martedì 30 novembre 2021

Paolo Nardi - Leggiamo insieme Lo Hobbit

 

E così siamo arrivati al secondo libro. Dopo Leggiamo insieme Il Signore degli Anelli, di cui è in lavorazione una seconda edizione riveduta e ampliata di 30 pagine con una nuova copertina, ecco arrivare nelle librerie (poche purtroppo) Leggiamo insieme Lo Hobbit, il fratello minore se vogliamo. Di seguito la mia introduzione che inquadra il volume, dedicato a un romanzo ingiustamente bistrattato come opera “per bambini” ma in realtà pieno di sorprese. Qui non c’entra la nuova traduzione di Ottavio Fatica, quindi potete anche darmi una possibilità.

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Sebbene sia spesso pubblicizzato come un libro per bambini e non sia minimamente paragonabile per ricchezza e complessità al Signore degli Anelli (che curiosamente nacque proprio come sequel su richiesta del suo editore), Lo Hobbit accompagna la mia vita sin dall’infanzia, cioè da quando mia mamma mi raccontava la storia di Bilbo Baggins e del drago Smaug: la storia del punto debole nella corazza di un drago che poi veniva colpito dalla freccia di un arciere ha sempre esercitato un fascino irresistibile sulla mia fantasia.
Certo, è un romanzo che apparentemente si presenta come una favola, a partire dalle storie che Tolkien raccontava ai figli, slegata dal suo legendarium che era andato elaborando sin dal 1917: tuttavia, scrivendo Il Signore degli Anelli, Tolkien stesso si accorse che il sequel metteva in luce diverse incongruenze presenti ne Lo Hobbit. Non a caso nel 1951, 14 anni dopo la pubblicazione avvenuta nel 1937, apportò alla seconda edizione alcune modifiche, tra cui la riscrittura del quinto capitolo, Indovinelli nell’oscurità, per fornire la versione “autentica” di come Bilbo si fosse imbattuto nell’Anello magico di Gollum. In origine, Gollum aveva messo in palio il prezioso oggetto per il vincitore della gara di indovinelli, invece ora Tolkien fece in modo che Bilbo lo trovasse per caso. Poi aggiunse un capitolo esplicativo, La cerca di Erebor, per spiegare il perché della missione dei nani e dell’aiuto di Gandalf nel quadro generale della Guerra dell’Anello, a partire dal primo incontro tra Gandalf e Thorin a Brea.
Gli venne addirittura in mente di riscrivere il romanzo con lo stile del Signore degli Anelli, ma abbandonò il progetto e in questo modo preservò il fascino dell’originale. Un po’ lo stesso problema davanti a cui si è trovato Peter Jackson quando si è trovato a dover realizzare la sua seconda trilogia dopo aver già raggiunto il successo con quella del Signore degli Anelli: in qualche modo il regista neozelandese ha tentato di fare quello che Tolkien non aveva potuto, cioè rendere tutto più epico e meno favolistico, ma soprattutto coerente con lo stile caratteristico degli altri film.
Lo Hobbit rimane una deliziosa favola caratterizzata da elementi tipici delle fiabe: i nani, il drago, un tesoro conteso da recuperare, fughe a rotta di collo, episodi di metamorfosi, foreste piene di pericoli e animali parlanti. La struttura è quella classica della Cerca (in questo caso la ricerca di un tesoro) e dell’archetipo letterario del viaggio dell’eroe che torna con degli oggetti magici (l’Anello) e una consapevolezza nuova. Lo dice espressamente lo stesso Tolkien all’inizio della sua narrazione: “Questa è la storia di come un Baggins ebbe un’avventura e si trovò a fare e dire cose del tutto imprevedibili. Può anche aver perso il rispetto del vicinato, ma guadagnò… be’, vedrete voi stessi se alla fine guadagnò qualcosa”. D’altra parte, il sottotitolo originale, There and Back Again, cioè Andata e ritorno (sempre ignorato dalle edizioni italiane che l’hanno trasformato prima in La riconquista del tesoro e poi in Un viaggio inaspettato), allude proprio a questo: alla crescita del personaggio e alla sua trasformazione, alla scoperta del ruolo che è chiamato ad assumere nonostante il suo conformismo e la sua scarsa propensione all’avventura.
Bilbo è l’esempio di come persone ordinarie siano capaci di realizzare grandi imprese e di diventare addirittura sagge, adattandosi alle situazioni e affrontandole con pazienza. Lo stregone Gandalf e i nani gli fanno intraprendere un’avventura che lo metterà a contatto con molte prove e difficoltà e lo porteranno a capire che nella vita c’è molto di più che agio e comodità. Ovviamente lo hobbit non è l’unico personaggio che cambia all’interno dell’avventura: si pensi al nano Thorin, che cede alla cupidigia e alla malattia del drago in un alternarsi di luci e ombre, caduta e redenzione.
Soprattutto, l’umorismo e le frequentissime intromissioni del narratore, il familiare “che lo crediate o no”, le ricapitolazioni introdotte dal “come ricorderete” e le parentesi destinate a far ridere il lettore, contribuiscono forse a rendere Lo Hobbit l’opera tecnicamente meglio scritta tra quelle di Tolkien, o almeno quella più coerente e uniforme, in possesso dello stesso registro dall’inizio alla fine. Anzi, Tolkien non riuscirà mai a essere più divertente di così: valga per tutti l’episodio di Ruggitoro Tuc, pro-prozio di Bilbo, che prese parte alla carica contro le schiere degli orchi e colpì staccando di netto la testa del re nemico con una mazza di legno, risolvendo così la battaglia e inventando allo stesso tempo il gioco del golf.
Ovviamente, come favola, manca la dimensione seria e tragica del suo fratello maggiore (Il Signore degli Anelli), così come il pathos di scene come quelle delle Miniere di Moria o del Passo di Cirith Ungol, ma non bisogna dimenticare che il romanzo termina con la drammatica morte di Thorin e la Battaglia dei Cinque Eserciti, cioè una guerra di carneficina a tutti gli effetti, elemento ben poco favolistico e “fanciullesco”. Inoltre mi sembra di poter ravvisare in nuce la stessa critica nei confronti del progresso scientifico incontrollato che è fonte di distruzione più di quanto lo sia di corruzione; anche la concezione di tempo individuale e tempo mitico ricorda la quella che troveremo nel Il Signore degli Anelli.
Piuttosto, se quest’ultimo romanzo è stato vittima di una serie di interpretazioni forzatamente allegoriche, simboliste e politiche che ne diminuiscono il valore e la portata, Lo Hobbit ha subito invece un’operazione di svilimento per la sua stessa natura di favola: perché infatti leggere e considerare quello che, a conti fatti, è solo un libro per bambini? Così facendo si dimentica che è la presenza del protagonista, un piccolo hobbit con il panciotto e i piedi pelosi, a costituire la novità il fascino di questa storia, gettando un ponte tra le antiche fiabe e il lettore di oggi e configurandosi in tutto e per tutto come un romanzo moderno.
Nel mare di letteratura critica internazionale non mancano comunque delle interessanti letture politico-economiche, che dipingono i personaggi positivi del romanzo come paladini del libero mercato contro le storture del capitalismo. C’è addirittura chi ha parlato di alleanza tra la classe medio-bassa (Bilbo) e i minatori della classe operaia (i nani) in modo da usurpare il potere del capitale parassita, che vive grazie al lavoro della povera gente, accumulando benessere senza avere la capacità di apprezzarne il valore (il drago).
Al di là della liceità di simili teorie, ritengo che così facendo si rischi di perdere il senso centrale dell’opera, che resta prima di tutto il racconto di un viaggio: in fondo, l’intenzione di Tolkien non era quella di realizzare un romanzo allegorico o a tesi. Bisognerebbe tenere presente che Tolkien non lavorava a partire da idee o da manifesti, ma da parole e nomi. Certo, nel Signore degli Anelli ci sono più di 600 nomi di “persone, animali e mostri” e quasi altrettanti toponimi, con l’aggiunta di circa duecento oggetti non classificabili ma ugualmente dotati di un nome, mentre ne Lo Hobbit sono presenti 40-50 nomi propri inseriti in maniera piuttosto noncurante. Un confronto tra le due opere, quindi, è improponibile, ma il modo di approcciarsi alla narrativa è lo stesso: un approccio filologico, che troppo spesso è stato trascurato o dimenticato.
In questa mia analisi, ho ripreso la struttura del mio precedente Leggiamo insieme Il Signore degli Anelli, cioè quella capitolo per capitolo: nel caso de Lo Hobbit, ogni capitolo assume un ruolo narrativo ben preciso e si distingue per la diversa collocazione geografica e la presenza di nuovi personaggi e nuove creature. Questo rende i diversi capitoli dei piccoli universi a sé stanti, con le proprie prove e le proprie problematiche, pur collegati tra loro in una struttura per nulla casuale, come dimostrato da William Green nel suo fondamentale Lo Hobbit. Un viaggio verso la maturità: il romanzo è popolato di doppi, in una continua simmetria rovesciata di luoghi e situazioni, particolari che confermano la famosa dichiarazione di C.S. Lewis per cui, solo alla dodicesima rilettura in età adulta, Lo Hobbit avrebbe rivelato tutti i suoi livelli di lettura.
Inoltre, proprio come nel caso di Leggiamo insieme Il Signore degli Anelli, questo libro non porta nulla di nuovo, anzi è del tutto derivativo: mi sono semplicemente avvalso di quanto detto dallo stesso Tolkien nelle sue Lettere e di una serie di mostri sacri di riferimento che nel corso degli anni hanno plasmato la mia lettura dell’opera di questo scrittore. Mi riferisco a Tom Shippey (Tolkien autore del secolo e La via per la Terra di Mezzo), Wu Ming 4 (Difendere la Terra di Mezzo), Brian Rosebury (Tolkien, un fenomeno culturale) e Andrea Monda (A proposito degli Hobbit), ma anche a raccolte come Lo Hobbit e la filosofia, In te c’è più di quanto tu creda e soprattutto C’era una volta… Lo Hobbit. Senza per questo dimenticare Lo Hobbit annotato di Douglas Anderson, l’edizione definitiva del romanzo grazie al consistente apparato di note esplicative.
L’edizione che ho preso a riferimento è quella Bompiani del 2012, che presenta la traduzione di Caterina Ciuferri, non quella storica Adelphi di Elena Jeronimidis Conte: ho preferito così perché, a parte la trasformazione di qualche toponimo (Bosco Atro è diventato Boscotetro e l’Archepietra è tradotta Arkengemma), i nomi sono stati rimessi al loro posto, soprattutto i troll che nella vecchia traduzione erano diventati dei misteriosi Uomini Neri, mentre sono stati fatti sparire i poco verosimili alimenti come la pizza e il mascarpone (quest’ultimo ha lasciato posto ai fiocchi di crema di latte). Anche il ritmo e lo stile, nella traduzione di Caterina Ciuferri, sono meno legati alla tradizione italiana e più vicini al modello anglosassone. Non me ne vogliano i sostenitori della vecchia edizione Adelphi, che aveva anche delle intuizioni notevoli: per esempio Forraspaccata, nome escogitato da Elena Jeronimidis Conte per rendere l’originale Rivendell, era a mio giudizio una variante molto più bella di Gran Burrone della traduzione del Signore degli Anelli di Vittoria Alliata (recentemente Ottavio Fatica ha proposto il più convincente Valforra).
Ho cercato di mettere in luce come, attraverso la fiaba e la capacità di riplasmare il patrimonio delle leggende nordiche, Tolkien cerchi di trasmettere valori etici importanti come la lealtà, l’onore, il coraggio, la clemenza, la generosità e l’umiltà, ma soprattutto l’apertura al diverso: il romanzo è permeato da una critica all’immobilismo, alla diffidenza e alla chiusura verso gli altri. È la stessa cosa che ritroviamo nelle parole dell’elfo Gildor a Frodo nel Signore degli Anelli: “Il mondo intero è tutt’intorno a voi: potete chiudervi dentro la Contea, ma non potete chiudere fuori il mondo per sempre”. Non ci si può nascondere dalle influenze del mondo esterno, pensare di vivere nel migliore dei mondi possibili e che l’orizzonte si esaurisca poco oltre il proprio giardino o con il fiumiciattolo dietro casa.
Solo mettendosi in gioco, andando al di là dei propri pregiudizi e delle proprie idee di vita comoda, e aprendosi ad altri universi valoriali diversi dai nostri, sarà possibile mettersi in viaggio e forse scoprirsi eroi, riuscendo a portare indietro qualcosa dal nostro viaggio e a ristorare il mondo.

