Tolkien in tempi di quarantena. Ho dato seguito alla mia
idea di fare una specie di commento al Signore degli Anelli, capitolo
per capitolo, in una serie di video su YouTube, e ho appena finito Le due
torri. Mi seguono in pochi, ma chissenefrega. Avrei voluto basarmi subito
sulla nuova traduzione di Ottavio Fatica (già criticata ancora prima di uscire)
ma, a causa del Coronavirus e della chiusura delle librerie, con conseguente
slittamento di tutte le uscite e dei giri promozionali, il volume è stato
posticipato a metà maggio. Pazienza. Per la rilettura ho quindi ripiegato sulla
vecchia edizione con la traduzione Alliata/Principe, che tra l’altro oggi è
stata ritirata dal mercato quindi è altrettanto impossibile da reperire, sempre
della serie cose che succedono solo in Italia. Come già successo per La
Compagnia dell’Anello, a volte mi sono visto costretto ad accorpare due (o
tre) capitoli in uno, cercando di enucleare aspetti e tematiche in modo
divulgativo e spero non troppo pesante. Certo è che, ogni volta, mi rendo conto di
quanta roba c’è da dire, quante riflessioni offre l’opera di Tolkien, quanti
aspetti si possono ulteriormente approfondire rispetto a quanto già fatto e ai
propri riferimenti (nel mio caso, l’apparato critico di Wu Ming 4, Claudio
Antonio Testi, Tom Shippey, Verlyn Flieger, Paul Kocher, Brian Rosebury), e per
questo mi fanno sorridere quanti parlano di Tolkien secondo una lettura chiusa
e iniziatica, pronta da usare chiavi in mano: basti pensare alla problematicità
di personaggi come Sam, forse il più positivo e addirittura l’eroe del romanzo,
che blocca la trasformazione di Gollum, o alle parole contro la guerra di
Faramir in una condanna dell’eroismo nordico in un romanzo che trasuda di
pagine testosteroniche ed eroismo guerriero. Così come l’anacronismo degli
hobbit nella Terra di Mezzo, il ragionamento sull’estetica linguistica e la
memoria dei nomi in Barbalbero, il rapporto tra storia e mito, la dialettica tra libero arbitrio e coercizione:
Tolkien non è mai banale, e ho cercato di sottolinearlo, ma forse non tutti
apprezzeranno: meglio trattarlo come un santino, politico o religioso, e
continuare a non leggerlo. E così facendo ci si perderà qualcosa di bello.
martedì 28 aprile 2020
venerdì 24 aprile 2020
Harry G. Frankfurt - Stronzate. Un saggio filosofico
Quante stronzate
sentiamo dire ogni giorno? E quanto contribuiamo a diffonderne noi stessi?
Problemi di scottante attualità nella nostra società dell’informazione e dei
social, su cui ragiona Harry G. Frankfurt professore di filosofia all’Università
di Princeton in questo microscopico saggio filosofico di metà anni Ottanta
intitolato On Bullshit, tradotto benissimo con l’italiano “stronzate”,
perfetto per restituire il senso proprio di “escrementi”, che non sono
progettati o lavorati, ma semplicemente emessi o scaricati. Inoltre, il fatto
di essere materia da cui è stato rimosso qualunque nutrimento rende gli
escrementi (e quindi le stronzate) un equivalente dell’aria fritta, che
suggerisce il concetto che dalla bocca di chi parla esca solo vapore, un
discorso vuoto, senza sostanza o contenuto informativo. Il particolare
fondamentale è che l’essenza delle stronzate non sta nell’essere false, ma nell’essere
finte: false sono le menzogne, che partono dalla negazione di una verità,
mentre chi racconta stronzate può benissimo non ingannare gli altri (né volerlo
fare) e non avere alcun rapporto con la verità. Quindi per Frankfurt le
stronzate sono peggio delle menzogne, nonostante il nostro verso le prime sia
più benevolo rispetto alle seconde: infatti le stronzate diffondono il concetto
che non solo la verità sia inconoscibile, ma che non si debba neanche provare a
cercarla. Cosa ancora più grave, ci si può difendere dalle menzogne,
mostrandole scientificamente come tali, mentre non ci si può difendere dalle
stronzate, perché sono indimostrabili. Per questo, «le stronzate sono un nemico
della verità più pericoloso delle menzogne», e il loro proliferare potrebbe
essere un effetto delle diverse forme di scetticismo contemporaneo che, negando
la possibilità di accedere a una realtà oggettiva, hanno favorito la
sostituzione della ricerca dell’esattezza con il perseguimento dell’ideale della
sincerità. Frankfurt però mette in guardia da questo approccio che pensa di
poter fondare i propri comportamenti sulla sincera conoscenza di sé, perché «le
nostre nature sono, anzi, elusivamente inconsistenti. E se questo è vero, la
sincerità è in sé una stronzata».
