
Dire la mia sulla nuova traduzione del Signore degli Anelli è un’impresa
rischiosa, sebbene argomento decisamente acchiappalike. Per molta gente, qui in
Italia, pensare di ritradurre un testo sacro come questo è una bestemmia o una
questione di lesa maestà: come ci si è potuti permettere anche solo di pensare
di sconfessare la vecchia traduzione del 1967 di Vittoria Alliata di
Villafranca sotto (si dice) la supervisione dello stesso Tolkien? Una
traduzione che poi è stata pesantemente modificata da Quirino Principe che
livellò tutti i dialoghi su un registro alto, demolendo la stratificazione
linguistica e la varietà lessicale di un filologo come Tolkien, fatta talmente
bene che in seguito ha dovuto subire un progressivo lavoro di sistemazione nel
corso degli anni (si conta una mezza dozzina di interventi)? Aggiungiamoci che
la vecchia traduzione è ammantata di una certa connotazione politica (di
destra) ben precisa e che la nuova è stata realizzata in collaborazione con la
recente Associazione Italiana di Studi Tolkieniani (di sinistra), e apriti
cielo: hanno cominciato a fioccare articoli dal titolo “Come assassinare
Tolkien” e “Giù le mani da Tolkien”, che accusano la Bompiani di aver
scientemente messo in atto una nuova lettura di Tolkien in chiave terzomondista
e politically correct, capace di alterare la sua portata di classico
eterno e tradizionale, antimoderno e antisistema. Tutti discorsi che si fermano
come sempre alla frontiera di Chiasso e, guarda caso, non si fanno mai per
nuove traduzioni di Dostoevskij, Dickens o Proust, autori che sono considerati
classici: anche Tolkien è un classico che parla a tutti, non un’allegoria
chiusa, ed è normale che venga ritradotto dopo qualche anno rispetto alla prima
edizione. Ora, sono il primo a dire che il nuovo traduttore Ottavio Fatica
avrebbe potuto essere più diplomatico invece che accusare la vecchia traduzione
di avere “500 errori a pagina per 1.500 pagine”, ma sul fatto che la vecchia
versione Rusconi (rimasta quella, nonostante le revisioni, anche in seguito del
passaggio dei diritti a Bompiani) fosse piena di manipolazioni e alterazioni c’è
poco da discutere. Da parte sua, Vittoria Alliata non è stata da meno, visto
che ha denunciato per diffamazione Fatica, sancendo una nuova faida in un
settore, quello editoriale, già frequentato da pazzi scatenati e sempre più
incentrato sulle polemiche social. Poi è arrivata in anteprima la nuova
interpretazione della poesia dell’Anello, faccenda molto delicata in quanto di
particolare significato nel cuore di ogni tolkieniano: le resistenze sono state
ovviamente forti, dopo 50 anni durante i quali ci si è affezionati a un testo e
a determinati nomi (consacrati, è bene ricordarlo, dall’adattamento della
trilogia cinematografica di Peter Jackson), ma da qui a improvvisarsi filologi
su YouTube ce ne passa, peggio ancora evocare teorie del complotto e bassa
dietrologia. Quindi lo sdegno si è rivolto a Samwise Gamgee tradotto come “Samplicio”,
cosa che ha portato ad accuse infamanti di aver snaturato la natura del nome:
neanche qui bisogna stupirsi troppo, visto che nell’era di internet tutti sanno
fare il mestiere di tutti e non si tiene conto del fatto che Samwise, come
spiegato da Giampaolo Canzonieri (principale consulente di Fatica per questa
traduzione), viene dall’anglosassone samwís che
significa “semplice”. Insomma, nessuno vi ha rubato l’infanzia e non c’è alcun
bisogno di andare a insultare la gente su Facebook o trasformarsi in haters: la
vecchia traduzione resterà comunque, e nessuno vi obbliga ad acquistare la
nuova.
Diciamo subito una cosa: non solo manca la mappa della
Terra di Mezzo, ma la copertina di questo primo volume fa schifo. Mettere
questa specie di superficie lunare (pare sia una fotografia satellitare del
pianeta Marte), quando ormai c’è un intero immaginario legato a Tolkien, è una
scelta veramente assurda. Sarebbe bastato acquistare i diritti di un’immagine
di Alan Lee o John Howe per risolvere la cosa, ma come detto l’ambiente
editoriale è frequentato da pazzi scatenati e non bisogna stupirsi troppo
nemmeno delle superfici lunari. D’altra parte, non si deve giudicare un libro
dalla copertina, giusto?
Venendo al testo, finalmente è stata eliminata la
famigerata prefazione di Elémire Zolla che correda tutte le edizioni italiane
del Signore degli Anelli dal 1970 in
poi e che interpretava il romanzo in chiave simbolica, mistico-alchemica e
oracolare, attraverso simboli eterni in dialogo tra loro e con una presunta
verità astorica che con i personaggi in esso contenuti non hanno davvero niente
a che fare (senza contare che svelava la conclusione del romanzo). In compenso,
è stata lasciata solamente la prefazione di Tolkien alla seconda edizione, cioè
le parole dell’autore stesso che chiarisce la sua posizione sulle letture
allegoriche della sua opera: «Quanto al significato profondo o al “messaggio”,
nelle intenzioni dell’autore non ne ha alcuno. Non è né allegorico né legato
all’attualità. (...) Io detesto cordialmente l’allegoria in tutte le sue
manifestazioni e l’ho sempre fatto sin da quando sono diventato abbastanza
grande e accorto da individuarne la presenza. Preferisco di gran lunga la
storia, vera o finta, con la sua molteplice applicabilità al pensiero e all’esperienza
dei lettori. Credo che molti confondano “applicabilità” con “allegoria”; ma una
risiede nella libertà del lettore, l’altra nel predominio deliberato dell’autore».