sabato 13 novembre 2021

Paolo Mieli - L'arma della memoria

 

Historia magistra vitae è una frase che è bella da ricordare ma che non serve a nulla. Spesso i vincitori si fanno tornare i conti e aggiustano le cose a danno dei vinti e si ricostruisce il passato proprio e collettivo a proprio uso e consumo, semplificando e creando categorie, prime fra tutte quelle di “buoni” e “cattivi”. Invece un “onesto uso della memoria” comporterebbe un continuo mettere in dubbio ciò che già si sa del passato per andare al di là e scoprire ancora meglio le ragioni del presente. Ecco perché gli studi fatti durante l’obbligo scolastico decenni fa non sono più attuali, perché i libri di testo spesso datati ed edulcorati ed esemplificano fenomeni molto complessi. A spiegarlo è ancora una volta Paolo Mieli in questo L’arma della memoria, che è ancora una volta una raccolta di articoli e recensioni come per altro fanno in molti (ed è quindi inutile bollarla come un’operazione “di cassetta”) e per giunta è espressione di quello che viene dipinto come il principale intellettuale organico al sistema, che sulla televisione di Stato intende spostare gli equilibri della divulgazione storica a destra o a sinistra a seconda della convenienza. Curiosamente, questi suoi articoli sono uno dei modi più interessanti per parlare di storia e di ragionare come la ricerca storica evolva nel tempo, alla luce delle nuove scoperte e interpretazioni. A ben guardare, sin da subito Mieli è molto attento a rivendicare la serietà e l’importanza del mestiere dello storico contro le derive fin troppo comuni della nostra società: il complottismo, «cioè la pretesa di modificare i termini della discussione con l’inserimento di tesi suggestive ancorché indimostrabili» su una presunta Grande Cospirazione Mondiale, e il trasferimento del dibattito storiografico nelle aule di giustizia e nelle carte dei magistrati su fatti sui quali neanche gli storici di professione sono riusciti a fare luce in modo definitivo.

Mieli affronta quindi molti dei luoghi comuni che popolano il nostro immaginario in quanto frutto di revisioni del passato e creazione di miti intoccabili funzionali all’interesse del momento o per avvalorare le proprie tesi politiche o religiose, come l’idea che prima dell’avvento della modernità nel mondo si stesse tutti fermi: in realtà ci si muoveva continuamente, soprattutto nel Medioevo (sovrani, ecclesiastici, politici, dignitari, soldati, studenti, mercanti), mentre a paralizzare tutto furono le guerre napoleoniche a inizio Ottocento. La realtà è sempre più complessa di come la si vorrebbe raffigurare: valgano gli esempi degli ambigui rapporti tra Europa medievale e Impero bizantino fino alla sua caduta, il supposto conservatorismo di Metternich, l’11 settembre del 1683 (l’assedio di Vienna) quando i turchi commisero l’errore di pensare che il mondo cristiano fosse un’unità compatta e non divisa al suo interno. E bisogna anche diffidare delle “leggende nere”, valgano per tutte quella creata dai gesuiti del complotto giansenista per la distruzione della Chiesa a quella della decadenza e corruzione dei gesuiti stessi in seguito al loro scioglimento nel 1773, diffusa dai loro nemici illuministi: in realtà, i problemi erano di natura politica e trovano la loro origine dalla situazione del Sudamerica e dalla schiavizzazione degli indios. Neanche il Risorgimento è così caratterizzato da bianchi e neri: si prenda l’esempio dell’insubordinazione di Garibaldi che culminò in uno scontro sull’Aspromonte con l’esercito regio, oppure quello del tanto calunniato Regno delle Due Sicilie dei Borbone, che non fu così reazionario come è sempre stato dipinto: anzi, fu capace di inglobare istanze legittimiste e altre provenienti dal precedente regime murattiano, mantenendo (a differenza dei tanto celebrati Savoia) le riforme del decennio napoleonico. Allo stesso modo, non è vero che i liberali meridionali fossero affratellati dalla comune fede politica risorgimentale, così come non è vero che i cattolici erano tutti antiunitari.

Da sottolineare anche la storia del Trattato teologico-politico di Spinoza del 1670, un appassionato tentativo di esercitare la libertà di pensare propugnando un clima di tolleranza e del tentativo di bloccarlo da parte delle gerarchie religiose calviniste olandesi, che non potevano tollerare i dubbi sollevati sulle Sacre Scritture. Nel caso di Galileo, invece, bisognerebbe tenere conto che la questione è stata cambiata radicalmente, tanto che nell’immaginario collettivo lo scienziato è considerato solo un anticlericale che si scontra con «filosofi testardi» e «preti che vomitano fuoco», sminuendo di molto la ricchezza del personaggio, genio eclettico sia matematico che umanista. Inoltre, la sua opera fu dichiarata eretica nel 1616 ma due secoli dopo il problema dell’eliocentrismo si ripropose per il Sant’Uffizio con un’altra opera di Giuseppe Settele che provocò una prima crepa nella censura cattolica e fece cambiare idea in una lettura tradizionale delle Sacre Scritture ma non contraria alla fede. E si arrivò così a Leone XIII che stabilì, pur senza nominare Galileo, che Dio non insegnava fisica tramite Mosè, e quindi il Concilio Vaticano II con la riapertura del caso e la commissione di studio istituita da Giovanni Paolo II.