martedì 21 aprile 2020
Roberto Burioni - Virus, la grande sfida
Uscito in coincidenza
dell’epidemia di Coronavirus e per questo criticato (perfino dallo Chef Rubio,
il che è tutto dire) per il tempismo e l’opportunità, senza che nessuno abbia
preso in considerazione il fatto che doveva uscire da mesi visto che io stesso l’ho
ordinato dall’agente Mondadori ben prima dell’emergenza Covid-19 (ma mi rendo
conto che l’uomo medio sia all’oscuro delle dinamiche del mercato editoriale, e
spesso è inutile anche tentare di spiegargliele), Virus, la grande sfida
è un libro che racconta in maniera molto semplice e piana la storia e l’evoluzione (con tanto di riferimenti letterari) di varie epidemie, la rabbia, la peste, l’Escherichia coli, la spagnola,
l’ebola, l’HIV, la SARS, e illustra come un approccio razionale e scientifico
possa aiutare e risolvere le cose. Viviamo in un mondo in cui tutti dissertano
di ceppi virologici e anticorpi monoclonali senza saperne nulla, però guai a
pubblicare un libro sulle pandemie durante una pandemia, perché è poco carino. Nessuno
di noi possiede il bagaglio di conoscenze per dire che un virologo ha ragione,
quindi, invece che gridare al complotto tirando in ballo la solita scusa “me l’ha
detto mio cuggino che lavora nel settore”, forse bisognerebbe piuttosto criticare
il modo in cui Burioni usa i social e si pone nei confronti del pubblico, e non
mi riferisco alle sue sferzate nei confronti dei no-vax: con il tempo Burioni è
diventato prigioniero del suo personaggio, lo scienziato che, con una
comunicazione molto aggressiva, blasta la gente (gente che, beninteso, si
merita qualsiasi tipo di insulto, visti certi commenti che circolano) e
addirittura i colleghi. Colleghi che, ovviamente, per l’uomo dei social sono
tutti migliori di lui e in odore di Premio Nobel, anche se per il resto dell’anno
il Premio Nobel è una cricca di massoni che ha l’obiettivo di distruggere l’umanità.
La verità è che viviamo in una società (e ci metto dentro l’informazione, lo spettacolo
e la politica) che non è pronta per affrontare questo tipo di problemi, e non è
nemmeno detto che grazie a libri come questo l’opinione pubblica si accosti a
certe tematiche accettando un approccio scientifico, che pur con tutta la sua
imperfezione, ci appare, secondo Burioni, «l’unico scudo in grado di proteggerci da un’inaspettata
e angosciante minaccia»: quindi non servirà
nemmeno scoprire che altri coronavirus hanno già fatto il salto nella specie
umana nel corso della storia, uno tra il XIII e il XV secolo, un altro tra il
Settecento e l’Ottocento, un terzo intorno al 1890, e sono diventati tutti la
causa di un banale raffreddore. È meglio tirare in ballo il complotto dei
cinesi, di Bill Gates e dei poteri forti, tanto è tutto scritto su internet e
poco importa parlare di spillover, cioè il passaggio dei virus dagli
animali all’uomo. E così facendo si perderà una bellissima riflessione sul
comportamento dei virus, la cui replicazione «è la più diretta
conferma delle teorie darwiniane, che si basano fondamentalmente sulla
sopravvivenza del più adatto all’interno di un certo ambiente»: alla fine si
afferma una variante che gli consente di essere trasmesso meglio, perché «il
virus è stupidissimo e fa miliardi di errori, ma ha un vantaggio: il mondo
esterno gli seleziona quelli che sono utili per la sua replicazione, e butta
via gli altri». Bisogna comunque tirare
le orecchie all’editore (la Rizzoli) per la scelta del titolo e del sottotitolo,
visto che la peste non è un virus.
