martedì 12 marzo 2019

Philip Roth - La macchia umana

Più leggo Philip Roth e più lo amo. La Macchia umana è il suo terzo romanzo che affronto (dopo Pastorale americana Il lamento di Portnoy) ed è il terzo capolavoro, una di quelle opere che ti catturano e non ti mollano più, lasciandoti alla fine un senso di angoscia e allo stesso tempo di arricchimento. Racconta la storia di Coleman Silk, professore universitario di Athena brillante e autorevole, che cade in disgrazia in seguito a un malinteso durante una lezione: infatti etichetta due studenti assenteisti con il termine “spooks”, che in inglese significa “spettri” ma che in slang viene usata per “negri”. L’accusa di razzismo gli porta dei disagi enormi fino alla rovina completa della propria carriera e alla perdita della moglie, che muore di infarto per lo stress. Potrebbe scagionarsi immediatamente ma non lo fa perché su di lui pesa un grandissimo segreto sulla sua identità, la macchia cui fa riferimento il titolo: Coleman, che si dichiara ebreo, ha sempre nascosto la sua origine di colore, ha capito di poter affrancarsi e realizzarsi solo ripudiando le proprie radici e rinnegando la propria famiglia (addirittura ha rifiutato la madre), ed è divenuto un bianco convenzionale in una società convenzionale e razzista. Tutto questo rende l’accusa di razzismo ancor più paradossale, ma Coleman non lo può rivelare per non rendere l’accusa ancor più pesante perché rivelerebbe di aver ingannato la società. Proprio a questo segreto è legato il conflitto del personaggio, contro cui si scatena una vera e propria caccia alle streghe: Coleman è scomodo all’interno della comunità accademica in quanto ha introdotto criteri meritocratici e ha azzerato i sistemi di potere all’interno dell’università. Nessuno sembra comprendere Coleman, le sue ragioni e la natura del problema, nemmeno i suoi figli, segno che anche la cultura e una buona educazione conta fino a un certo punto. Dopo due anni di rabbia ed emarginazione, il settantunenne Coleman sembra trovare una sorta di serenità con una donna analfabeta di 34 anni molto più giovane di lui, Faunia, dal nome fortemente simbolico (Coleman è professore di letterature classiche) e dal doloroso passato (è stata molestata dal patrigno, ha perso due figli ed è stata sposata con un reduce dal Vietnam violento e alcolizzato), simbolo della forza incontrollabile del desiderio. Le critiche però non lo abbandonano, perché tutti (rappresentati dall’insopportabile e invidiosa professoressa di letteratura francese Delphine Roux) pensano di conoscere Coleman e di sapere perché si comporta così, etichettandolo istericamente come un ex professore razzista e impazzito: solo Faunia, che nella vita fa la donna delle pulizie, è messa a parte del segreto infamante. Ambientando temporalmente la vicenda nell’estate del 1998 durante il Sexgate che coinvolse Bill Clinton (quello con Monica Lewinsky) e circoscrivendola spazialmente al New England («che, storicamente, più s’identifica con la resistenza dell’individualista americano alle coercizioni di un’ipercritica comunità»), Roth sferra un feroce attacco all’ipocrisia perbenista che regge la società statunitense e ci regala un romanzo profondissimo e intimista, ma allo stesso tempo caustico e politicamente scorretto, dominato da un generale tono di sfiducia e ineluttabilità («Noi lasciamo una macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c’è altro mezzo per essere qui»). I temi da lui affrontati sono quelli dell’identità come creazione culturale, lo sforzo di sfuggire alle etichette sociali e di costruirsi un piedistallo, l’incertezza della condizione umana sempre in balia di eventi che non può dominare e pendente alla bestialità (moltissimi sono i riferimenti al mondo animale), intesa sia come carnalità sia come passionalità. Quello che emerge è la prospettiva multifocale dei personaggi: la storia non è raccontata da Coleman ma da Nathan Zuckerman, uno degli alter ego di Philip Roth e già comparso in Pastorale americana, a cui lo stesso Coleman si rivolge per chiedergli di narrare la sua storia. È un particolare di non poco conto perché Zuckerman non è neutrale ma offre il suo punto di vista sulla vicenda imponendolo al lettore e, siccome è sessualmente impotente e incontinente (ha subito l’asportazione della prostata) riversa su di lui la sua potenza in una sorta di esuberanza linguistica e la sua incontinenza verbale, divenendo a sua volta un doppio speculare di Coleman, personalità molto forte e catalizzante. Tutto questo fa sì che letteratura sia un mezzo di riscatto e lo strumento principe per raccogliere l’oscurità dell’animo umano, come prova il toccante finale di Zuckerman che si ferma a osservare l’ex marito di Faunia, altro testimone di altre tragedie, intento a pescare sullo sfondo di un lago montano.

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