Una consistente parte del volume è dedicata agli ebrei, ai loro rapporti con l’Islam che prima in qualche modo garantì i loro diritti come dhimmi ma poi li espulse dalla Spagna musulmana; questione molto interessante è la tesi che presenta i rapporti degli ebrei con i re medievali che caratterizzò larga parte della storia degli ebrei europei che cercarono con questa “alleanza regia” di sfuggire ai potenti locali e all’ostilità nei loro confronti: solo uno Stato centralizzato poteva garantire e appoggiare i loro diritti, ritenendo che ci avrebbero pensato gli Stati a debellare l’antisemitismo. Con il risultato che nel corso dei secoli la fedeltà agli Stati e ai loro apparati e l’appoggio dato all’unificazione di Paesi come Italia e Germania fece sì che si coagulasse contro di loro un antisemitismo che otteneva l’assenso dell’opinione pubblica, perché gli ebrei venivano visti come i principali rappresentati dello Stato. Ma è singolare il capitolo sul comportamento di Hannah Arendt durante il processo Eichmann, al centro del suo famosissimo La banalità del male: la Arendt mancò dall’aula per buona parte del processo, mise in cattiva luce i poliziotti israeliani e i Consigli ebraici ed equiparò i sionisti ai nazisti, anche se alla fine fu favorevole alla pena di morte.

Interessantissima la questione della pluralità dei Rinascimenti non solo europei: per l’Italia e l’Europa, infatti, c’è chi fa iniziare il Rinascimento con Petrarca, con la caduta di Costantinopoli (1453) o con la scoperta dell’America (1492), ma altri Paesi e altre civiltà hanno avuto in altre epoche il loro Rinascimento, inteso come apertura verso la modernità, mentre oggi osserviamo come il Giappone, le “tigri asiatiche” e probabilmente anche la Cina «siano all’avanguardia della modernità, anche se apparentemente non hanno mai avuto un loro Rinascimento. Apparentemente, appunto». Una questione che si inserisce nel più complesso tema della storiografia globale e non eurocentrica: nonostante i proclami, gli storici hanno in qualche caso manifestato una maggiore attenzione al resto del mondo, ma hanno sempre ricondotto il tutto alle leggi ferree dell’eurocentrismo. 

Potrà non piacere, ma Mieli è il primo a denunciare l’egemonia che gli storici di sinistra hanno esercitato e tendono a esercitare sulla storia della Resistenza e dei rapporti dei partigiani con gli Alleati (l’uccisione del filosofo fascista Giovanni Gentile rientrerebbe in questo gioco molto pericoloso), ed è abilissimo nel districare gli attriti tra Mussolini e il re nella singolare diarchia che per vent’anni ha retto l’Italia. Allo stesso tempo sottolinea l’occasione non colta dal duce nei confronti dei Paesi anglosassoni, quando riuscì a godere di prestigio presso Churchill in ottica antisocialista e il suo modello corporativo fu visto favorevolmente da Roosevelt. Tra gli altri problemi affrontati, il terrificante microcosmo delle navi negriere con mortalità elevata anche per gli equipaggi, la trasversale riabilitazione di Attila, la bufala del carteggio Mussolini-Churchill.

martedì 12 ottobre 2021

Emmanuel Carrère - Yoga

 

A prescindere dal mio difficile rapporto con Emmanuel Carrère, questo Yoga è un libro strano. Quello che doveva essere un saggio sullo yoga come disciplina (non un’attività ginnica trendy ma una galassia profonda che deve essere conosciuta e approfondita) è in realtà un progetto fallito perché si è ibridato con tutta una serie di avvenimenti ed esperienze personali (la morte del suo editore, il divorzio dalla moglie, la caduta nella depressione, il ricovero in un reparto psichiatrico e l’elettroshock) e di eventi della storia mondiale di questi ultimi anni (gli attentati a Charlie Hebdo e al Bataclan, i campi dei migranti in Grecia). Ne viene fuori un’opera disorganica e frammentata in equilibrio tra la serenità e la sofferenza, la vita e la morte, la realtà e la menzogna. E di menzogna si è parlato molto a proposito di questo libro perché Carrère ha sempre detto che la letteratura è un ambito nel quale non si può mentire e invece in questo caso ha cancellato la presenza della moglie durante il suo ricovero (c’era un contratto che prevedeva non si parlasse di lei), quindi lo scrittore è stato il primo a contraddire la sua stessa deontologia professionale. Aggiungiamoci poi che i due mesi di volontariato da lui descritti in un campo di accoglienza greco per rifugiati afghani erano in realtà due giorni. E così c’è gente che si è detta scandalizzata per questo tradimento (non si mente sui migranti!) e ha rivelato di aver buttato via la sua copia di Limonov. Sai che novità, come se la letteratura non mentisse mai e Carrère non avesse mai inventato o ricamato sulla sua vita trasformandola in fiction: anche in Limonov Carrère parlava di se stesso attraverso un altro, e ne Il Regno parlava di San Paolo ma in realtà parlava di San Emmanuel Carrère. In questo senso Yoga è un libro molto più onesto perché fa finalmente quello che Carrère ha cercato di fare altrove, cioè mettere in scena se stesso come protagonista della vicenda, con l’ambizioso e narcisistico fine di ottenere il pieno riconoscimento come intellettuale (colto e molto radical chic). Si tratta di autofiction a tutto tondo, un racconto interiore finalizzato più alla rappresentazione di se stessi che al superamento dei propri fantasmi (le depressione dev’essere una brutta bestia). È scritto molto bene e risulta come sempre godibile, anche se può dare sui nervi.

sabato 18 settembre 2021

Umberto Eco - Il superuomo di massa

 

Credete ingenuamente che i prodotti pop siano banali e non politicamente impegnati? Niente di più erroneo, spiega Umberto Eco in questo suo Il superuomo di massa, raccolta di saggi tra la narratologia e la semiotica che risale alla metà degli anni Settanta e che è tesa a dimostrare come, secondo la dichiarazione di Gramsci, il superuomo nietzschiano non si trova in Zarathustra ma prima nel Conte di Montecristo di Dumas. Insomma, il superomismo è nato nella letteratura prima che nella filosofia e segue dei precisi pattern che si ripetono da due secoli. L’analisi di Eco (intellettuale sempre molto aperto al legame tra cultura alta e cultura bassa) riguarda il romanzo d’appendice o popolare: popolare non nel senso di prodotto per il popolo in quanto massa non istruita, ma genere rivolto a tutti e dalle tematiche di interesse collettivo. A differenza del romanzo problematico, il romanzo popolare blandisce il suo pubblico, dà al pubblico quello che esso si attende e finisce esattamente come tutti desiderano che finisca, una conferma delle convinzioni del pubblico di destinazione. Per questo il romanzo popolare è il genere consolatorio per antonomasia, e quindi populista e demagogico: abbonda di luoghi comuni, caratteri prefabbricati, schematizzazioni, stereotipi privi di penetrazione psicologica come nelle favole, e «di soluzioni precostituite, atte a procurare al lettore la gioia del riconoscimento del già noto», e questo a dispetto delle sue rivelazioni e dei suoi incredibili colpi di scena. Tutto deve necessariamente ritornare alla condizione di partenza, senza mutamenti, pacificando il lettore: se il romanzo popolare denuncia le contraddizioni e le storture della società, al tempo stesso offre però soluzioni consolatorie, facendo intervenire un elemento a sanare la piaga e a vendicare le vittime, oltre che il lettore turbato. Ma attenzione: romanzo popolare non significa romanzo “brutto”, perché «nel far questo metterà in opera una tale energia, sprigionerà una tale felicità, (...) da procurare piaceri che sarebbe ipocrita nascondere».

Attraverso l’esame di autori come Balzac, Dumas e Sue, e di opere come I misteri di Parigi, I Beati Paoli Il Conte di Montecristo, ed eroi come Rocambole, Arsenio Lupin (modello spregiudicato e salottiero del romanzo reazionario del primo Novecento) e Tarzan, Eco mette in luce come il feuilleton tragga spunto dalle condizioni del proletariato e sottoproletariato, un universo manicheo dove gli umili sono insidiati dai potenti e salvati solo dall’intervento del Superuomo, capace di ristabilire l’ordine e vendicare i più deboli. Una soluzione autoritaria paternalistica, autogarantita e autofondata, che agisce contro le regole consuete, anche complottando all’interno di società segrete. Modello del vendicatore è Edmond Dantès, protagonista del Conte di Montecristo ed eroe dai tratti byroniani che si circonda i delinquenti, assume hashish e ha persino una schiava. Questo è però solo il primo periodo del romanzo popolare, quello romantico-eroico dell’Ottocento, piccolo-borghese e artigiano-operaio: in realtà ce ne sono altri due. Quello di fine Ottocento, borghese, populista, imperialista, reazionario, razzista e antisemita, in cui «il personaggio principale non è più l’eroe vendicatore degli oppressi, ma l’uomo comune, l’innocente che trionfa dei suoi nemici dopo lunghe traversie». C’è poi un terzo periodo, quello “neo-eroico” di inizio Novecento, che «vede in scena gli eroi antisociali, esseri eccezionali che non vendicano più gli oppressi ma perseguono un loro piano egoistico di potere: sono Arsenio Lupin e Fantômas». E c’è un particolare che è importante sottolineare: il romanzo d’appendice è servito da modello come impresa editoriale e come schema narrativo-ideologico, andando così a costituire una categoria di fondamentale importanza nell’analisi del romanzo come genere letterario.

