«Il mostro vive in mezzo alla città, attraversa l’Europa, separa il mondo
correndo per 156,4 chilometri, innalzandosi per 3 metri e 60 centimetri,
affondando nel terreno per altri 2 metri e 10, con il corpo composto da 45.000
sezioni di cemento. Vigila con 302 torri di sorveglianza. Si avvolge in 127
chilometri di filo spinato. Si protegge con 105 chilometri di fossato. Si
rinchiude in 20 bunker. Si circonda con la “striscia della morte” coperta di
sabbia rastrellata ogni mattina, in modo che se qualcuno la calpesta restino le
impronte. Minaccia con tre brigate di frontiera munite di pistole, carabine,
mitra, bombe a mano, panzer russi T-34/85 e SU-76, cannoni e contraerea.
Dissuade con 18.300 reticolati, trappole anticarro, barriere con denti
metallici, sirene d’allarme e riflettori. Spaventa con 5000 cani pastore
addestrati, i cani di confine con i denti rastremati dalla fresatrice, pronti
all’impiego». Una descrizione da scenario distopico, e invece agghiacciante
descrizione del simbolo della Guerra Fredda, il Muro di Berlino, che per 28 anni
ha diviso in due una città e un intero continente,
fondando i concetti di Est e Ovest. Ne parla l’ex direttore di “La Repubblica”
Ezio Mauro in questo Anime prigioniere. Cronache dal Muro di Berlino, uscito
in occasione del trentennale della sua caduta (avvenuta il 9 novembre 1989). Pur
ricostruendone la vicenda, dalla sua edificazione nel 1961 alla sua fine, non è
un libro di storia ma un’inchiesta giornalistica, condotta raccogliendo la
testimonianza di chi è riuscito a fuggire o di chi semplicemente ci ha provato
(attraverso tunnel sotterranei, a nuoto, in pallone aerostatico, con un
rudimentale velivolo costruito con il motore di una Trabant), il racconto dei
parenti delle vittime e degli oppositori. Non arriva ai livelli del bellissimo C’era
una volta la DDR di Anna Funder, molto più agghiacciante e completo nel
descrivere la vita ai tempi della Stasi, ma è pur sempre una buona occasione
per ricordare una delle pagine più nere della storia recente. Costruito per far
fronte alla fuga delle persone dall’Est all’Ovest (2 milioni e mezzo dal 1949
al 1960), tanto che Chruščëv disse telefonicamente al segretario del partito Ulbricht:
«Creeremo un anello di ferro attorno a Berlino
che vi aiuterà riducendo le fughe», anche
se la versione ufficiale lo dipingeva come una “barriera difensiva”, e accettato dal mondo occidentale in nome della Realpolitik
(Kennedy disse: «Un maledetto muro non è una bella cosa, ma è sempre meglio di una
maledetta guerra»), fu edificato tagliando strade, piazze e cimiteri (tra cui quello
degli Invalidi, separando dal resto del mondo la lapide di Manfred von Richthofen, il celebre Barone Rosso) e
incarnando «l’ossessione del comunismo per il dominio dello spazio come controllo
dell’anima attraverso il corpo, l’interdetto costruito nella pietra perché
durasse per sempre». In 5.000
sono riusciti a passarlo, 87 sono state le vittime ufficiali, 115 secondo altri
calcoli per arrivare fino a 225 se si considerano le morti collegate. Perfino i
cani di frontiera, poi venduti a privati, passando davanti al Muro si mettevano
ancora a correre e abbaiare, come se il Muro facesse parte del loro DNA. Tutto questo
faceva della DDR un vero e proprio carcere, in cui per giunta tutti spiavano
tutti in maniera maniacale, familiari compresi (il
protagonista del film Le vite degli altri, Ulrich Mühe, leggerà
dossier su di lui firmati dalla sua seconda moglie), per convenienza o per
ricatto: basti pensare che in Russia il KGB aveva un agente ogni 1.500
abitanti, in Romania la Securitate ne aveva uno ogni 1.600, nella DDR ce n’era
uno ogni 50. Tutto questo grazie all’invenzione degli “informatori non
ufficiali” (ben 190.000, a fronte di 110.000 dipendenti ufficiali) escogitata
da Erich Mielke, capo della Stasi e numero due del regime. Per non parlare delle
persecuzioni, delle incarcerazioni, dei bombardamenti di radiazioni per far
sviluppare la leucemia agli oppositori o marcarli per meglio seguire i loro
movimenti, o del sesso per contagiare con le malattie veneree (tra l’altro, Putin
era il referente del KGB a Dresda). Tutto questo fino a quell’incredibile 1989
che mise in ginocchio il Paese in seguito alle spinte innestate dalla Perestrojka di Gorbačëv, spinse i cittadini della DDR a cercare asilo
nei Paesi vicini e il partito al crollo con l’allontanamento del grande capo
Erich Honecker; il Muro cadde in maniera inaspettata, a novembre, quasi in
sordina, per una delibera del partito durante una conferenza stampa
(grazie a un giornalista italiano, Riccardo Ehrman, corrispondente dell’ANSA),
segno della totale confusione di quei giorni. Mauro racconta l’intera vicenda
come storia di aspirazione continua alla libertà, dalla parte e dal punto di
vista dei protagonisti, ma poi rimane fermo lì, a quel 9 novembre 1989, senza
addentrarsi nello specifico dei problemi dell’unificazione (e di come gli agenti della Stasi si sono ampiamente riciclati), come invece fa il
libro di Anna Funder: quella sensazione degli stessi protagonisti di far parte
di un mondo perduto e dimenticato in fretta, soprattutto dalla Germania Ovest
nella sua ansia di normalizzare il tutto e cancellare il precedente regime in
nome dell’economia di mercato. Problemi che hanno dato origine alla cosiddetta
“Ostalgie”, la nostalgia dell’Est, che magari non è sempre semplice rimpianto
per una dittatura ma il tentativo di trovare un riconoscimento da parte del
resto di un mondo che difficilmente può capire cosa significasse vivere in un
Paese assurdo come la DDR.
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