà nel colpo della vita: vendere due chili di eroina a Londra. Il piano riuscirà, ma sarà la fine della loro amicizia. Già il titolo la dice lunga: si riferisce all'episodio Guardando i treni alla stazione centrale di Leith (in originale, Trainspotting at Leith Central Station), dove Renton e Begbie vengono avvicinati da un vecchio barbone mentre stanno urinando nell'ormai dismessa stazione centrale di Leith, e poi si scopre che il barbone è il padre di Begbie. Trainspotting è un romanzo che ha l’ambizione di mostrare in maniera del tutto nichilista e amorale cosa ci sia di tanto eccitante nel farsi di eroina nei baracconi di tiro a segno e vivere in mezzo all’immondizia («Prendi il tuo orgasmo migliore, moltiplica per venti la sensazione, e non ci sei arrivato nemmeno vicino, cazzo, sei ancora lontano un chilometro»). Tra ogni possibile eccesso scatologico, sessuale, alcolico e linguistico (senza contare le esplosioni di violenza), raggiungendo picchi di vero e proprio disgusto, Welsh infonde tutto il suo umorismo sporco e ghignante e traccia un ritratto cinico e compiaciuto di una generazione perduta che non solo rifiuta qualsiasi modello offerto dalla società («i socialisti la tirano lunga a parlare dei compagni, la lotta di classe, il sindacato e la società. Chi se ne fotte, tutta roba di merda») ma soprattutto non ha più bandiere né miti ribellistici in cui riconoscersi. E nemmeno le differenze calcistiche (la rivalità cittadina tra Hibernian e Hearts) e religiose («Ma che razza di famiglia del cazzo che mi ritrovo. Brutti stronzi cattolici dal lato di mia madre e coglioni porci orangisti da quello di mio padre») hanno più molto senso. Nella loro sfrontata irriverenza, più che paura o disgusto, Mark e i suoi amici suscitano pena e simpatia, anche se sono privi di un qualsiasi alibi che spieghi e giustifichi la loro deriva autodistruttiva: sono solo sempre pronti a reintegrarsi, continuando a fregare la società borghese che pensa di poterli redimere o correggere. In questo senso è perfetto il turpiloquio utilizzato da Welsh, reso magistralmente anche nella traduzione italiana (ci si riferisce a chiunque altro come “il coglione”, all’organo genitale femminile come “la fessa” e si utilizza spesso il verbo “svomare”), attraverso cui fa parlare i suoi personaggi in prima persona con il loro personale intercalare (Spud dice sempre “non per dire” e chiama tutti “gattone”) e li inserisce in una struttura non lineare con pensieri e discorsi strampalati che si accavallano. Irresistibili le frasi sulla scozzesità («A che cazzo serve pigliarsela con gli inglesi solo perché ci hanno colonizzato? Non ho un cazzo io contro gli inglesi. Sono dei segaioli e basta. Siamo stati colonizzati da un mucchio di segaioli. Non siamo stati nemmeno capaci di sceglierci una bella cultura sana e decente per farci colonizzare») e fantastiche le scene di Spud costretto a presentarsi al colloquio di lavoro o dello stesso che si risveglia a casa della fidanzata coperto dai suoi stessi escrementi; terrificanti invece quelle della bambina morta che gattona sul soffitto durante il delirio da disintossicazione di Mark (un classico anche del film) e della vendetta di Davie nei confronti di un sieropositivo. Se si sopravvive al vasto campionario di aghi, sangue, fluidi corporei, sostanze fecali (e mestruali) e corpi in disfacimento, si avrà a che fare davvero con un grandissimo romanzo.