Il saggio è veramente approfondito e ben scritto, e offre a Eco l’opportunità di lasciar trasparire la sua conoscenza enciclopedica della materia trattata, senza per questo condannare i vari autori per le loro idee: valga per tutti il capitolo su Pitigrilli (scrittore anarco-conservatore per non dire qualunquista nella sua crociata contro la categoria antistorica degli “imbecilli”), che critica ma allo stesso tempo offre giustizia a un autore che meriterebbe una riscoperta, capace di trattare con disinvoltura libertina e intento moralistico i miti della società in cui viveva. Altre volte fa sorridere quando parla dell’omosessualità latente di Tarzan che ignora le profferte femminili per trovare una sorta di compensazione nell’«abbarbicarsi a un altro corpo nudo virile nell’enfasi della lotta». Infine, un saggio su James Bond e le strutture narrative dei romanzi manichei di Ian Fleming: prestante, duro, freddo e affascinante, Bond si contrappone a un malvagio straniero (anche ebreo, negro o un mix di elementi slavi, latini e tedeschi), mostruoso e sessualmente inabile (o masochista), e a una minaccia globale che nella maggioranza dei casi concerne con il nucleare. Ovviamente c’è poi una giovane donna in gravi ambasce che alla fine della missione sarà ben contenta di consolare il nostro eroe e di curare le sue ferite (seppure lui sia destinato a perderla), il tutto in un complesso intreccio in termini di gioco (c’è sempre una partita a carte) secondo una ripetizione di mosse e coppie combinatorie: «il piacere del lettore consiste nel trovarsi immesso in un gioco di cui conosce i pezzi e le regole – e persino l’esito – traendo piacere semplicemente dal seguire le variazioni minime attraverso le quali il vincitore realizzerà il suo scopo», e questo perché tipico del romanzo giallo (popolare, proprio come quello d’appendice) «non è la variazione dei fatti, quanto piuttosto il ritorno di uno schema abituale nel quale il lettore possa riconoscere qualcosa di già visto cui si era affezionato».

sabato 4 settembre 2021

Michel Houellebecq - Estensione del dominio della lotta

 

Breve romanzo d’esordio di Michel Houellebecq in parte autobiografico che rilegge il suo periodo da programmatore informatico come esperienza esistenziale ma che, come prova lo stesso titolo da pamphlet, Estensione del dominio della lotta, fa da manifesto programmatico della poetica dell’autore. Totalmente nichilista, racconta in prima persona la storia di un protagonista trentenne sociopatico che non riesce a tessere relazioni con altre persone (soprattutto di genere femminile), soffre del male di vivere, ha una forte depressione. Siamo nei territori della pura letteratura del disagio. La trama è molto labile e noi entriamo nella testa del personaggio, espediente che permette di raccontare l’ambiente intorno a lui, cioè una società capitalista, ultraliberale e disumanizzata («A Parigi si può anche schiattare in mezzo alla strada, a nessuno gliene fotte niente») che obbliga tutti a conformarsi alla “norma” e a dedicare l’intera propria vita al lavoro e al falso liberalismo sessuale. Molto interessante a questo proposito la critica alla falsa moltiplicazione di libertà portata dalla società dell’informazione funzionale alla logica capitalistica dello sfruttamento dei desideri, come prova la figura del collega convinto «che la libertà non sia altro che la possibilità di stabilire diverse interconnessioni tra individui, progetti, organismi, servizi» e che «il massimo di libertà corrisponde al massimo di scelte possibili». Siamo schiavi, e l’unica vera libertà diventa quella di dedicarsi al fumo. Alla fine, ci si trova davanti a una denuncia dell’occidente contemporaneo fatta di solitudine, noia, rapporti fasulli, insofferenza e indifferenza anche verso se stessi: nulla è sacro (la chiesa edificata nel luogo del rogo di Giovanna d’Arco definita «un ammasso di tavelle di cemento stranamente ricurve e per metà sprofondate nel suolo») e niente sembra avere senso, nemmeno quella lotta che è caratteristica fondamentale della frenesia della vita, del lavoro, della carriera e del sesso (tutte regolate dalla cosiddetta “legge del mercato”). Nemmeno la psicanalisi può qualcosa: «Spietata scuola di egoismo, la psicanalisi sfrutta con agghiacciante cinismo le brave figliole un po’ smarrite e le trasforma in ignobili bagasce dall’egocentrismo delirante, incapaci di suscitare altro che un legittimo disgusto. Non bisogna accordare la minima fiducia, in nessun caso, a una donna che sia passata per le mani degli psicanalisti. Meschinità, egoismo, ottusità arrogante, totale assenza di senso morale, incapacità cronica di amare: ecco il ritratto esaustivo di una donna “analizzata”». E lo stesso protagonista finisce in cura psichiatrica per essere “ricentrato su se stesso”, prima di trasformarsi (forse) in un folle che uccide donne anziane nelle campagne. Meglio quindi rompere gli stereotipi dentro cui siamo costretti e che costringono la nostra vita e le nostre relazioni, ricorrendo al paradosso («l’uomo è un adolescente menomato») e all’ironia ghignante come nel caso del crudo ritratto della brutta e grassa compagna di classe, il cui nome – ironia della sorte – era Brigitte Bardot; oppure in quello del racconto sugli animali intitolato Dialoghi tra uno scimpanzé e una cicogna che dovrebbe essere «un pamphlet politico di inaudita ferocia». Anche se pagine come quella del conoscente che, per vendicarsi di una delusione in discoteca, vuole uccidere una ragazza e il ragazzo nero che gliel’ha portata via, ma poi li vede insieme in spiaggia, si masturba e si sfracella con la macchina, raggiungono livelli di squallore esistenziale veramente degni di nota.

venerdì 3 settembre 2021

Umberto Eco - Costruire il nemico

 

C’è bisogno di qualcuno da odiare perché è sempre difficile costruirsi un’identità. Senza arrivare alla citazione dell’esistenzialista Sartre secondo cui “gli altri sono l’inferno” (gli altri non sono noi, quindi sono insopportabili), è importante trovare un nemico per stabilire e consolidare un’identità di nazione, di patria, di gruppo. Se questo nemico non c’è, bisogna costruirlo. Lo spiega Umberto Eco in questo Costruire il nemico, piccolo testo-conferenza a cavallo tra la sociologia e comunicazione che riprende le sue teorie già espresse nel romanzo Il cimitero di Praga (che all’epoca non mi piacque per niente) e spiega le strategie utilizzate per cavalcare ansie, paure e angosce della nostra società. E questo non da oggi, ma dal tempo dei greci e dei romani: ci sono gli immigrati, i musulmani, i fascisti, i comunisti (che mangiano i bambini), gli zingari (che i bambini li rubano), gli ebrei (che i bambini li uccidono), gli eretici, le donne, le streghe, anche l’alunno che non si allinea agli altri (il malvagio Franti del libro Cuore, che viene esposto per sempre al pubblico disprezzo perché non confacente al modello di regole dell’Italia postunitaria e postrisorgimentale). Da qui la necessità di fare la guerra a questo nemico per potersi compattare: il nemico è il diverso da noi, non condivide i nostri valori, è uno sciatto depravato e compie veri e propri delitti, e questo si traduce in differenze anche dal punto di vista fisico, e per questo non corrisponde all’idea di bello e buono già propria dei greci: brutto e cattivo sono due aggettivi sempre uniti, e per questo il nemico non solo è brutto ma è mostruoso, detestabile e puzzolente (all’inizio della Prima Guerra Mondiale, i francesi per esempio sostenevano che il tedesco medio produceva più materia fecale del francese, e di odore più sgradevole). Senza andare troppo indietro nel tempo, tutte queste caratteristiche le troviamo già in Rosa Klebb, la perfida nemica di James Bond, russa, sovietica, mostruosa, puzzolente e per giunta lesbica. Alla fine, ci si rende conto che l’invenzione dei Due Minuti d’Odio, la pratica collettiva esercitata dal governo del Grande Fratello nel romanzo 1984 contro il malvagio Goldstein, è stata veramente un colpo di genio da parte di George Orwell.