lunedì 20 aprile 2020
Erica Francesca Poli - Anatomia della guarigione
Non è esattamente il mio
genere di lettura, ma talvolta cambiare fa bene. Anatomia della guarigione
di Erica Francesca Poli è un librone ponderoso che ragiona sul concetto di
guarigione e sul che cosa la determina, come essa sia come la maieutica
socratica, ovvero l’arte di far emergere la verità della persona, «come la levatrice fa uscire il bambino dal ventre
della partoriente». E lo
fa con un approccio olistico e comparato che cita la biologia, la psichiatria
di Freud e Jung ma anche Osho, l’Upanishad e i Vedanta per spiegare
che la salute è un equilibrio dinamico e rispondere alla domanda: “Curare,
curarsi o guarire?”. Infatti, «la biografia
di una persona è la sua biologia» e «la
guarigione autentica e completa passa necessariamente attraverso la cura delle
ferite psichiche o il superamento dei blocchi emozionali, dei nodi
esistenziali, degli schemi e delle credenze limitanti». Bisogna tenere conto del subconscio e dell’inconscio,
del confine tra la mente e il corpo, ma soprattutto dell’unità psiche-soma di
ogni individuo, quindi spazio alla neurofisiologia, alla medicina quantistica e
alle medicine alternative (in un orizzonte di medicina integrata), oltre che
alle terapie più efficaci in grado di far scattare gli interruttori più
profondi della guarigione. Per questo l’autrice svela i sette principi della
nuova medicina integrata e fa parlare le sue pazienti che si sono presentate
con disturbi della psiche, problemi emotivi, relazionali o fisici: spesso, alla
base della malattia, c’è un trauma, un malessere psichico, una ragione profonda
attorno a cui si sono costruiti i meccanismi di resistenza di una persona. Tra i
rimedi offerti, anche pratici, ci sono terapie che tengono conto dell’essenza
energetica delle persone (comprese ipnosi progressiva e regressiva), del ruolo delle emozioni (spesso negate o nascoste per paura di mostrare debolezza) nei processi di guarigione,
fino ad aprirsi al concetto di felicità e di trasformazione della nostra
identità, con la possibilità di contattare la nostra anima. È bene chiarire che
io di queste cose non so niente di niente e in genere mi sono sempre fermato al
concetto “se sei malato è meglio mantenere un atteggiamento positivo per
facilitare la risposta del corpo”, ma direi che sono partito da una buona base di
parenza perché il libro va proprio in questa direzione. Uno degli aspetti più
convincenti è la guarigione come accettazione della malattia in toto,
cioè anche la possibilità di poter morire, e mi ha fatto enormemente piacere
che la Poli sia contro le forme di empowerment motivazionale spacciate come soluzione
alle difficoltà o come soluzione per il benessere in quanto fondate unicamente
su uno sforzo cosciente e in opposizione alle motivazioni del subconscio. Altre
cose, tipo quella che Gesù scelse come suoi discepoli dei pescatori perché
avevano accesso più facilmente degli altri a una dieta più ricca di DHA che
fornisce una spinta neutronutrizionale ad attivare la corteccia prefrontale, mi
hanno lasciato molto più perplesso.
