martedì 28 aprile 2020

J.R.R. Tolkien - Le due torri

Tolkien in tempi di quarantena. Ho dato seguito alla mia idea di fare una specie di commento al Signore degli Anelli, capitolo per capitolo, in una serie di video su YouTube, e ho appena finito Le due torri. Mi seguono in pochi, ma chissenefrega. Avrei voluto basarmi subito sulla nuova traduzione di Ottavio Fatica (già criticata ancora prima di uscire) ma, a causa del Coronavirus e della chiusura delle librerie, con conseguente slittamento di tutte le uscite e dei giri promozionali, il volume è stato posticipato a metà maggio. Pazienza. Per la rilettura ho quindi ripiegato sulla vecchia edizione con la traduzione Alliata/Principe, che tra l’altro oggi è stata ritirata dal mercato quindi è altrettanto impossibile da reperire, sempre della serie cose che succedono solo in Italia. Come già successo per La Compagnia dell’Anello, a volte mi sono visto costretto ad accorpare due (o tre) capitoli in uno, cercando di enucleare aspetti e tematiche in modo divulgativo e spero non troppo pesante. Certo è che, ogni volta, mi rendo conto di quanta roba c’è da dire, quante riflessioni offre l’opera di Tolkien, quanti aspetti si possono ulteriormente approfondire rispetto a quanto già fatto e ai propri riferimenti (nel mio caso, l’apparato critico di Wu Ming 4, Claudio Antonio Testi, Tom Shippey, Verlyn Flieger, Paul Kocher, Brian Rosebury), e per questo mi fanno sorridere quanti parlano di Tolkien secondo una lettura chiusa e iniziatica, pronta da usare chiavi in mano: basti pensare alla problematicità di personaggi come Sam, forse il più positivo e addirittura l’eroe del romanzo, che blocca la trasformazione di Gollum, o alle parole contro la guerra di Faramir in una condanna dell’eroismo nordico in un romanzo che trasuda di pagine testosteroniche ed eroismo guerriero. Così come l’anacronismo degli hobbit nella Terra di Mezzo, il ragionamento sull’estetica linguistica e la memoria dei nomi in Barbalbero, il rapporto tra storia e mito, la dialettica tra libero arbitrio e coercizione: Tolkien non è mai banale, e ho cercato di sottolinearlo, ma forse non tutti apprezzeranno: meglio trattarlo come un santino, politico o religioso, e continuare a non leggerlo. E così facendo ci si perderà qualcosa di bello.

venerdì 24 aprile 2020

Harry G. Frankfurt - Stronzate. Un saggio filosofico

Quante stronzate sentiamo dire ogni giorno? E quanto contribuiamo a diffonderne noi stessi? Problemi di scottante attualità nella nostra società dell’informazione e dei social, su cui ragiona Harry G. Frankfurt professore di filosofia all’Università di Princeton in questo microscopico saggio filosofico di metà anni Ottanta intitolato On Bullshit, tradotto benissimo con l’italiano “stronzate”, perfetto per restituire il senso proprio di “escrementi”, che non sono progettati o lavorati, ma sempli­cemente emessi o scaricati. Inoltre, il fatto di essere materia da cui è stato rimosso qualunque nutrimento rende gli escrementi (e quindi le stronzate) un equivalente dell’aria fritta, che suggerisce il concetto che dalla bocca di chi parla esca solo vapore, un discorso vuoto, senza sostanza o contenu­to informativo. Il particolare fondamentale è che l’essenza delle stronzate non sta nell’essere false, ma nell’essere finte: false sono le menzogne, che partono dalla negazione di una verità, mentre chi racconta stronzate può benissimo non ingannare gli altri (né volerlo fare) e non avere alcun rapporto con la verità. Quindi per Frankfurt le stronzate sono peggio delle menzogne, nonostante il nostro verso le prime sia più benevolo rispetto alle seconde: infatti le stronzate diffondono il concetto che non solo la verità sia inconoscibile, ma che non si debba neanche provare a cercarla. Cosa ancora più grave, ci si può difendere dalle menzogne, mostrandole scientificamente come tali, mentre non ci si può difendere dalle stronzate, perché sono indimostrabili. Per questo, «le stronzate sono un nemico della verità più pericoloso delle menzogne», e il loro proliferare potrebbe essere un effetto delle diverse forme di scetticismo contemporaneo che, negando la possibilità di accedere a una realtà oggettiva, hanno favorito la sostituzione della ricerca dell’esattezza con il perseguimento dell’ideale della sincerità. Frankfurt però mette in guardia da questo approccio che pensa di poter fondare i propri comportamenti sulla sincera conoscenza di sé, perché «le nostre nature sono, anzi, elusivamente inconsistenti. E se questo è vero, la sincerità è in sé una stronzata».