Joël Dicker - L'enigma della camera 622

 
Con questo L’enigma della camera 622 Joël Dicker ci regala un altro volume fluviale, un altro giallo, ma anche un romanzo autobiografico e metatestuale. Un romanzo contaminato, che può sembrare un po’ cervellotico ma che allo stesso tempo risulta decisamente affascinante. Per la prima volta nei romanzi di Dicker, il protagonista è proprio Joël Dicker, non un suo pseudonimo come Marus Goldman, e la vicenda non è ambientata più negli Stati Uniti ma nella natia Svizzera, tra Ginevra e Verbier (paese delle Alpi svizzere): qui scopre che all’Hotel des Bergues manca la stanza 622, sostituita dalla 621 bis. Insieme a un’altra ospite, Scarlett, comincia a indagare e scopre che è tutto legato a un omicidio irrisolto: il tutto gira intorno alla presidenza di una banca, la Ebezner, la cui presidenza si è tramandata fino a ora direttamente di padre in figlio ma ora improvvisamente affidata alla decisione del consiglio di amministrazione: protagonisti della rivalità per la successione sono Macaire Ebezner (l’erede di buona famiglia sottovalutato da tutti) e Lev Levovich (l’orfanello che vuole fare carriera e affermarsi in società), i quali per giunta ambiscono alla stessa donna, Anastasia. Oltre a loro ci sono il tenebroso uomo d’affari, i segreti delle banche, i servizi segreti, avvelenamenti, mascheramenti, doppi e tripli giochi, con colpi di scena e personaggi che sembravano secondari ma si rivelano per nulla tali: e di personaggi ce ne sono tantissimi, compreso il personale dell’albergo di Verbier. C’è addirittura l’idea del patto col diavolo, anche se si rimane sempre su un piano molto reale. A differenza de La verità sul caso Harry Quebert e La scomparsa di Stephanie Mailer, questa volta la vicenda narrata è molto più vicina a Il libro dei Baltimore perché la componente investigativa è molto ridotta ma abbonda il racconto di come le dinamiche familiari, le aspirazioni, il potere e i soldi possano portare a un punto di non ritorno. Per il resto la struttura è la stessa degli altri romanzi perché resta la contrapposizione tra cose successe nel passato (anche su più livelli temporali) e quello che succede nel presente, con un continuo saltare da un piano all’altro come se fosse una matrioska: inutile dire che la cosa aumenta l’intrigo ma fa anche perdere la pazienza, perché come al solito Dicker (che scrive benissimo) tende a tirarla pedissequamente per le lunghe e a perdersi nell’ammirazione della sua stessa bravura (fino a oltre la metà del libro non viene nemmeno rivelata l’identità della vittima della camera 622, e anche questo lascia spazio a tutta una serie di congetture da parte del lettore). L’esile cornice autobiografica offre a Dicker l’occasione di ragionare sulla narrativa e di parlare del suo rapporto con la scrittura e soprattutto con l’editore Bernard de Fallois, recentemente scomparso, che l’ha preso sotto la sua ala protettiva (e si sente sinceramente quanta stima e nostalgia ci sia per questo personaggio da parte di Dicker): in questo senso la figura del mentore e dello scrittore sono assolutamente reali, anche se c’erano già ne La verità del caso Harry Quebert con nomi diversi.

venerdì 30 luglio 2021

Giuseppe Cruciani - I fasciovegani

 
Avete presente Giuseppe Cruciani, quel furbissimo e abilissimo provocatore che conduce La Zanzara insieme a David Parenzo? Qualche anno fa una delle sue principali imprese è aver fatto infuriare i vegani mangiando carne di coniglio e brandendo un salame in studio, e da questa storia ci ha addirittura tratto un libro, I fasciovegani. Chi sono costoro? Degli estremisti intolleranti che credono di essere in possesso della Verità e di doverla imporre a tutti gli altri: non mangiare più la carne e tutti i derivati animali. Non solo: costoro paragonano lo sterminio degli animali da parte dell’industria delle carne a quello degli ebrei da parte dei nazisti (curiosamente le stesse cose che si dicono oggi sul vaccino e sul Green Pass) e giungono ad accusare i carnivori di essere complici di un assassinio perché mangiano un animale. Le critiche di Cruciani sono motivate da convinzioni ultraliberali e antidittatoriali, anche perché il nostro dice che la scelta individuale non è in discussione e riconosce che ognuno in privato fa quello che vuole ed educa i figli come vuole (a patto di assumersene le responsabilità): diverso è imporre la propria visione agli altri accusandoli di compartecipazione in un crimine cruento. Non si tratta più di salute, ma di etica e filosofia (caratteristiche del tutto umane, non animali), tanto che, da parte dei fasciovegani, è tutto un augurio di sofferenze, tumori e morti dolorose a macellatori, chef, cacciatori e toreri, oltre che invocazioni di sterminio dell’umanità da parte di un cataclisma (meglio sopravvivano solo gli animali, perché almeno loro sono buoni). Curiosamente, le più scatenate sono le donne, spesso «madri di famiglia, ragazze e signore che nei loro profili su Facebook mettono foto dolcissime con cani e gatti addosso. Immagini di felicità, di spensieratezza, di affetti», segno di un malessere profondo della società che nasconde un sacco di rabbia e rancore (ancora, come nel caso dei vaccini e del Green Pass). Cruciani passa quindi in rassegna i più famosi esponenti della galassia veg, come Red Ronnie (convinto che si faccia meglio l’amore da vegani che da carnivori), Red Canzian (quello che sostiene che maiali sono più intelligenti dei bambini di tre anni perché hanno abilità nei videogiochi) e Daniela Martani (l’attivista che sostiene che perfino le gelaterie vanno chiuse e che bisogna invitare i titolari delle macellerie a cercarsi un’altra attività più in linea con i diritti “umani”). Alla fine, si prova qualche ragionamento sul fatto che l’allevamento intensivo, quando condotto nel rispetto delle regole, svolge una funzione essenziale per fornire la carne alla società occidentale, a prezzi sostenibili da tutti e non soltanto da pochi; a far riflettere è piuttosto il fatto che, a fronte di una diffusione che corrisponde al 10% scarso della sua rappresentatività rispetto alla popolazione italiana, la politica utilizzi le spinte animaliste come fattore di propaganda, come provano l’utilizzo di agnelli da parte sia di Laura Boldrini sia di Silvio Berlusconi come calamita pubblica delle istanze animaliste.

sabato 24 luglio 2021

J.R.R. Tolkien - The Hobbit. Audiolibro letto da Andy Serkis

 

Tutti conosciamo Andy Serkis: autore di grande spessore, ha il merito di aver interpretato alla grande il personaggio di Gollum nelle trasposizioni cinematografiche dell’opera di Tolkien da parte di Peter Jackson. Proprio Serkis, nel maggio 2020, in pieno lockdown, ha eseguito una lettura dal vivo senza interruzioni di 12 ore del libro Lo Hobbit per raccogliere fondi per la pandemia (e ha raccolto più di 400.000 dollari), e in seguito ha registrato un audiolibro, The Hobbit appunto. Ed è notizia di pochi giorni fa che proprio Serkis è al lavoro per realizzare un nuovo audiolibro del Signore degli Anelli, leggendo l’intera trilogia, segno che l’operazione deve aver avuto successo. E a piena ragione. Non arriviamo ai livelli di straordinarietà di un prodotto pur non professionale come quello di Phil Dragash sul Signore degli Anelli su YouTube (che includeva anche rumori ambientali e la colonna sonora del film, cosa impossibile in un prodotto ufficiale tenendo conto di quanto costano i diritti, e infatti glielo hanno rimosso), ma anche qui Serkis fa tutte le diverse voci, in modo tale che ogni personaggio abbia la propria personalità e sia facilitato nell’immersione della storia, cosa che a mio avviso costituisce il valore aggiunto degli audiolibri. Sentire poi Serkis che torna a interpretare il personaggio di Gollum è sempre un’emozione. È inutile negare il rapporto con la trasposizione cinematografica di Jackson, e non potrebbe essere altrimenti visto che Serkis, oltre che il personaggio di Gollum, è stato regista della seconda unità di regia de Lo Hobbit: le canzoni (come quella dei nani) sono quelle del film di Peter Jackson, così come la caratterizzazione dei personaggi (oltre all’ovvio Gollum, anche Gandalf assomiglia molto a Ian McKellen e Bilbo a Martin Freeman, ma pensiamo anche a Beorn). Ai nani viene spesso dato un accento scozzese, ma è con i cattivi che Serkis dà il meglio: gli orchi, i ragni e il drago Smaug, con i quali gioca spesso su tonalità basse e gutturali. Se siete tolkieniani e capite l’inglese, l’ascolto è obbligato.

mercoledì 30 giugno 2021

Emmanuel Carrère - Il Regno

 

Un libro strano questo Il Regno, che nasce dall’esperienza di sceneggiatore da parte di Emmanuel Carrère di quel capolavoro che è la serie Les Revenants: in fondo la pretesa è la stessa, raccontare i giorni prima della fine, la resurrezione dei morti e il Giudizio universale, con una comunità di eletti che si forma intorno a un evento stupefacente. Infatti, questa volta la pretesa è niente meno che quella di raccontare il cristianesimo delle origini, nato intorno alla resurrezione di Gesù Cristo, nella Francia di oggi, ovvero il Paese più scristianizzato del mondo. Ma, come nell’eccezionale Limonov, non si riesce a capire dove finisca l’argomento trattato e dove incominci la vita dell’autore, e viceversa. Sembra quasi che il dandy e problematico Carrère, figlio dell’élite culturale parigina, non possa fare a meno di parlare narcisisticamente di se stesso. Sin dalle prime pagine di questo voluminoso librone non ha timore di definirsi un radical chic per il quale il corso di yoga della domenica mattina ha preso il posto della messa, durante la quale i credenti recitano il Credo, «ogni frase del quale è un insulto al buonsenso». Il suo approccio è quello del classico agnostico alla ricerca della Verità, che si vergogna troppo a credere alla religione e tenderebbe a irridere chi lo fa, ma non lo fa perché si vergogna anche di questo e perché sarebbe troppo scortese. D’altra parte, suo padre (un po’ voltairiano, un po’ maurrassiano, non marxista ma d’accordo coi marxisti) la domenica lo portava a messa e si dispiaceva che la messa non fosse più in latino perché «in latino non ci si accorgeva che scemenza fosse». In realtà Carrère ha alle spalle un’esperienza cristiana: “iniziato” dalla madrina Jacqueline, poetessa e autrice di buona parte dei canti religiosi che si sentono nelle chiese francesi dopo il Concilio Vaticano II, è stato cristiano per un certo periodo tra il 1990 e il 1993, particolare che lo porta ancora a subire le battute sarcastiche dei figli. In quel periodo, oltre ad andare a messa tutti i giorni, ha addirittura commentato ogni giorno qualche versetto del Vangelo secondo Giovanni, arrivando a riempire una ventina di quaderni. Ex convertito, ex credente, agnostico di ritorno, ha anche una solida amicizia con Hervé Clerc, teista esoterico e “buddista parziale”, e tutti questi particolari (per tacere dei rimandi a Philip K. Dick, autore di culto del Nostro, e dei problemi incontrati con la babysitter) danno l’idea di quanto l’autobiografia entri prepotentemente nella raffinata prosa di Carrère e nell’analisi dell’argomento trattato.

