giovedì 7 febbraio 2019

Fëdor Dostoevskij - I fratelli Karamazov

A volte si viene risucchiati in un buco nero e non si riesce più a uscirne, anche quando parliamo di libri: a me è successo con I fratelli Karamazov di Dostoevskij, uno dei romanzi più importanti e sviscerati di ogni tempo, capace di risultare appassionante e allo stesso tempo letale, grandioso nella sua architettura e nella caratterizzazione psicologica dei personaggi ma troppo lontano dai nostri gusti e dalle nostre consuetudini di lettori contemporanei. Ci ho litigato a lungo, imponendomi di portarlo a termine, e lo sforzo è stato ampiamente ripagato. E se pensate che sia un libro lungo, vi basti sapere che doveva avere un seguito (e infatti termina con quello che oggi si chiamerebbe cliffhanger), ma il progetto naufragò per la morte di Dostoevskij. Racconta la storia di Fëdor Pavlovič Karamazov, vecchio malvagio e dissoluto, e dei suoi tre figli avuti da due mogli, più un quarto nato da una relazione extraconiugale (gira la leggenda che, per scherzo, abbia messo incinta una pazza semibarbona del villaggio). Il primo, Dmitrij detto Mitja, irrequieto, spendaccione, intemperante e disordinato, entra in rotta di collisione con il padre riguardo a chi avrà Grušenka, una bella (ma neanche troppo) mantenuta che in passato è stata sedotta e abbandonata da un polacco. Il secondo figlio, Ivan, sempre cupo e pensieroso, è un sostenitore dell’ateismo e un raffinato intellettuale (è autore di un articolo di successo in Europa occidentale). Il figlio minore, Aleksej detto Alëša (come il figlio di Dostoevskij), è talmente buono fa fare il novizio in un convento con uno starec e si trova costretto a tornare a casa per il precipitare degli eventi. Il quarto figlio, quello illegittimo, è Smerdjakov, affetto da epilessia (malattia da cui era affetto lo stesso Dostoevskij) e tenuto in casa come servo. Dal conflitto di Dmitrij con il padre nasce il nucleo del romanzo: Fëdor Pavlovič promette a Grušenka 3.000 rubli ma li cerca anche Dmitrij finché un giorno il padre viene ucciso e per l’opinione pubblica il colpevole è Dmitrij che viene condannato ai lavori forzati. Ivan è colpito da febbre cerebrale e non può raccontare la verità di cui è l’unico depositario, Alëša riprende con alcuni giovani la via della spiritualità. È veramente difficile parlare di un romanzo su cui si sono spesi litri d’inchiostro da parte do critici letterari, psicanalisti e filosofi. Certo, può essere letto anche come un giallo, visto che l’omicidio del padre avviene esattamente a metà, ma in realtà I fratelli Karamazov è uno di quei romanzi-mondo che hanno dentro di tutto, con descrizioni ridotte all’osso e una sovrabbondanza di dialoghi spesso soverchianti (soprattutto la lunga parte finale dedicata al processo), in cui ogni occasione è buona per discutere di temi morali, etici, politici, filosofici e religiosi: ogni personaggio rappresenta l’incarnazione di un’idea ma, nonostante questo, da ogni dialogo emerge la complessissima personalità di ognuno, le passioni e i moventi delle loro azioni, e questa è la cosa veramente affascinante della scrittura di Dostoevskij. Non bisogna fermarsi alle digressioni, come quella sulle spoglie dello starec venerato come santo che imputridiscono subito facendo venir meno il rispetto dei fedeli (che vedono nella corruzione del corpo il segno di una fisicità indegna di un culto sacrale). Bachtin ha individuato in Dostoevskij l’iniziatore del romanzo polifonico, opera fatta di diverse coscienze in cui l’autore è solo uno dei punti di vista ed è equivalente agli altri, per cui le varie opinioni dei diversi personaggi sembrano tutte allo stesso modo vere e credibili, anche quella di Ivan che, nel suo ruolo di vero motore degli eventi da dietro le quinte, è il personaggio classicamente “malvagio”, o quella del padre, personaggio che giganteggia sinistramente nella sua miseria e pusillanimità (ha fatto i soldi con lo strozzinaggio, non si vergogna a essere un parassita e anzi si diverte nell’autodenigrasi a suo personale guadagno). Memorabile il confronto tra Ivan e Alëša, quando il primo racconta al secondo la storia (famosissima) del Grande Inquisitore, vero e proprio romanzo nel romanzo e grande poema sull’origine del male: Gesù Cristo torna sulla terra e viene arrestato dal Grande Inquisitore perché è venuto a rompere l’equilibrio raggiunto dopo la sua venuta, ed è vero che ha portato la libertà agli uomini ma gli uomini non sanno che farsene perché non possiedono gli strumenti per gestirla. Gli uomini cosiddetti liberi in realtà sono completamente sopraffatti dall’ordine assoluto che è stato loro costruito intorno: la libertà non serve per la felicità perché anzi produce solo una dimensione di cupa disperazione e un senso di autodistruzione, quindi solo l’essere dominato dal desiderio superiore di far parte di uno spirito universale può rendere felici. A questo si aggiunge l’esistenza del libero arbitrio, che impone all’uomo di fare delle scelte davanti alle quali è solo, e il problema del male, che nel romanzo non è nulla di soprannaturale e astratto, ma una forza interna all’uomo, pronta a dispiegarsi in tutta la sua forza e a rovinarlo per sempre prendendo a pretesto i propri istinti, i propri desideri, le proprie pulsioni e le proprie depravazioni. Dio esiste mentre il diavolo no, e non a caso l’ateo Ivan vede il diavolo e ci parla, prodotto della sua coscienza tormentata: chi professa l’ateismo, dimenticando ogni confine posto da Dio, è inevitabilmente destinato a cedere al male e a essere travolto. Esattamente come Ivan, la cui mente non sopravvive alla prova di razionalità che la religione gli impone.