martedì 21 aprile 2020

Roberto Burioni - Virus, la grande sfida

Uscito in coincidenza dell’epidemia di Coronavirus e per questo criticato (perfino dallo Chef Rubio, il che è tutto dire) per il tempismo e l’opportunità, senza che nessuno abbia preso in considerazione il fatto che doveva uscire da mesi visto che io stesso l’ho ordinato dall’agente Mondadori ben prima dell’emergenza Covid-19 (ma mi rendo conto che l’uomo medio sia all’oscuro delle dinamiche del mercato editoriale, e spesso è inutile anche tentare di spiegargliele), Virus, la grande sfida è un libro che racconta in maniera molto semplice e piana la storia e l’evoluzione (con tanto di riferimenti letterari) di varie epidemie, la rabbia, la peste, l’Escherichia coli, la spagnola, l’ebola, l’HIV, la SARS, e illustra come un approccio razionale e scientifico possa aiutare e risolvere le cose. Viviamo in un mondo in cui tutti dissertano di ceppi virologici e anticorpi monoclonali senza saperne nulla, però guai a pubblicare un libro sulle pandemie durante una pandemia, perché è poco carino. Nessuno di noi possiede il bagaglio di conoscenze per dire che un virologo ha ragione, quindi, invece che gridare al complotto tirando in ballo la solita scusa “me l’ha detto mio cuggino che lavora nel settore”, forse bisognerebbe piuttosto criticare il modo in cui Burioni usa i social e si pone nei confronti del pubblico, e non mi riferisco alle sue sferzate nei confronti dei no-vax: con il tempo Burioni è diventato prigioniero del suo personaggio, lo scienziato che, con una comunicazione molto aggressiva, blasta la gente (gente che, beninteso, si merita qualsiasi tipo di insulto, visti certi commenti che circolano) e addirittura i colleghi. Colleghi che, ovviamente, per l’uomo dei social sono tutti migliori di lui e in odore di Premio Nobel, anche se per il resto dell’anno il Premio Nobel è una cricca di massoni che ha l’obiettivo di distruggere l’umanità. La verità è che viviamo in una società (e ci metto dentro l’informazione, lo spettacolo e la politica) che non è pronta per affrontare questo tipo di problemi, e non è nemmeno detto che grazie a libri come questo l’opinione pubblica si accosti a certe tematiche accettando un approccio scientifico, che pur con tutta la sua imperfezione, ci appare, secondo Burioni, «l’unico scudo in grado di proteggerci da un’inaspettata e angosciante minaccia»: quindi non servirà nemmeno scoprire che altri coronavirus hanno già fatto il salto nella specie umana nel corso della storia, uno tra il XIII e il XV secolo, un altro tra il Settecento e l’Ottocento, un terzo intorno al 1890, e sono diventati tutti la causa di un banale raffreddore. È meglio tirare in ballo il complotto dei cinesi, di Bill Gates e dei poteri forti, tanto è tutto scritto su internet e poco importa parlare di spillover, cioè il passaggio dei virus dagli animali all’uomo. E così facendo si perderà una bellissima riflessione sul comportamento dei virus, la cui replicazione «è la più diretta conferma delle teorie darwiniane, che si basano fondamentalmente sulla sopravvivenza del più adatto all’interno di un certo ambiente»: alla fine si afferma una variante che gli consente di essere trasmesso meglio, perché «il virus è stupidissimo e fa miliardi di errori, ma ha un vantaggio: il mondo esterno gli seleziona quelli che sono utili per la sua replicazione, e butta via gli altri». Bisogna comunque tirare le orecchie all’editore (la Rizzoli) per la scelta del titolo e del sottotitolo, visto che la peste non è un virus.