Ma a cosa allude Il Regno del titolo? A quello dei cieli, che poi è quello che Gesù spiega nelle parabole, il Regno di Dio che poi allude anche al Regno d’Israele. Seguendo un certo filone della storiografia marxista, Carrère sostiene neanche troppo velatamente che il vero fondatore del cristianesimo è stato San Paolo, l’apostolo dei gentili, dogmatico e granitico, poco interessato a Gesù ma assolutamente convinto della sua missione di evangelizzatore e di sistematizzatore della nuova religione e della sua Chiesa: all’epoca era considerato solo un agitatore, ma poi la storia, dopo la distruzione di Gerusalemme, lo ha trasformato nel capo (ormai morto) di una chiesa degiudaizzata. Per questo Carrère analizza l’intero corpus delle lettere paoline, contrappone Paolo a Giacomo come Stalin a Trotskij, parla del rapporto tra Paolo e l’evangelista Luca, il medico macedone che segue Paolo di Tarso per terra e per mare e gli dedica poi la sua prima biografia, e cioè gli Atti degli Apostoli, mescolando vero e verosimile: Carrère lo affronta come un autore che spesso inventa e aggiusta la narrazione a seconda delle sue esigenze, si rivede in lui, si immedesima con lui e diventa lui, colmandone vuoti e incongruenze. Ed è bene sottolineare che Carrère, ex cristiano ma ora agnostico, crede alla storicità di Gesù ma non crede alla Resurrezione o alla verginità della Madonna, anche se in fondo vorrebbe farlo, perché il suo è un viaggio nella religiosità di un uomo con tutti i suoi dubbi, il suo ego e le sue fragilità e che accetta di non sapere, senza scadere nel dogmatismo o nella cieca adesione a un credo. D’altronde, è più importante il viaggio che la meta, e a Carrère la storia sembra sempre narrativa e ogni volta che ha che fare con il periodo romano gli sembra di entrare in un fumetto di Asterix, e la vita di Gesù è stata straordinaria ed è stato ucciso per aver detto di essere il figlio di Dio, «anche se non ci sono prove che lo fosse realmente». E poi esistono delle similitudini tra la scomparsa del suo corpo dal sepolcro e quella del corpo di Bin Laden voluta dagli americani per evitare il culto jihadista. Anzi, Carrère non si risparmia nemmeno vere e proprie blasfemie, come quando ipotizza che Maria abbia avuto le sue esperienze sessuali e si sia masturbata come tutte le donne: a questo proposito, il Nostro confessa il suo amore per la pornografia e racconta il video di una brunetta che si masturba davanti a una telecamera da rivedere infinite volte e da condividere con sua moglie. Troppa grazia.

Affastellando fonti e saggi storici, dalla Bibbia dei Settanta (prima versione in greco dell’Antico Testamento) alle persecuzioni cristiane sotto Nerone e Diocleziano, passando per la Guerra giudaica di Flavio Giuseppe e l’intero corpus di lettere paoline, non manca nemmeno di fare riferimento al mito greco di Ulisse e Calipso, definita «il prototipo della bionda, quella che ogni uomo vorrebbe farsi ma non necessariamente sposare, quella che apre il gas o ingoia un tubetto di sonniferi la notte di Capodanno mentre l’amante festeggia in famiglia». Perché in fondo Ulisse è Carrère (sempre lui), che ha trovato casa con la seconda moglie a Patmos, dove San Giovanni (sempre che sia lui, e non un altro Giovanni) ha scritto l’Apocalisse. Eh sì, perché intanto il matrimonio con la prima moglie è naufragato, vittima sacrificale della religione e della psicanalisi. Tra i tanti momenti di cazzeggio non mancano nemmeno cose interessanti, come la notazione che il greco del Vangelo di Marco sembra l’inglese di un tassista di Singapore. E così, alla fine di questi Atti degli Apostoli secondo l’evangelista Carrère che finiscono per assomigliare a un grande feuilleton colto a base di intrighi, scontri e amori incestuosi, resta una domanda: a cosa credeva il Nostro tra il 1990 al 1993 quando è stato cattolico praticante e andava a messa tutti i giorni, arrivando perfino a sposare in chiesa la madre dei suoi primi due figli con rito melchita celebrato al Cairo da un prete vallone? La fascinazione del mistero, forse. Ma in maniera non troppo convinta, perfetta per questa epoca in cui ognuno dice di credere “a modo suo” e “Gesù si, Chiesa no”.

mercoledì 9 giugno 2021

Howard Phillips Lovecraft - L'ombra su Innsmouth

 

Senza alcun dubbio, L’ombra su Innsmouth, tradotta anche come La maschera di Innsmouth, è da annoverare tra i capolavori di Lovecraft. È uno di quei racconti che distillano in modo irripetibile la “cartografia sinistra” del New England che il Solitario di Providence ha così accuratamente disegnato nelle sue opere. La trama non è troppo originale, anche se satura di riferimenti autobiografici e angosce personali: un uomo (alter ego dello stesso Lovecraft) decide di fare una gita a Innsmouth, cittadina immaginaria della zona di Providence di cui si sussurrano cose terribili. Una volta giunto sul posto scopre non solo che la città (sonnolenta e torbida e con le case sordide come doveva essere la provincia americana di quei tempi) è in mano a una razza di ibridi fra gli umani e orribili creature marine, ma che lui stesso porta nel suo sangue la “Maschera di Innsmouth”, il marchio del DNA alieno, che potrebbe essere interpretata come una tara genetica, a carattere ereditario, frutto di un’ibridazione della specie (vista con orrore da un razzista come Lovecraft), che deforma i lineamenti e cagiona difetti fisici, ma sempre in relazione ad antichi culti giunti da lontano che sono espressione di diversità aliena, incomprensibile agli occhi umani e alla razionalità umana: anche quando parla di un’antica tiara custodita nel museo si dice che fa riferimento a una tecnica sconosciuta a tutti i continenti, quasi provenga da un altro pianeta. Questi difetti finiscono per attecchire, quasi fossero una contaminazione radioattiva, corrompendo l’ambiente fisico. Innsmouth è un catalizzatore di orrore: prima ancora che il protagonista giunga con la corriera a vederlo coi propri occhi dai finestrini sporchi, Innsmouth è malvagia, aliena, sconosciuta e incomprensibile nei racconti dei testimoni. Non per niente è da Innsmouth che proviene Asenath Waite, la dark lady degli inferi del racconto La cosa sulla soglia, uno dei pochi personaggi femminili creati da Lovecraft, colei che comincia a controllare sempre di più il marito e a praticare su di lui esperimenti di mesmerismo telepatico e scambi di personalità, tanto da trasformarlo anche nella psiche e nel corpo. Dal punto di vista stilistico, Lovecraft mantiene sempre il suo approccio scientifico: il protagonista si avvicina a Innsmouth con rigore e perizia quasi etnografica, prendendo informazioni geografici, storici e culturali (analizza perfino i manufatti provenienti dalla città). La genialità sta poi nel far venire a galla tutto il mistero attraverso il plot device di far narrare al protagonista la storia della cittadina da un barbone alcolizzato, Zadok Allen. Tutto, o quasi tutto, quello che avviene di orrendo avviene fuori campo, appena intravisto, ma non per questo fa meno paura. E la cosa peggiore è la scoperta che non solo là fuori ci sono i mostri, ma siamo mostri pure noi: i mostri sono la maschera di qualcosa di malsano che alligna tra le nostre radici personali e sociali.

martedì 8 giugno 2021

Arturo Pérez-Reverte - Il Club Dumas

 

