mercoledì 25 settembre 2019

Irvine Welsh - Trainspotting

Quando andavo al liceo, ormai più di vent’anni fa, Trainspotting era il film cult delle autogestioni o delle occupazioni scolastiche, quello che occupava stabilmente l’aula audiovisivi con tanto di dibattito a seguito: il risultato è che alcune persone se lo saranno visto dieci volte, magari consolate dal mito che veniva diffuso secondo cui il messaggio del film era quello che ognuno ha la sua droga personale. Ovviamente, col senno di poi, il film parlava di tutt’altro, e ovviamente anche il romanzo originale di Irvine Welsh, uscito all’inizio degli anni Novanta ma ancora oggi un autentico pugno nello stomaco per qualsiasi benpensante e una delizia per gli alternativi. Ambientato a Edimburgo, o per meglio dire in un suo sobborgo di Edimburgo, racconta la storia di tre amici eroinomani, Mark Renton, Spud e Sick Boy, che passano il tempo a far finta di cercare un lavoro per campare col sussidio e di disintossicarsi, ma anche ad andare a letto con le ragazze e a fare i conti con l’AIDS. Senza dimenticare le truffe: Mark ha organizzato una frode basata sugli assegni circolari del collocamento e incassa il sussidio a cinque indirizzi diversi, e ruba libri dalle librerie Waterstone per poi rivenderli. Finché il loro amico Begbie, uno psicopatico violento che non si droga ma è alcolizzato, li coinvolgerà nel colpo della vita: vendere due chili di eroina a Londra. Il piano riuscirà, ma sarà la fine della loro amicizia. Già il titolo la dice lunga: si riferisce all'episodio Guardando i treni alla stazione centrale di Leith (in originale, Trainspotting at Leith Central Station), dove Renton e Begbie vengono avvicinati da un vecchio barbone mentre stanno urinando nell'ormai dismessa stazione centrale di Leith, e poi si scopre che il barbone è il padre di Begbie. Trainspotting è un romanzo che ha l’ambizione di mostrare in maniera del tutto nichilista e amorale cosa ci sia di tanto eccitante nel farsi di eroina nei baracconi di tiro a segno e vivere in mezzo all’immondizia («Prendi il tuo orgasmo migliore, moltiplica per venti la sensazione, e non ci sei arrivato nemmeno vicino, cazzo, sei ancora lontano un chilometro»). Tra ogni possibile eccesso scatologico, sessuale, alcolico e linguistico (senza contare le esplosioni di violenza), raggiungendo picchi di vero e proprio disgusto, Welsh infonde tutto il suo umorismo sporco e ghignante e traccia un ritratto cinico e compiaciuto di una generazione perduta che non solo rifiuta qualsiasi modello offerto dalla società («i socialisti la tirano lunga a parlare dei compagni, la lotta di classe, il sindacato e la società. Chi se ne fotte, tutta roba di merda») ma soprattutto non ha più bandiere né miti ribellistici in cui riconoscersi. E nemmeno le differenze calcistiche (la rivalità cittadina tra Hibernian e Hearts) e religiose («Ma che razza di famiglia del cazzo che mi ritrovo. Brutti stronzi cattolici dal lato di mia madre e coglioni porci orangisti da quello di mio padre») hanno più molto senso. Nella loro sfrontata irriverenza, più che paura o disgusto, Mark e i suoi amici suscitano pena e simpatia, anche se sono privi di un qualsiasi alibi che spieghi e giustifichi la loro deriva autodistruttiva: sono solo sempre pronti a reintegrarsi, continuando a fregare la società borghese che pensa di poterli redimere o correggere. In questo senso è perfetto il turpiloquio utilizzato da Welsh, reso magistralmente anche nella traduzione italiana (ci si riferisce a chiunque altro come “il coglione”, all’organo genitale femminile come “la fessa” e si utilizza spesso il verbo “svomare”), attraverso cui fa parlare i suoi personaggi in prima persona con il loro personale intercalare (Spud dice sempre “non per dire” e chiama tutti “gattone”) e li inserisce in una struttura non lineare con pensieri e discorsi strampalati che si accavallano. Irresistibili le frasi sulla scozzesità («A che cazzo serve pigliarsela con gli inglesi solo perché ci hanno colonizzato? Non ho un cazzo io contro gli inglesi. Sono dei segaioli e basta. Siamo stati colonizzati da un mucchio di segaioli. Non siamo stati nemmeno capaci di sceglierci una bella cultura sana e decente per farci colonizzare») e fantastiche le scene di Spud costretto a presentarsi al colloquio di lavoro o dello stesso che si risveglia a casa della fidanzata coperto dai suoi stessi escrementi; terrificanti invece quelle della bambina morta che gattona sul soffitto durante il delirio da disintossicazione di Mark (un classico anche del film) e della vendetta di Davie nei confronti di un sieropositivo. Se si sopravvive al vasto campionario di aghi, sangue, fluidi corporei, sostanze fecali (e mestruali) e corpi in disfacimento, si avrà a che fare davvero con un grandissimo romanzo.