lunedì 20 aprile 2020

Erica Francesca Poli - Anatomia della guarigione

Non è esattamente il mio genere di lettura, ma talvolta cambiare fa bene. Anatomia della guarigione di Erica Francesca Poli è un librone ponderoso che ragiona sul concetto di guarigione e sul che cosa la determina, come essa sia come la maieutica socratica, ovvero l’arte di far emergere la verità della persona, «come la levatrice fa uscire il bambino dal ventre della partoriente». E lo fa con un approccio olistico e comparato che cita la biologia, la psichiatria di Freud e Jung ma anche Osho, l’Upanishad e i Vedanta per spiegare che la salute è un equilibrio dinamico e rispondere alla domanda: “Curare, curarsi o guarire?”. Infatti, «la biografia di una persona è la sua biologia» e «la guarigione autentica e completa passa necessariamente attraverso la cura delle ferite psichiche o il superamento dei blocchi emozionali, dei nodi esistenziali, degli schemi e delle credenze limitanti». Bisogna tenere conto del subconscio e dell’inconscio, del confine tra la mente e il corpo, ma soprattutto dell’unità psiche-soma di ogni individuo, quindi spazio alla neurofisiologia, alla medicina quantistica e alle medicine alternative (in un orizzonte di medicina integrata), oltre che alle terapie più efficaci in grado di far scattare gli interruttori più profondi della guarigione. Per questo l’autrice svela i sette principi della nuova medicina integrata e fa parlare le sue pazienti che si sono presentate con disturbi della psiche, problemi emotivi, relazionali o fisici: spesso, alla base della malattia, c’è un trauma, un malessere psichico, una ragione profonda attorno a cui si sono costruiti i meccanismi di resistenza di una persona. Tra i rimedi offerti, anche pratici, ci sono terapie che tengono conto dell’essenza energetica delle persone (comprese ipnosi progressiva e regressiva), del ruolo delle emozioni (spesso negate o nascoste per paura di mostrare debolezza) nei processi di guarigione, fino ad aprirsi al concetto di felicità e di trasformazione della nostra identità, con la possibilità di contattare la nostra anima. È bene chiarire che io di queste cose non so niente di niente e in genere mi sono sempre fermato al concetto “se sei malato è meglio mantenere un atteggiamento positivo per facilitare la risposta del corpo”, ma direi che sono partito da una buona base di parenza perché il libro va proprio in questa direzione. Uno degli aspetti più convincenti è la guarigione come accettazione della malattia in toto, cioè anche la possibilità di poter morire, e mi ha fatto enormemente piacere che la Poli sia contro le forme di empowerment motivazionale spacciate come soluzione alle difficoltà o come soluzione per il benessere in quanto fondate unicamente su uno sforzo cosciente e in opposizione alle motivazioni del subconscio. Altre cose, tipo quella che Gesù scelse come suoi discepoli dei pescatori perché avevano accesso più facilmente degli altri a una dieta più ricca di DHA che fornisce una spinta neutronutrizionale ad attivare la corteccia prefrontale, mi hanno lasciato molto più perplesso.