Era il 2003 quando scoprii Arturo Pérez-Reverte, divorando il suo Il Club Dumas in soli tre giorni. Poi ho letto molti altri suoi romanzi, ma il primo amore non si scorda mai: un thriller letterario e libresco che mi sono riletto con estremo gusto e soddisfazione e ho maturato la convinzione che non sia invecchiato di un giorno. Il protagonista, Lucas Corso, è un cacciatore di libri mercenario per conto di ricchi collezionisti in cerca di edizioni introvabili o manoscritti unici. È un cinico solitario con l’hobby dei giochi da tavolo sulle battaglie napoleoniche (un suo avo è stato granatiere e fervente bonapartista): ovviamente, essendo un cacciatore di libri, ha una cultura immensa e la letteratura è il suo universo di riferimento, ma è anche un lavoro e questo si tramuta per lui in un rapporto di odio/amore che aumenta il suo cinismo. Corso da una parte si ritrova davanti al misterioso suicidio per impiccagione di un editore di ricette gastronomiche con la passione per i romanzi d’appendice che possedeva (e aveva tentato di vendere) una copia manoscritta de “Il vino D’Angiò”, 42° capitolo de I tre moschettieri di Alexandre Dumas; dall’altra invece viene incaricato da un altro cliente di reperire tutte le tre copie esistenti di un diabolico testo di occultismo in grado di evocare il demonio, Le nove porte del regno delle ombre stampato a Venezia dal tipografo Aristide Torchia bruciato sul rogo a Campo de’ Fiori nel 1667. Quindi nel primo caso deve stabilire l’autenticità del Dumas per conto del suo nuovo acquirente, nel secondo deve recuperare le tre copie del volume per stabilire quale sia l’originale e quali le copie (pare che l’originale sia stato scritto da Belzebù in persona).

Tra indagini, omicidi e depistaggi fra Toledo, Lisbona, Parigi e Meung, mentre Corso è accompagnato da una misteriosa ragazza (diavolo o angelo custode?) con un’ottima cultura e uno strano senso dell’umorismo, le due vicende si intrecciano in modo tanto oscuro che non si capisce bene quale sia la trama principale, se quella legata al capitolo di Dumas o quella della ricerca del libro esoterico. Anzi, Corso deve affrontare una serie di avventure rocambolesche simili a quelle affrontate dal giovane d’Artagnan alle prese con una Milady e un Rochefort che lo conducono nelle spire del Club Dumas del titolo, una serie di fanatici de I tre moschettieri che vivono in una contemporaneità plasmata su ruoli e situazioni del romanzo, trasformandola (e trasformando quella di chi incontrano) in un gigantesco feuilleton vivente simile a un gioco di ruolo. Questo non è un particolare di poco conto, visto che il film che da questo romanzo è stato tratto, La nona porta di Roman Polanski, non funziona proprio perché elimina del tutto la faccenda del Club Dumas e conserva solo l’indagine esoterica, quella di più facile presa per lo spettatore (che magari non conosce I tre moschettieri), e quindi tradisce profondamente il romanzo di Pérez-Reverte.

Siamo nell’ambiente dei bibliomani fanatici, gente disposta a tutto per mettere le mani su un manoscritto o una prima edizione e che fonda cose tipo la Confraternita degli Arpionieri di Nantucket; per non parlare del libraio che ha imparato a scrivere mentre suo padre gli dettava i testi di Azorín e utilizza il suo periodare con molti e punti a capo per sedurre le clienti nel retro della sua libreria dove conserva i classici erotici; o il ricorso alla terminologia militare delle battaglie napoleoniche per descrivere Corso che fa cilecca a letto. Anche il punto di vista del personaggio utilizzato per raccontare la storia è assolutamente centrato e motivato, alla luce della costruzione generale dell’opera. Numerosissime sono le dissertazioni letterarie sul feuilleton, sul romanzo popolare o d’appendice, sui cattivi più memorabili, sugli incipit più folgoranti, su Dumas, Paul Féval, Ponson du Terrail, Arthur Conan Doyle ed Edgar Allan Poe: tutto questo sancisce il potere dei libri nella vita degli uomini e la creazione di una dimensione parallela in cui verità e finzione coesistono, esattamente come i libri che aprono all’abisso e all’inconcepibile. La stessa ragazza che accompagna Corso si presenta come Irene Adler, l’unica donna a essere riuscita a far innamorare di sé Sherlock Holmes, e sul suo passaporto riporta come indirizzo di casa il 221b i Baker Street (la casa di Sherlock Holmes).

Tutto questo fa de Il Club Dumas un parente molto prossimo de Il nome della rosa di Umberto Eco (tra l’altro citato esplicitamente): come Guglielmo da Baskerville, Corso trova i moventi dei fatti negli altri testi, come se i testi fossero dei misteri ermetici da decifrare, perché “i libri, spesso, parlano di altri libri”. E dal gioco intertestuale parte quello bibliografico: sono infiniti i dettagli e i riferimenti di una sterminata bibliografia di testi più o meno antichi (e più o meno esistenti), dentro cui è possibile trovare ragioni e moventi del reale. Leggetelo, magari scoprirete che anche la vostra vita è un grande ed entusiasmante feuilleton.

giovedì 6 maggio 2021

Aldo Cazzullo - A riveder le stelle

 
Il 2021 è un tripudio di celebrazioni per il 750° anniversario della morte di Dante Alighieri; abbiamo da poco celebrato il Dantedì, fissato il 25 marzo nel giorno in cui il poeta avrebbe iniziato il viaggio narrato nella Divina Commedia. Si registra un rinnovato interesse per l’argomento e da più parti fioccano le ricorrenze che ci mostrano statue e immagini con l’inconfondibile profilo del poeta (anche se, da quel che diceva il suo primo biografo, Giovanni Boccaccio, e di un ritratto custodito nella stanza del sindaco di Orvieto, Dante aveva la barba, particolare inconcepibile in quanto “rivoluzionario”). Qualche mese fa sono usciti il bellissimo volume di Alessandro Barbero, una biografia storica su Dante capace di raccontare il suo tempo anche attraverso i suoi versi e le posizioni da lui espresse nelle sue opere, e questo A riveder le stelle di Aldo Cazzullo, una rilettura dell’Inferno dantesco che si fa apprezzare per il taglio divulgativo. La cosa singolare è che Cazzullo è un giornalista che si è occupato spesso di identità italiana: anche in questo caso, come si vede dal sottotitolo “Dante il poeta che inventò l’Italia”, Cazzullo vuole ripercorrere il viaggio nell’aldilà di Dante come un vero e proprio viaggio in Italia, soffermandosi in tutti i luoghi che Dante cita e mettendoli in collegamento con quello che sarebbe successo nei secoli dopo fino a oggi (soprattutto nel Risorgimento, nella Prima e nella Seconda Guerra Mondiale). Per Cazzullo l’Italia non nasce da accordi diplomatici o politici ma dall’arte, dalla cultura e dalla bellezza, un’idea molto romantica che ne fa l’erede dell’impero romano e della classicità (Virgilio, Ovidio, Orazio) e la terra dei papi e della cristianità. Per questo il viaggio di Dante non è solo Paolo e Francesca, Farinata degli Uberti, Brunetto Latini, Pier delle Vigne, il Conte Ugolino (che comunque nel libro ci sono e vengono tutti inquadrati nel loro contesto di riferimento), ma è anche e soprattutto un viaggio in Italia, di cui Cazzullo mette in mostra ogni angolo: Scilla e Cariddi, l’Etna, il Golfo del Quarnaro, il Lago di Garda, l’Arsenale di Venezia, le città della Toscana, Roma. In questo suo viaggio Cazzullo cita di tutto, da Battiato e Venditti a Harry Potter, per mostrare come Dante è un fenomeno pop, ancora attualissimo e citato (più o meno consapevolmente) da tutti. Lo stesso Virgilio, che nel poema ha il ruolo di guida, è diventato il nome di un motore di ricerca. Dante parla soprattutto di noi: “Nel mezzo di cammin di nostra vita” indica che si rivolge non solo all’Italia del suo tempo ma a un’Italia eterna, popolata degli stessi vizi (la divisione, la corruzione) ma anche con virtù straordinarie. Abbracciamoci e vogliamoci tanto bene: all’epoca siamo riusciti a superare la peste nera e abbiamo inventato il Rinascimento, oggi riusciremo a uscire dal Covid. Inventando l’Italia, Dante ci ha datò un’idea di noi stessi, e oltretutto ha inventato l’italiano, come si vede dalle sue espressioni entrate nell’uso comune come “se ne sta sola soletta”, “l’inferno non la tange”, il “bel Paese”, essere “degno di nota”, “cosa fatta capo ha”, oltre al famosissimo “e quindi uscimmo a riveder le stelle” che dà addirittura spunto per il titolo del volume. Noi parliamo come Dante, quindi pensiamo come Dante, senza neanche rendercene conto. Qua e là si leggono cose che non si vorrebbero leggere, tipo quando Cazzullo scrive che Colombo che raggiunse il Nuovo Mondo per dimostrare che la Terra era rotonda e dimostra così di non aver ascoltato le conferenze di Alessandro Barbero sulle bufale sul Medioevo (nessuno a partire dall’antichità, eccezion fatta per gli americani, ha mai pensato che la Terra fosse piatta). Affascinante però l’interpretazione del canto di Ulisse per cui Ulisse è Dante, l’uomo che non torna a casa ma supera le Colonne d’Ercole ed esplora un mondo sconosciuto. Non manca neppure una nota sul proto-femminismo di Dante, particolare che si vede in una concezione molto moderna della donna, capace di salvare il genere umano.