venerdì 10 aprile 2020
Beppe Severgnini - L'inglese. Lezioni semiserie
Ancora una volta, non
voglio parlare del Beppe Severgnini guru europeista del politicamente corretto
che va nel salotto della Gruber, ma del Beppe Severgnini giornalista di
costume, osservatore di vizi e virtù degli italiani all’estero, esperto di
Inghilterra e tifoso dell’Inter. Dopo Inglesi ho affrontato la lettura
de L’inglese, che già dal sottotitolo Lezioni semiserie si
presenta come uno strano manuale di lingua a uso e consumo dei neofiti e allo stesso tempo come un saggio di antropologia linguistica: erano già indicativi in questo
senso il capitolo di Inglesi dedicato
ai vari modi nel Regno Unito di dire “bagno” (lavatory, loo,
toilet) a seconda della classe sociale di appartenenza o quello sull’uso
del termine napkin ring (portatovagliolo) come potente indicatore
sociale. L’idea di fondo è che l’inglese è ormai la lingua più diffusa e parlata, e nel bene e nel male ci
spinge ad averci a che fare, soprattutto grazie alla sua praticità: la parola jet
leg è infatti senza dubbio più facile dell’equivalente italiano «malessere
che segue i lunghi viaggi aerei, dovuto principalmente al cambiamento di fuso
orario», così come guardrail rispetto a «ringhiera elastica in materiale
metallico, installata lungo strade e autostrade nei punti più pericolosi, e
lungo la banchina spartitraffico, allo scopo di impedire l’uscita di strada o
di corsia dei veicoli o minimizzarne le conseguenze» (secondo la definizione
del Devoto-Oli). Anzi, nonostante Prezzolini
invochi (come riportato nella citazione a inizio libro) «una
legge che consideri colpevoli di “truffa continuata” tutti quelli che
pubblicano avvisi su periodici o attaccano sui muri manifesti che promettono di
far parlare l’inglese, il francese, il tedesco o qualsiasi altra lingua entro
una giornata», Severgnini invita tutti a pensare che ormai usiamo così tante
parole prese dall’inglese che è davvero impossibile dire che non lo parliamo o
che non partiamo da una buona base di partenza per impararlo. Per questo le passa in rassegna
attraverso lunghe liste, con grande attenzione ai false friends (parole
inglesi simili a quelle italiane che però vogliono dire cose del tutto diverse)
e soprattutto alle storture tutte italiane che permeano il nostro modo di
parlare (soprattutto a livello aziendale) attraverso parole inglese completamente errate per non dire inventate. Ma niente paura: infatti «l’inglese è diventato
una lingua mondiale proprio perché è facile da parlar male», e conosce una
grande gamma di varianti, sia fonetiche sia grafiche, dall’inglese d’Inghilterra
all’inglese d’America, quello «con la prugna in bocca» di un lord o quello
fantasioso in uso nelle ex colonie britanniche. Per impararlo bene ci sono vari
metodi e diverse scuole (l’autore fornisce anche dei consigli sui corsi di
lingua all’estero), ma uno potrebbe essere quello dell’appassionato di musica
che ha imparato l’inglese grazie ai titoli delle canzoni, che spesso sono
espressioni sufficienti per cavarsela in molte circostanze o intavolare delle
conversazioni (chi può dire di non sapere di cosa si sta parlando?). Stessa cosa
vale per i titoli dei film, cosa che suggerisce l’importanza di imparare frasi
tipiche o formule fisse da cui poi sviluppare la propria conoscenza
grammaticale, come nel caso delle famose frasi per sopravvivere in viaggio, in
albergo, al ristorante, a un’emergenza o a un fine settimana, per non parlare
di quando si tratta di effettuare una prenotazione telefonica: bisogna infatti
sempre tenere conto del fatto che noi italiani «tendiamo a trasferire in
inglese le nostre acrobazie sintattiche e i periodi carichi di subordinate», mentre
gli inglesi non amano le costruzioni barocche. È quindi importante sapere cosa
dire, e per questo il libro passa poi a indicazioni sulla grammatica
(aggettivi, pronomi, possessivi, interrogativi, relativi, ausiliari, tempi
verbali, modali, frasi interrogative e negative), passando per un
interessantissimo capitolo “Come spedire una cartolina al principe” dal momento
che, «se l’inglese è una lingua semplice, gli inglesi restano gente
complicata». C’è poi una sezione sui misteriosi e temutissimi phrasal verbs,
sui più comuni errori grammaticali degli italiani e sulla pronuncia che cambia da
luogo a luogo creando notevoli problemi, come già notava Gorge Bernard Shaw: «È
impossibile per un inglese aprir bocca senza far sì che un altro inglese lo
detesti». È ovvio che leggendo un libro del genere non si impara l’inglese, quindi
evitate inutili e noiosi commenti o recensioni su Amazon in cui vi lamentate
della sua inutilità (o vani soliloqui sull’inglese lingua della massoneria e
della finanza internazionale che uccide la libertà): a Severgnini interessa
soprattutto sorridere dei vizi e delle virtù degli anglofoni, delle loro
idiosincrasie sociali e del loro modo di fare che spesso ci lascia perplessi. Ma
molto più spesso ci conquista.