venerdì 10 aprile 2020

Beppe Severgnini - L'inglese. Lezioni semiserie

Ancora una volta, non voglio parlare del Beppe Severgnini guru europeista del politicamente corretto che va nel salotto della Gruber, ma del Beppe Severgnini giornalista di costume, osservatore di vizi e virtù degli italiani all’estero, esperto di Inghilterra e tifoso dell’Inter. Dopo Inglesi ho affrontato la lettura de L’inglese, che già dal sottotitolo Lezioni semiserie si presenta come uno strano manuale di lingua a uso e consumo dei neofiti e allo stesso tempo come un saggio di antropologia linguistica: erano già indicativi in questo senso il capitolo di Inglesi dedicato  ai vari modi nel Regno Unito di dire “bagno” (lavatory, loo, toilet) a seconda della classe sociale di appartenenza o quello sull’uso del termine napkin ring (portatovagliolo) come potente indicatore sociale. L’idea di fondo è che linglese è ormai la lingua più diffusa e parlata, e nel bene e nel male ci spinge ad averci a che fare, soprattutto grazie alla sua praticità: la parola jet leg è infatti senza dubbio più facile dell’equivalente italiano «malessere che segue i lunghi viaggi aerei, dovuto principalmente al cambiamento di fuso orario», così come guardrail rispetto a «ringhiera elastica in materiale metallico, installata lungo strade e autostrade nei punti più pericolosi, e lungo la banchina spartitraffico, allo scopo di impedire l’uscita di strada o di corsia dei veicoli o minimizzarne le conseguenze» (secondo la definizione del Devoto-Oli). Anzi, nonostante Prezzolini invochi (come riportato nella citazione a inizio libro) «una legge che consideri colpevoli di “truffa continuata” tutti quelli che pubblicano avvisi su periodici o attaccano sui muri manifesti che promettono di far parlare l’inglese, il francese, il tedesco o qualsiasi altra lingua entro una giornata», Severgnini invita tutti a pensare che ormai usiamo così tante parole prese dall’inglese che è davvero impossibile dire che non lo parliamo o che non partiamo da una buona base di partenza per impararlo. Per questo le passa in rassegna attraverso lunghe liste, con grande attenzione ai false friends (parole inglesi simili a quelle italiane che però vogliono dire cose del tutto diverse) e soprattutto alle storture tutte italiane che permeano il nostro modo di parlare (soprattutto a livello aziendale) attraverso parole inglese completamente errate per non dire inventate. Ma niente paura: infatti «l’inglese è diventato una lingua mondiale proprio perché è facile da parlar male», e conosce una grande gamma di varianti, sia fonetiche sia grafiche, dall’inglese d’Inghilterra all’inglese d’America, quello «con la prugna in bocca» di un lord o quello fantasioso in uso nelle ex colonie britanniche. Per impararlo bene ci sono vari metodi e diverse scuole (l’autore fornisce anche dei consigli sui corsi di lingua all’estero), ma uno potrebbe essere quello dell’appassionato di musica che ha imparato l’inglese grazie ai titoli delle canzoni, che spesso sono espressioni sufficienti per cavarsela in molte circostanze o intavolare delle conversazioni (chi può dire di non sapere di cosa si sta parlando?). Stessa cosa vale per i titoli dei film, cosa che suggerisce l’importanza di imparare frasi tipiche o formule fisse da cui poi sviluppare la propria conoscenza grammaticale, come nel caso delle famose frasi per sopravvivere in viaggio, in albergo, al ristorante, a un’emergenza o a un fine settimana, per non parlare di quando si tratta di effettuare una prenotazione telefonica: bisogna infatti sempre tenere conto del fatto che noi italiani «tendiamo a trasferire in inglese le nostre acrobazie sintattiche e i periodi carichi di subordinate», mentre gli inglesi non amano le costruzioni barocche. È quindi importante sapere cosa dire, e per questo il libro passa poi a indicazioni sulla grammatica (aggettivi, pronomi, possessivi, interrogativi, relativi, ausiliari, tempi verbali, modali, frasi interrogative e negative), passando per un interessantissimo capitolo “Come spedire una cartolina al principe” dal momento che, «se l’inglese è una lingua semplice, gli inglesi restano gente complicata». C’è poi una sezione sui misteriosi e temutissimi phrasal verbs, sui più comuni errori grammaticali degli italiani e sulla pronuncia che cambia da luogo a luogo creando notevoli problemi, come già notava Gorge Bernard Shaw: «È impossibile per un inglese aprir bocca senza far sì che un altro inglese lo detesti». È ovvio che leggendo un libro del genere non si impara l’inglese, quindi evitate inutili e noiosi commenti o recensioni su Amazon in cui vi lamentate della sua inutilità (o vani soliloqui sull’inglese lingua della massoneria e della finanza internazionale che uccide la libertà): a Severgnini interessa soprattutto sorridere dei vizi e delle virtù degli anglofoni, delle loro idiosincrasie sociali e del loro modo di fare che spesso ci lascia perplessi. Ma molto più spesso ci conquista.

