mercoledì 1 luglio 2020

Friedrich Sieburg - Robespierre

In molti hanno provato a cambiare l’umanità applicando dei principi ritenuti perfetti, e l’Incorruttibile Maximilien Robespierre, protagonista indiscusso della Rivoluzione francese, è uno degli esempi più celebri. La cosa interessante è la lettura che ne fa Friedrich Sieburg, saggista e giornalista tedesco, corrispondente del “Frankfurter Zeitung” da Parigi e fervente sostenitore del dialogo tra Francia e Germania, cosa che per altro lo ha portato a collaborare con il regime nazista durante l’occupazione. In questa sua biografia, in via di ripubblicazione per Fede & Cultura, Sieburg riflette le inquietudini della sua epoca, quella dei totalitarismi, a partire dalla barbarie del Terrore scaturita dall’applicazione delle dottrine illuministe, e ragiona sul «mistero di questo francese che rimette Dio sugli altari e fa perire i sacerdoti su galere appestate» (anche se la sua divinità, l’Ente Supremo, è una cosa piuttosto diversa dal Dio della religione). E lo fa cominciando dalla fine, da Robespierre ferito alla mandibola e in stato di quasi incoscienza in attesa di essere trascinato al patibolo: la fine della sua parentesi terrena, che coincide con la fine del suo tentativo di governo e del regime del Terrore. Sieburg lo fa parlare, entra nella sua testa, e lo fa con uno stile quasi cinematografico che salta avanti e indietro nel tempo, particolare interessante se pensiamo che il libro è stato scritto nel 1935. Forse si potrebbe obiettare che la sua è una visione personale e immaginaria, visto che abusa di molti luoghi comuni derivati dalla storiografia reazionaria post-termidoriana (il tiranno, la dittatura, il sangue), ma ha comunque un certo valore, soprattutto letterario.

Modesto e privo di vizi (se non quello della pettinatura e dei polsini di merletto), fustigatore di costumi, contrario alla guerra, nemico del gioco, avverso al denaro e alle donne (anche a quelle rivoluzionarie), esattamente il contrario di Danton che arraffava quello che poteva e si presentava come indomito seduttore, Robespierre era «un uomo né giovane né vecchio, né bello né brutto, né simpatico né repellente, dalla fronte sfuggente e dalle labbra strette in un’espressione energica, pettinato e incipriato all’antica, dalla cravatta bianca come la neve e ripiegata molte volte che viene fuori civettuola dal frac». La sua eleganza all’antica corrispondeva a un’avversione nei confronti della sciatteria di molti rivoluzionari che ostentavano maniere sanculotte per essere considerati apostoli dell’uguaglianza. Di temperamento né mediterraneo né nordico, possedeva un dogmatismo che sfociava nella mistica: ispirato da Rousseau, portò in politica la logica totalitaria di un sistema universale di ispirazione religiosa, fatto di ombra e di luce, tanto che «nessuno, prima e dopo di lui, ha mai tentato con tanta coerenza di trasformare un’utopia di origine religiosa in una prassi politica». Pensava di poter far sparire i vizi e apparire le virtù per legge, sostituire la morale all’egoismo, l’onestà alla corruzione: per questo, più che un politico, Robespierre fu “un sacerdote fallito” e il fondatore di una nuova Chiesa, l’iniziatore di uno Stato spirituale ed etico, un santo mancato e un “martire senza Dio”, del tutto scollegato dalla realtà del popolo, pur ritenendosi l’unico conoscitore della volontà popolare. Le stesse lettere che riceveva personalmente testimoniano questo culto: donne innamorate di lui che gli si offrivano in moglie, genitori che davano il suo nome al loro figlio. Ma basterebbe anche solo citare la frase di un deputato che davanti all’entusiasmo delle sue adoratrici un giorno esclamò: «Ma che specie di uomo è mai questo Robespierre con tutte quelle donne? È un sacerdote che vuole diventare Dio!».