mercoledì 8 aprile 2020
Katherine Rundell - Perché dovresti leggere libri per ragazzi anche se sei vecchio e saggio
I libri per ragazzi sono la vodka della letteratura. A scriverlo
è Katherine Rundell, la più giovane docente di Oxford e autrice pluripremiata
di libri come Sophie sui tetti di Parigi e La ragazza dei lupi (che purtroppo non ho mai letto), in questo piccolissimo saggio di una sessantina di pagine a difesa della letteratura
per l’infanzia, genere verso cui ancora oggi si mantengono tutta una serie di
pregiudizi basati sul snobismo, sul paternalismo e su una falsa idea di
progressione monodirezionale della lettura (in un’intervista lo scrittore Martin
Amis ha dichiarato: «Le persone mi chiedono se ho mai pensato di scrivere un libro per
ragazzi. E io rispondo: “Se avessi un grave danno cerebrale, forse sì, potrei
anche scrivere un libro per ragazzi”»). Per moltissima gente leggere libri per
ragazzi significa regredire e tornare indietro scappare dalla realtà: la
Rundell si riferisce al panorama inglese, ma non è che in Italia siamo messi
meglio, con la maggior parte delle persone che bollano i libri, anche quelli di
Dumas, come “ragazzate”, roba non adatta alla complessità della vita vera e lontano
dalla complessità di chi fa Letteratura vera. E questo è il motivo per cui,
annota l’autrice, quando racconta di scrivere libri per ragazzi «sul
volto di certe persone si disegna un sorrisetto particolare quando racconto
loro che cosa faccio, più o meno lo stesso che mi aspetterei di vedere se
dicessi che costruisco minuscoli mobili da bagno per elfi». E questo
è il motivo per cui i libri di Harry Potter sono stati ripubblicati con
copertine “da adulti”, «in modo che la ente seria e attempata non debba
arrossire quando li legge in autobus». Intendiamoci, la Rundell non è una di
quelle che rimpiange il mondo dorato dell’infanzia, anzi, scrive nero su bianco
di preferire di gran lunga la vita adulta (votare, bere, lavorare) all’infanzia.
Piuttosto, quello che vuole sottolineare è che l’idea di progressione
monodirezionale della lettura è la più nociva, «perché la letteratura
non diventi qualcosa che facciamo per un’ansiosa forma di automiglioramento –
perché non diventi come comprarci l’ultimo modello di scarpe da corsa o
iscriverci in palestra ogni anno a gennaio – tutti i testi devono essere
aperti a tutte le persone».
Oltre che la storia e l’evoluzione della letteratura per
ragazzi (c’è perfino una nota all’edizione italiana in cui si citano Collodi,
Calvino, Rodari e la Pitzorno), il saggio affronta la natura delle fiabe, che presentano
personaggi e situazioni archetipiche, ma che soprattutto, nella loro ferocia e
crudeltà, non sono mai state solo per i bambini ma si rivolgono a tutti. Ma soprattutto
vivono e cambiano, adattandosi ai vari contesti culturali e subendo continue riscritture
(le stesse cose che dice Neil Gaiman), nonostante il predominio della variante
Disney che si è imposta come vincente a livello mainstream (ed
economico) e ha ricevuto la nostra benedizione facendoci credere che le fiabe
siano solo cose per doli bamboline: «Voler cambiare queste storie non è strano. Sono
sempre cambiate: strano sarebbe volerne tenere ferme. […] Fiabe, miti,
leggende: sono le nostre fondamenta e noi adulti dobbiamo continuare a leggerle
e a scriverle, a re-impossessarci di loro mentre loro possiedono noi». Proprio
come le fiabe, spesso attraversate da una furiosa sete di giustizia, i libri
per ragazzi hanno una sorprendente valenza politica e «sono espressamente scritti per essere
letti da una parte della società priva di potere economico e politico»:
così Mary Poppins è una hippy ante litteram contro le aziende e a favore
del gioco, e i suoi romanzi «sono oggetti pericolosi sotto mentite
spoglie: spade nascoste dentro ombrelli».