mercoledì 8 aprile 2020

Katherine Rundell - Perché dovresti leggere libri per ragazzi anche se sei vecchio e saggio

I libri per ragazzi sono la vodka della letteratura. A scriverlo è Katherine Rundell, la più giovane docente di Oxford e autrice pluripremiata di libri come Sophie sui tetti di Parigi e La ragazza dei lupi (che purtroppo non ho mai letto), in questo piccolissimo saggio di una sessantina di pagine a difesa della letteratura per l’infanzia, genere verso cui ancora oggi si mantengono tutta una serie di pregiudizi basati sul snobismo, sul paternalismo e su una falsa idea di progressione monodirezionale della lettura (in un’intervista lo scrittore Martin Amis ha dichiarato: «Le persone mi chiedono se ho mai pensato di scrivere un libro per ragazzi. E io rispondo: “Se avessi un grave danno cerebrale, forse sì, potrei anche scrivere un libro per ragazzi”»). Per moltissima gente leggere libri per ragazzi significa regredire e tornare indietro scappare dalla realtà: la Rundell si riferisce al panorama inglese, ma non è che in Italia siamo messi meglio, con la maggior parte delle persone che bollano i libri, anche quelli di Dumas, come “ragazzate”, roba non adatta alla complessità della vita vera e lontano dalla complessità di chi fa Letteratura vera. E questo è il motivo per cui, annota l’autrice, quando racconta di scrivere libri per ragazzi «sul volto di certe persone si disegna un sorrisetto particolare quando racconto loro che cosa faccio, più o meno lo stesso che mi aspetterei di vedere se dicessi che costruisco minuscoli mobili da bagno per elfi». E questo è il motivo per cui i libri di Harry Potter sono stati ripubblicati con copertine “da adulti”, «in modo che la ente seria e attempata non debba arrossire quando li legge in autobus». Intendiamoci, la Rundell non è una di quelle che rimpiange il mondo dorato dell’infanzia, anzi, scrive nero su bianco di preferire di gran lunga la vita adulta (votare, bere, lavorare) all’infanzia. Piuttosto, quello che vuole sottolineare è che l’idea di progressione monodirezionale della lettura è la più nociva, «perché la letteratura non diventi qualcosa che facciamo per un’ansiosa forma di automiglioramento – perché non diventi come comprarci l’ultimo modello di scarpe da corsa o iscriverci in palestra ogni anno a gennaio – tutti i testi devono essere aperti a tutte le persone».

Oltre che la storia e l’evoluzione della letteratura per ragazzi (c’è perfino una nota all’edizione italiana in cui si citano Collodi, Calvino, Rodari e la Pitzorno), il saggio affronta la natura delle fiabe, che presentano personaggi e situazioni archetipiche, ma che soprattutto, nella loro ferocia e crudeltà, non sono mai state solo per i bambini ma si rivolgono a tutti. Ma soprattutto vivono e cambiano, adattandosi ai vari contesti culturali e subendo continue riscritture (le stesse cose che dice Neil Gaiman), nonostante il predominio della variante Disney che si è imposta come vincente a livello mainstream (ed economico) e ha ricevuto la nostra benedizione facendoci credere che le fiabe siano solo cose per doli bamboline: «Voler cambiare queste storie non è strano. Sono sempre cambiate: strano sarebbe volerne tenere ferme. […] Fiabe, miti, leggende: sono le nostre fondamenta e noi adulti dobbiamo continuare a leggerle e a scriverle, a re-impossessarci di loro mentre loro possiedono noi». Proprio come le fiabe, spesso attraversate da una furiosa sete di giustizia, i libri per ragazzi hanno una sorprendente valenza politica e «sono espressamente scritti per essere letti da una parte della società priva di potere economico e politico»: così Mary Poppins è una hippy ante litteram contro le aziende e a favore del gioco, e i suoi romanzi «sono oggetti pericolosi sotto mentite spoglie: spade nascoste dentro ombrelli».

