Che ci
si creda o no, anche il Tolkien minore crea saggistica di primo livello. È il
caso di questo Riscrivere la leggenda. Tolkien e il medievalismo di Sigurd e
Gudrún, scritto dalla bravissima e attentissima Valérie Morisi
su una delle opere più sconosciute del Professore di Oxford, La leggenda di Sigurd
e Gudrún, uscito una decina di anni fa a cura del figlio
Christopher ma risalente agli anni Venti-Trenta e facente riferimento al
corrispettivo norreno del ciclo tedesco di Sigfrido e dei Nibelunghi. La leggenda
in questione presenta tutti gli elementi tipici della mitologia nordica: il drago
Fafnir, il dio Odino, la valchiria Bynhild, la spada spezzata e riforgiata, il
tesoro e l’anello magico su cui grava una maledizione, oltre a temi scabrosi e
cruenti come l’incesto, l’omicidio di bambini e il sacrificio umano. Protagonista
della vicenda è Sigurd, il Sigfrido germanico, che uccide il drago, conquista
il tesoro, risveglia la valchiria, poi sposa Gudrun ma conquista Brynhild per
conto del cognato Gunnar, finché lo scontra le due donne non fa precipitare le
cose (Brynhild esorta il marito Gunnar a vendicarsi di Sigurd per il tradimento
nei suoi confronti). Il libro della Morisi non affronta le somiglianze e le
differenze fra Tolkien e quella che è forse la rielaborazione più famosa del
mito in questione, la tetralogia teatrale di Wagner, ma analizza il modo in cui
Tolkien riscrive il mito partendo da diverse fonti (la saga dei Volsunghi, l’Edda)
cercando di uniformare le varianti, addirittura colmandone le lacune in maniera
creativa e nel tentativo di conferire verosimiglianza psicologica al tutto. Se la
storia quindi è quella, Tolkien carica l’eroe Sigurd di tratti quasi
cristologici, conformi alla sua fede cattolica ma impossibili da riscontrare
nello scenario pagano dell’originale norreno. Inoltre, dal punto di vista
stilistico, il professore di Oxford cerca di riprodurre in inglese moderno il
metro e il suono dell’originale norreno, utilizzando il metro allitterativo per
ottenere una poesia molto più arcaica e scabra (tutte cose che sarebbero
ritornate in alcune poesie del Signore degli Anelli). D’altra parte,
come ricorda Douglas Anderson nell’introduzione a Lo Hobbit annotato, lo
stesso Tolkien diceva che la sua tipica reazione alla lettura di un’opera
medievale non era quella di imbarcarsi in uno studio critico o filologico su di
essa, ma piuttosto di scrivere un’opera moderna in quella stessa tradizione. Le
fonti del passato avviavano in lui un processo creativo di continuazione e
riscrittura: non siamo ancora alla reinvenzione del mito, come Tolkien avrebbe
fatto in seguito, ma a uno stadio intermedio, che mostra il passaggio dalla
traduzione e dallo studio di testi antichi alla loro riscrittura e, allo stesso
tempo, la perfetta sintesi tra il medievalismo più strettamente legato alla
storia e la nascente letteratura fantastica. In fondo, come diceva lo stesso Tolkien,
sono gli adulti a essere più bisognosi di fiabe.
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