Chi ha orecchie per intendere, intenda.
Quanto all’opera del traduttore, conscio di attirarmi le
ire di molti, sottolineo la sua incredibile cura nel rendere il registro medio
di Tolkien, che ogni tanto si innalza o si abbassa bruscamente a seconda del
personaggio che sta parlando, o che si arricchisce di arcaismi, giocando sull’attrito
che creano questi effetti. Molte volte sembra proprio di leggere un nuovo
libro, che in alcuni casi trascina e commuove, come nel caso del dialogo tra
Frodo e Gandalf, o che si adatta alla perfezione alla polifonia di Tolkien,
come accade per il Consiglio di Elrond, l’episodio in cui maggiormente le
parole e il modo di parlare dei vari personaggi implicano la loro etica e il
loro modo di vedere le cose. E poi bisogna segnalare l’estrema attenzione per
le sottigliezze: per rendere parole come drownded per drowned o vittles per victuals pronunciate da Hamfast
Gamgee, il padre di Sam, Fatica ricorre a storpiature lessicali come “affocato”
al posto di “annegato” o “pappatoria” al posto di “mangiare”. Oppure rispetta i
neologismi (intraducibili) come “eleventy-one” dall’Old English e lo traduce “undicento”,
e fa ricorso a forme gergali in uso anche nell’italiano come “Il signor Bilbo
gli ha imparato a leggere e a scrivere” per tradurre “Mr. Bilbo learned him his
letters”. Tutte cose che non aveva mai notato nessuno, per inciso. Non si
tratta di invenzioni, ma di un tentativo di dare una sfumatura che nell’originale
connota un ben preciso modo di parlare di determinati personaggi: ignorarla
nella convinzione di rendere più scorrevole o evocativo un testo non è affatto
una motivazione adeguata, anzi, conferma la brutta abitudine di rifiutarsi di
analizzare Tolkien sotto una luce nuova, più meticolosa e fedele. Come al
solito, si conferma la pessima tendenza a opporsi al nuovo, in quanto il vecchio
è meglio, anzi, è bello per partito preso.
Il lavoro di Fatica riguarda anche nomi e toponimi, senza
rispettare le proposte del passato (quindi Rivendell non è né Forraspaccata né
Gran Burrone), dando anzi sfoggio di grande creatività specie per rendere i “nomi
parlanti” (creati apposta così da Tolkien): per i nomi, vengono eliminate le traslitterazioni
fonetiche (Tuc ridiventa Took) e presentate varianti come Ruggitoro/Muggitoro,
Brandibuck/Brandaino, Sabbioso/Sabbiaiolo, Scavari/Scavieri, Paffuti/Paciocco,
Rintanati/Cavacciolo, Serracinta/Pancieri, Tassi/Tanatasso,
Soffiatromba/Soffiacorno, Tronfipiede/Pededegno, Grassotto Bolgeri/Ciccio
Bolger, Cactaceo/Farfaraccio, Grampasso/Passolungo, Billy Felci/Bill Felcioso.
Inoltre, l’incomprensibile “Gaffiere” diviene “Veglio”, l’Assemblea degli
hobbit non è più nazionale ma conteale (tra l’altro il concetto di nazione non
esiste nella Terra di Mezzo), i Raminghi diventano Forestali (altra cosa, a
quanto pare, per molti insopportabile), Occidente diviene Occidenza, i Warg non
sono più Mannari, Mezzuomo si riduce a Mezzomo. Soluzioni che possono non
piacere, ma che sono comunque lecite.
Lo stesso accade per i toponimi: Hobbiville/Hobbiton
(come in originale), Decumano/Quartiero, Pianilungone/Vallelunga,
Pietraforata/Gran Sterro, Lungacque/Acquariva, Saccoforino/Scarcasacco,
Tucboro/Borgo Daino, Terra di Buck/Landaino, Crifosso/Criconca,
Terminalbosco/Fondo Boschivo, Sinuosalice/Circonvolvolo,
Tumulilande/Poggitumuli, Montagne Nebbiose/Monti Brumosi, Bosco Atro/Boscuro,
Dunland/Landumbria, Chiane Ditteri/Chiane Moscerine, Terre Selvagge/Selvalanda,
Colle Vento/Svettavento, Fiume Grigio/Fiume Pollagrigia, Gran Burrone/Valforra,
Rombirivo/Riorombante, Agrifogliere/Agrifoglieto, Valle dei Rivi
Tenebrosi/Vallea dei Riombrosi, Mirolago/Speculago, Argentaroggia/Roggiargento.
Anche le poesie sono cambiate. Fatica ha cercato di
mantenere metro e rime originali (cosa che la versione Alliata/Principe non faceva) e
per questo ha dovuto leggermente forzare sintassi e lessico, oltre che rendere
ragione della tecnica dell’inversione di Tolkien, che dispone le parole in un
ordine diverso rispetto al normale all’interno della frase. Può non piacere, ma
anche questa è una scelta lecita: leggete questa nuova traduzione, criticatela
ma soprattutto ragionate prima di trarre conclusioni affrettate. Amare Tolkien
significa leggerlo davvero.