venerdì 13 settembre 2019

Erica Jong - Paura di volare

Considerato un caposaldo della letteratura femminile, Paura di volare è un romanzo di inizio anni Settanta a torto definito “erotico”. Di certo ha un linguaggio assolutamente esplicito (e talora volgare) e, letto oggi, risulta irrimediabilmente datato e altalenante a livello di ritmo, ma prima di stracciarsi le vesti in preda allo sdegno bisogna dire che ha un taglio del tutto diverso dal filone alla 50 sfumature: infatti, come scrive Lidia Ravera nella Prefazione, le avventure della protagonista non raccontano «il piacere di soccombere, la voluttà dell’obbedienza, lo strapotere del maschio miliardario e sadico», bensì «la vittoria di una donna su se stessa, la sua conquista del desiderio, della libertà di sperimentare». Insomma, rispetto alla produzione di E.L. James (autrice delle suddette 50 sfumature) o Anna Todd (autrice della serie After) sembra quasi di avere a che fare con un Nobel per la letteratura: questione di punti di vista, insomma. Il romanzo, probabilmente autobiografico (ma la stessa autrice ammette di non dire sempre la verità), risente pesantemente del clima anni Settanta nel quale fu scritto, vale a dire la grande epoca della contestazione, della liberazione sessuale, della psicanalisi e della convinzione di poter cambiare il mondo. La protagonista è Isadora Wing, alter ego dell’autrice, ebrea, colta e newyorkese, autrice di poesie erotiche, sposata con uno psicanalista dopo essere già stata sposata con un malato di mente («Era logico che dopo uno psicotico volessi sposare uno psichiatra»): lo spunto è una trasferta europea con il marito Bennett per andare a un convegno di freudiani americani a Vienna, e da qui una sorta di triangolo amoroso che si trova a vivere con l’amante inglese Adrian Goodlove, conosciuto in questa occasione. La vicenda tocca un sacco di tematiche, come la scoperta del potere della seduzione femminile, la scoperta del proprio corpo, il bisogno di compiacere i maschi, la necessità di fare delle scelte, la ricerca di affetto e felicità, la sensazione di essere perseguitata (Isadora è ossessionata dal Terzo Reich e dai tedeschi), la contraccezione (Isadora usa il diaframma), la maternità (i problemi con la propria madre, cosa significa essere madre, la domanda se la donna si completi veramente se è madre, quanto i figli sono un ostacolo all’affermazione personale). Ma soprattutto l’emancipazione femminile, la donna che lavora, viaggia e non dipendente dall’uomo (sia da single sia da sposata), che fa quello che vuole e non viene colpevolizzata per questo («Mi sento in colpa perché scrivo poesie invece di cucinare. Mi sento in colpa per qualunque cosa. (…) Le donne sono le peggiori nemiche di se stesse. E i sensi di colpa sono il principale strumento della tortura che si autoinfliggono»), con il sogno di liberarsi dal senso di colpa e di essere disinibita e senza problemi come le protagoniste dei romanzi erotici. Inutile dire che il titolo Paura di volare non è solo da prendere in senso letterale ma richiama tutto questo, la voglia di liberarsi e volare alto ma aver paura di farlo per tutta una serie di inibizioni, restrizioni e considerazioni. Spesso e volentieri la nostra eroina passa in rassegna le sue disavventure con i suoi vari amanti e talvolta si prende sul serio («La vita non ha una trama. È molto più interessante di tutto quello che si può raccontare, perché il linguaggio, per la sua stessa natura, dà un ordine alle cose, mentre la vita vera non ha un ordine») ma, a dispetto dell’ambientazione psicanalitica (e anni di terapia non sembrano aver poi portato a molto), la Jong utilizza uno stile leggero e ironico, perfettamente esemplificato dall’invenzione della scopata senza cerniera, roba in puro stile Sex & the City («senza cerniera (…) perché l’avvenimento ha tutta la velocità e la concentrazione di un sogno e come un sogno sembra libero da rimorsi e sensi di colpa; perché non si parla del marito defunto di lei o della fidanzata di lui; perché non si cerca di razionalizzare; perché non si parla per niente. La scopata senza cerniera è assolutamente pura. (…) È più rara di un unicorno»); non è da meno però l’idea di scrivere un poema epico sulla storia del mondo e di classificazione dei popoli attraverso i gabinetti.