Sieburg, diviso tra la repulsione e l’attrazione per il personaggio, scava nella sua infanzia priva di affetto: orfano di madre a cinque anni, con il padre scomparso l’anno dopo, il piccolo Maximilien ricevette una rigida educazione da parte dei nonni. Timido e cupo, mostrò barlumi di umanità solo nell’intimità domestica di casa Duplay, dove trovò asilo nel 1789 (Maurice, il capofamiglia, falegname, ottenne in cambio l’incarico ufficiale di rifornire la Convenzione di palchi, sedili e tribune). Avverso al rosso cappello frigio, sostenne la parità di diritti e anche di averi: non a caso era sostenuto dai sanculotti e dalla Comune di Parigi, ma anche dai piccoli borghesi, visti da Sieburg come i precursori del proletariato. Questo nonostante la sua difesa della proprietà e la sua opposizione al calmiere dei prezzi. Vedeva complotti da ogni parte diretti sempre contro la sua persona (e questa fu una delle cause della sua caduta), e la sua paranoia si tradusse nell’avversare qualsiasi posizione: chi ostentava costumi rivoluzionari era un aristocratico travestito, chi invece rimaneva come prima era un indifferente e quindi un nemico; chi invocava sangue voleva indebolire la Convenzione, chi predicava mitezza aveva qualcosa da temere dal tribunale rivoluzionario; chi lo lodava era un adulatore, chi lo biasimava era un traditore della patria. Seducente ma asessuato, fu un burocrate del Terrore: non assistette mai a un’esecuzione, limitandosi sempre a firmarle. Non amava neppure quelli che di lasciavano andare agli eccessi terroristici tra sangue, donne e volgarità (e se ne registravano molti), cercando anzi di mantenere la giusta via e a mediare gli estremismi e ripetendo che la ghigliottina doveva restare “la spada della legge”. Di certo è stato il più vituperato esponente della Rivoluzione, ma non l’unico responsabile delle idee successive, cui contribuirono ugualmente le idee di Danton, Hébert, Brissot e Condorcet: anzi, «la sua teoria dell’uguaglianza è affondata nel sangue e non è stata riportata alla luce dagli eredi della Rivoluzione».

Sieburg è chiaramente avverso al liberalismo, che promette il raggiungimento della felicità individuale ma approda al sangue, e sembra dire che enciclopedisti, filosofi e discepoli di Voltaire e di Rousseau, una volta al governo, creano solo disastri: sulla loro scorta, «la volontà generale non è certo la volontà della maggioranza, ma la volontà di coloro che sono virtuosi e in possesso della verità», quindi il disegno di Robespierre si configura come disegno gnostico di trasformazione e di rigenerazione dell’umanità e della società imperfetta, che si realizza anche attraverso il cambio della toponomastica e dei mesi dell’anno e transita la società dall’intolleranza religiosa a quella politica. Allo stesso modo, i concetti di bene e male sono stabiliti dalla cosiddetta volontà generale, che è sempre la volontà di coloro che sono virtuosi e in possesso della verità: le leggi della Rivoluzione sono le leggi della virtù. Logica conseguenza di ciò è il “documento di civismo”, il documento di buona condotta indispensabile che viene rilasciato dagli organi locali e corrisponde a un più stretto e vigile controllo sociale: chi non poteva presentarlo non poteva acquistare le derrate alimentari e anzi doveva venire imprigionata come nemico della Rivoluzione. Non è un caso che il Terrore sia divenuto il regno della delazione come un vero e proprio ramo dell’attività statale e che il governo sia nelle mani del Comitato di Salute Pubblica. In fondo, era Marat che diceva: «Ogni accusa fondata deve procurare all’accusatore la stima pubblica. L’accusa infondata, ma suggerita dall’amor patrio, non deve procurare all’accusatore nessuna punizione». E da questo deriva la diffusione di ogni tipo di menzogna per incitare la popolazione alla rivolta o all’atteggiamento tenuto durante il processo al re, non solo considerandolo come un semplice cittadino da giudicare ma come un nemico da combattere.

Un capitolo è quindi dedicato a Saint-Just, l’arcangelo della rivoluzione dall’inflessibile e ferrea oratoria, lui sì su posizioni proto-marxiste e favorevole agli espropri in nome dell’equità e della ripartizione della ricchezza. Spesso al fronte per controllare lo stato delle guerre rivoluzionarie, è lui a dichiarare che «in ogni rivoluzione occorre un dittatore, per salvare lo Stato con la violenza!» e a spingersi alla punizione nei confronti degli indifferenti e non solo dei traditori, perché non si può rimanere passivi davanti alla Rivoluzione. Solo i rivoluzionari patrioti, cioè i giacobini, vanno premiati: «Non tollerate che ci sia un solo infelice o un povero nella vostra patria: soltanto a questo prezzo farete una vera rivoluzione e fonderete una vera repubblica». È Saint-Just che moltiplica l’intervento dello Stato nella vita dei singoli e minaccia direttamente la Convenzione, contribuendo a conferire di fatto ogni potere al Tribunale rivoluzionario e al Comitato di Salute Pubblica: l’inchiesta preliminare e la difesa vengono abolite, «i giurati devono basare i loro giudizi sulla loro coscienza, illuminata dall’amor di patria». A questo punto non desta stupore che, durante il Terrore, si mandassero a morte figli al posto dei genitori o anziani al posto di giovani e si raggiungesse la cifra 1.285 condanne a morte in sei settimane. Se questo è il paradiso terrestre immaginato da Robespierre, qualcosa è sfuggito di mano.

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