venerdì 13 settembre 2019
Erica Jong - Paura di volare
Considerato un caposaldo della letteratura femminile, Paura di volare è un romanzo di inizio anni Settanta a torto definito “erotico”. Di certo ha un linguaggio assolutamente esplicito (e talora volgare) e, letto oggi, risulta irrimediabilmente datato e altalenante a livello di ritmo, ma prima di stracciarsi le vesti in preda allo sdegno bisogna dire che ha un taglio del tutto diverso dal filone alla 50 sfumature: infatti, come scrive Lidia Ravera nella Prefazione, le avventure della protagonista non raccontano «il piacere di soccombere, la voluttà dell’obbedienza, lo strapotere del maschio miliardario e sadico», bensì «la vittoria di una donna su se stessa, la sua conquista del desiderio, della libertà di sperimentare». Insomma, rispetto alla produzione di E.L. James (autrice delle suddette 50 sfumature) o Anna Todd (autrice della serie After) sembra quasi di avere a che fare con un Nobel per la letteratura: questione di punti di vista, insomma. Il romanzo, probabilmente autobiografico (ma la stessa autrice ammette di non dire sempre la verità), risente pesantemente del clima anni Settanta nel quale fu scritto, vale a dire la grande epoca della contestazione, della liberazione sessuale, della psicanalisi e della convinzione di poter cambiare il mondo. La protagonista è Isadora Wing, alter ego dell’autrice, ebrea, colta e newyorkese, autrice di poesie erotiche, sposata con uno psicanalista dopo essere già stata sposata con un malato di mente («Era logico che dopo uno psicotico volessi sposare uno psichiatra»): lo spunto è una trasferta europea con il marito Bennett per andare a un convegno di freudiani americani a Vienna, e da qui una sorta di triangolo amoroso che si trova a vivere con l’amante inglese Adrian Goodlove, conosciuto in questa occasione. La vicenda tocca un sacco di tematiche, come la scoperta del potere della seduzione femminile, la scoperta del proprio corpo, il bisogno di compiacere i maschi, la necessità di fare delle scelte, la ricerca di affetto e felicità, la sensazione di essere perseguitata (Isadora è ossessionata dal Terzo Reich e dai tedeschi), la contraccezione (Isadora usa il diaframma), la maternità (i problemi con la propria madre, cosa significa essere madre, la domanda se la donna si completi veramente se è madre, quanto i figli sono un ostacolo all’affermazione personale). Ma soprattutto l’emancipazione femminile, la donna che lavora, viaggia e non dipendente dall’uomo (sia da single sia da sposata), che fa quello che vuole e non viene colpevolizzata per questo («Mi sento in colpa perché scrivo poesie invece di cucinare. Mi sento in colpa per qualunque cosa. (…) Le donne sono le peggiori nemiche di se stesse. E i sensi di colpa sono il principale strumento della tortura che si autoinfliggono»), con il sogno di liberarsi dal senso di colpa e di essere disinibita e senza problemi come le protagoniste dei romanzi erotici. Inutile dire che il titolo Paura di volare non è solo da prendere in senso letterale ma richiama tutto questo, la voglia di liberarsi e volare alto ma aver paura di farlo per tutta una serie di inibizioni, restrizioni e considerazioni. Spesso e volentieri la nostra eroina passa in rassegna le sue disavventure con i suoi vari amanti e talvolta si prende sul serio («La vita non ha una trama. È molto più interessante di tutto quello che si può raccontare, perché il linguaggio, per la sua stessa natura, dà un ordine alle cose, mentre la vita vera non ha un ordine») ma, a dispetto dell’ambientazione psicanalitica (e anni di terapia non sembrano aver poi portato a molto), la Jong utilizza uno stile leggero e ironico, perfettamente esemplificato dall’invenzione della scopata senza cerniera, roba in puro stile Sex & the City («senza cerniera (…) perché l’avvenimento ha tutta la velocità e la concentrazione di un sogno e come un sogno sembra libero da rimorsi e sensi di colpa; perché non si parla del marito defunto di lei o della fidanzata di lui; perché non si cerca di razionalizzare; perché non si parla per niente. La scopata senza cerniera è assolutamente pura. (…) È più rara di un unicorno»); non è da meno però l’idea di scrivere un poema epico sulla storia del mondo e di classificazione dei popoli attraverso i gabinetti.
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