Le fiabe possiedono poi la grande capacità di farci tornare all'immaginazione e insegnarci quello che abbiamo dimenticato, ma anche la speranza e il coraggio di fronte a un mondo che cambia e spesso fa paura: la Rundell ha paura della Brexit, di Trump e dei sovranismi (e in questo senso pensa che le fiabe possano provenire da altre tradizioni culturali per arricchire e migliorare la nostra), ma ognuno può applicare queste considerazioni a quello che vuole o che avverte nella propria esperienza personale. In genere questi scrittori sono progressisti, quindi cercate di vedere le cose dal loro punto di vista prima di afferrare l’accendino e prendere la tanica di benzina. Il suo messaggio a favore della lettura e della scoperta è bellissimo e non conosce colore politico: «Diffidate dunque di chi vi dice di essere seri, di calcolare i profitti della vostra fantasia; di chi pone limiti alla gioia in nome della proprietà. Fatevi beffe dell’imbarazzo. Ignorate chi vi parlerà di sciocca fuga dalla realtà: non è fuggire, è trovare. I libri per ragazzi non sono un posto in cui nasconderci, sono un posto in cui cercare».

giovedì 2 aprile 2020

J.R.R. Tolkien - La Compagnia dell'Anello

La nuova traduzione del Signore degli Anelli di Ottavio Fatica è una delle questioni più spinose degli ultimi anni. Accusata di lesa maestà, di alto tradimento, di cospirazione LGBT, di corruzione della gioventù, è stata rifiutata da alcuni ambienti di una certa parte politica, poco interessati a ragionare su Tolkien come “classico” e a ragionare sulla possibilità di avere una traduzione in grado di rispettarne meglio lo stile e il registro. La stessa traduttrice Vittoria Alliata ha addirittura fatto ritirare dal mercato la sua vecchia versione (quella sistemata da Quirino Principe), con il risultato che l’Italia è l’unico Paese in cui non si trova Il Signore degli Anelli completo: per averlo, bisognerà aspettare l’uscita di tutti e tre i volumi di Fatica… Insomma, cose che succedono solo in Italia. Ne ho già parlato nel dettaglio QUI ma torno sull’argomento in quanto in questi tempi di quarantena e di Coronavirus mi sono messo a girare una serie di video su YouTube di commento ai vari capitoli del romanzo di Tolkien, e per farlo mi sono basato proprio sulla traduzione di Fatica, che ritengo ottima. La mia intenzione era di proseguire con Le due torri, dato in uscita a inizio aprile, ma con l’emergenza di questo periodo e tutti i conseguenti problemi editoriali non sono così sicuro che sarà possibile, e mi toccherà ripiegare sulla traduzione della Alliata. L’idea di base è stata fare un video a capitolo, ma a volte mi sono visto costretto ad accorparne due, in un caso addirittura tre, cercando di enuclearne aspetti e tematiche in maniera divulgativa e dando fondo alla mia conoscenza di appassionato, come invito alla lettura. Ovviamente il tutto riflette la mia personale esperienza di lettore (fanatico) ma anche la mediazione dell’apparato critico desunto dalle opere di Wu Ming 4, Claudio Antonio Testi, Tom Shippey, Verlyn Flieger e Paul Kocher, quindi non troverete esaltazioni sovraniste e periferiche della Merry England medievale o applicazioni della tripartizione indeuropea teorizzata di Dumézil, e nemmeno letture allegoriche basate sui santi e sul magistero tridentino come spesso fanno gli apologeti cattolici. Ho cercato di spiegare come Tolkien parta da stereotipi piuttosto comuni nella letteratura fantastico-cavalleresca (il viaggio dell’eroe, il mentore saggio, la regina degli elfi, l’eroe che deve riconquistare un trono) ma arrivi a soluzioni nuove, capaci di parlare anche a noi uomini della modernità, e soprattutto che quello da più parti viene dipinto come “manifesto” o “utopia” è qualcosa di molto diverso e soprattutto molto più ambiguo (valga per tutti, il rapporto degli hobbit con il mondo esterno e soprattutto con la natura). Questo senza negare la fede di Tolkien, che poi è anche la mia.