Le fiabe possiedono poi la grande capacità di farci
tornare all'immaginazione e insegnarci quello che abbiamo dimenticato, ma anche
la speranza e il coraggio di fronte a un mondo che cambia e spesso fa paura: la
Rundell ha paura della Brexit, di Trump e dei sovranismi (e in questo senso
pensa che le fiabe possano provenire da altre tradizioni culturali per
arricchire e migliorare la nostra), ma ognuno può applicare queste
considerazioni a quello che vuole o che avverte nella propria esperienza
personale. In genere questi scrittori sono progressisti, quindi cercate di
vedere le cose dal loro punto di vista prima di afferrare l’accendino e
prendere la tanica di benzina. Il suo messaggio a favore della lettura e della
scoperta è bellissimo e non conosce colore politico: «Diffidate
dunque di chi vi dice di essere seri, di calcolare i profitti della vostra
fantasia; di chi pone limiti alla gioia in nome della proprietà. Fatevi beffe
dell’imbarazzo. Ignorate chi vi parlerà di sciocca fuga dalla realtà: non è fuggire,
è trovare. I libri per ragazzi non sono un posto in cui nasconderci, sono un
posto in cui cercare».
giovedì 2 aprile 2020
J.R.R. Tolkien - La Compagnia dell'Anello
La nuova traduzione del Signore degli Anelli di
Ottavio Fatica è una delle questioni più spinose degli ultimi anni. Accusata di
lesa maestà, di alto tradimento, di cospirazione LGBT, di corruzione della gioventù,
è stata rifiutata da alcuni ambienti di una certa parte politica, poco
interessati a ragionare su Tolkien come “classico” e a ragionare sulla possibilità
di avere una traduzione in grado di rispettarne meglio lo stile e il registro. La
stessa traduttrice Vittoria Alliata ha addirittura fatto ritirare dal mercato
la sua vecchia versione (quella sistemata da Quirino Principe), con il
risultato che l’Italia è l’unico Paese in cui non si trova Il Signore degli
Anelli completo: per averlo, bisognerà aspettare l’uscita di tutti e tre i
volumi di Fatica… Insomma, cose che succedono solo in Italia. Ne ho già parlato
nel dettaglio QUI ma torno sull’argomento in quanto in questi tempi di quarantena
e di Coronavirus mi sono messo a girare una serie di video su YouTube di
commento ai vari capitoli del romanzo di Tolkien, e per farlo mi sono basato
proprio sulla traduzione di Fatica, che ritengo ottima. La mia intenzione era
di proseguire con Le due torri, dato in uscita a inizio aprile, ma con l’emergenza
di questo periodo e tutti i conseguenti problemi editoriali non sono così
sicuro che sarà possibile, e mi toccherà ripiegare sulla traduzione della
Alliata. L’idea di base è stata fare un video a capitolo, ma a volte mi sono
visto costretto ad accorparne due, in un caso addirittura tre, cercando di
enuclearne aspetti e tematiche in maniera divulgativa e dando fondo alla mia
conoscenza di appassionato, come invito alla lettura. Ovviamente il tutto riflette la mia personale
esperienza di lettore (fanatico) ma anche la mediazione dell’apparato critico
desunto dalle opere di Wu Ming 4, Claudio Antonio Testi, Tom Shippey, Verlyn
Flieger e Paul Kocher, quindi non troverete esaltazioni sovraniste e periferiche della Merry
England medievale o applicazioni della tripartizione indeuropea teorizzata di
Dumézil, e nemmeno letture allegoriche basate sui santi e sul magistero tridentino
come spesso fanno gli apologeti cattolici. Ho cercato di spiegare come Tolkien
parta da stereotipi piuttosto comuni nella letteratura fantastico-cavalleresca (il
viaggio dell’eroe, il mentore saggio, la regina degli elfi, l’eroe che deve
riconquistare un trono) ma arrivi a soluzioni nuove, capaci di parlare anche a
noi uomini della modernità, e soprattutto che quello da più parti viene dipinto
come “manifesto” o “utopia” è qualcosa di molto diverso e soprattutto molto più
ambiguo (valga per tutti, il rapporto degli hobbit con il mondo esterno e
soprattutto con la natura). Questo senza negare la fede di Tolkien, che poi è
anche la mia.
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