mercoledì 5 maggio 2021

Beppe Severgnini - Interismi / Altri interismi / Tripli interismi! / Eurointerismi

    
Ora che l’Inter ha rivinto lo Scudetto mi sono passati davanti agli occhi gli avvenimenti, i protagonisti e gli incubi dell’ultima infausta decade nerazzurra: i due passaggi societari (da Moratti a Thohir, da Thohir a Suning), le battaglie per il decimo posto, Inter-Udinese 2-5, il Beer Sheva, il Divino Jonathan, Taider, Kuzmanovic, Shaqiri, Juan Jesus, Mazzarri, Kondogbia. Ora che Antonio Conte ha fatto il miracolo (senza un portiere, senza un esterno sinistro, senza rincalzi e soprattutto senza proprietà), tutte queste cose hanno un sapore agrodolce, ma non hanno chissà quale significato di redenzione: tifare per l’Inter è spesso un incubo, e nessuno si può illudere che una vittoria significhi l’apertura di un ciclo. Anzi. Piuttosto, la vittoria del diciannovesimo scudetto è stata l’occasione per rispolverare i mitici volumi di Interismi di Beppe Severgnini, ormai quattro nel corso degli anni (Interismi, Altri interismi, Tripli interismi e Eurointerismi) e usciti in svariate edizioni antologiche. Interismi è quindi un’opera unica e antologica, un romanzo di formazione, una lettura colta e ironica, che magari non tutti apprezzeranno per la sua pretesa di reagire con il sorriso intellettuale alle sventure patite sul campo di gioco e alla caduta nell’irrazionale. D’altra parte, lo stesso titolo Interismi è abbastanza significativo perché, in fondo, il tifo (soprattutto quello per l’Inter), è isterismo, uno psicodramma che per decenni ha originato (e continuerà a farlo) derisioni e sbeffeggiamenti. La cosa singolare, infatti, è che dell’Inter si ricordano più spesso le sconfitte che le vittorie, perché l’Inter «è una forma di allenamento alla vita»: non appena ne assapori una, devi entrare nell’ordine di idee che non ne otterrai altre per molto, molto tempo. Un po’ «come permettere a un adolescente di baciare una ragazza, e poi dirgli di scordarsi della faccenda fino alla laurea». E spesso queste sconfitte sono solo colpa nostra. La “Pazza Inter” è stata sempre capace di complicarsi la vita, di ottenere vittorie complicate quando sarebbero state invece semplicissime o di cadere in sconfitte rocambolesche, di cocente delusione in cocente delusione: per non parlare di quando vinse ad Highbury contro l’Arsenal 3-0 nel 2003 e poi crollò subito in campionato con immediato esonero dell’allenatore Hector Cuper.

È perfettamente logico quindi che il libro di Severgnini parta dalle sconfitte più cocenti (il 5 maggio 2002, la semifinale di Champions contro il Milan del 2003) e arrivi al più grande trionfo mai raggiunto da una squadra italiana, il Triplete del 2010, il momento in cui il popolo nerazzurro ha pregustato le gioie della Gerusalemme Celeste e l’Inter è forse diventata una squadra antipatica. In maniera più o meno cronologica (si tratta pur sempre di raccolte di articoli usciti in particolari circostanze) vengono ripercorsi i regni di vari allenatori (il gaucho senza sorrisi Cuper, il realista Zaccheroni, il dandy Mancini, l’irraggiungibile Mourinho), tutti caratterizzati da peculiari caratteristiche umane e professionali. Forse oggi molte cose, come le tirate contro il traditore Ronaldo Coniglio Mannaro o le interviste inventate (ma assolutamente credibili) con Peppino Prisco, oppure la descrizione dei vari giocatori del periodo 2001-2003, diranno poco ai nuovi tifosi che non hanno idea di cosa succedesse ormai vent’anni fa, anche se è sempre geniale la caratterizzazione di Cuper ed Emre come Guglielmo da Baskerville e il novizio Adso da Melk del Nome della Rosa (in un altro punto si dice che Emre è un hobbit). Altrove l’Inter è l’occasione per parlare d’altro, come del campionato argentino dove il nostro ipotizza un gemellaggio con il Vélez Sarsfield, altra nobile decaduta capace di complicarsi la vita da sola; o per stilare classifiche di profili di giocatori dai nomi improbabili come Horst Hrubesch, «scaricatore di porto da 1,88 per 88 chili, fu scambiato per un attaccante. Nel nome il suono di un cingolato-anfibio-trasporto-truppa». Non manca la puntata sul tifo violento (l’omicidio Raciti) e su Calciopoli, cartina di tornasole per capire come funziona l’Italia, il paese dell’indignazione e dell’assoluzione, del “che male c’è a rubare? Tanto lo fanno tutti!” in assenza di qualsiasi scusa da parte dei diretti interessati.

Perno e origine di tutto è la contrapposizione manichea tra Juve e Inter, «una contrapposizione come Hegel e Kant, Coppi e Bartali, Fellini e Visconti, Usa e Urss, Apple e Microsoft, Beatles e Rolling Stones, yin e yang, caffè e tè, limone e latte». Un’incompatibilità ontologica, che pesa anche sul destino degli allenatori. La Juve è come i cani e Parigi, solida e rassicurante, l’Inter è come i gatti e Londra, fascinosa e imprevedibile. La Juve è Achille (forte, permaloso e furbetto), l’Inter Ettore (bello, valoroso e masochista). La Juve è un investimento, l’Inter una forma di gioco d’azzardo. Gli juventini sono neoclassici e positivisti, gli interisti idealisti e romantici, con una punta di decadenza. La Juve è protestante, l’Inter è cattolica («caduta, pentimento, assoluzione, sollievo, estasi, nuova caduta»). Per questo la vera rivale dell’Inter non è il Milan, squadra metodista che vince i campionati senza neanche accorgersene, ma sempre e solo la Juve: resta l’impressione che la Juve sia l’origine del male, il Sauron del Signore degli Anelli (particolare da non sottovalutare, per un tolkieniano come me), ma allo stesso tempo che sia necessaria. Juve e Inter si tengono vicendevolmente, quasi rappresentassero l’una il lato oscuro dell’altra.

È ovvio che in simili ragionamenti i tifosi, specie i più stagionati, si ritroveranno, ripercorrendo tappe della loro vita che si credevano dimenticate. Come già notava Nick Hornby, calcio è bello perché, anche nella sofferenza presente, permette di immaginare un lieto fine: ogni stagione è una ripartenza, una promessa di felicità, anche se si ha la sventura di essere interisti. E quel lieto fine è arrivato: la sera di Madrid, il momento più grande in assoluto, difficilmente ripetibile, che ha riconciliato i tifosi nerazzurri con il calcio e con la vita in generale. Anzi, proprio in virtù della sua ironia, ci si rende conto che Severgnini ha sempre posseduto la sicurezza del saggio, visto che già nel 2002, dopo il rovescio del 5 maggio, scriveva: «Quando succederà, sarà bellissimo», e non ha cambiato idea nemmeno quando nel 2003, dopo aver regalato lo scudetto alla Juventus l’anno prima, l’Inter ha consegnato un altro scudetto alla Juve e la Champions League al Milan, dopo essere usciti in semifinale senza perdere. A volte Severgnini appare addirittura profetico quando, nel novembre 2008, scriveva: «Per quanto tempo Mourinho riuscirà a camminare sulla corda tesa attraverso il calcio italiano, tra applausi ed invidia, sguardi d’ammirazione e speranze che, prima o poi, cada di sotto? Non per molto, credo. Ma se in questo periodo vincesse due scudetti e una Champions League, diciamolo: a noi interisti andrebbe benissimo». Ora lasciatemi esultare ancora un po’.

martedì 4 maggio 2021

Michael Ende - La storia infinita

 

C’è poco da fare, il libro La storia infinita di Michael Ende mi ha stregato da sempre. È uno di quei libri che rivelano qualcosa di nuovo a ogni ulteriore lettura, soprattutto in età adulta. Ne ho già parlato QUI molti anni fa, ma ora l’ho ripreso e riletto da cima a fondo, nella sua meravigliosa veste in due colori (rosso e verde) e coi capilettera meccanici. Diffidate di chi ve lo spaccia come semplice libro per l’infanzia: La storia infinita è molto di più. All’epoca della sua uscita, anni di grande polarizzazione ideologica, Ende venne accusato di escapismo e di non affrontare i veri problemi sociali del lavoro, ma basterebbe leggerne poche pagine per capire che era esattamente il contrario e che parla di noi e del nostro mondo molto di più di quanto potrà mai fare un saggio sociologico. Rispetto a quanto già già scritto, mi sento di evidenziare questi punti:

- Il rapporto reciproco e inscindibile tra mondo reale e mondo dell’immaginazione (quelli che Tolkien avrebbe chiamato “mondo primario” e “mondo secondario”): servono persone reali per animare il mondo dell’immaginazione e serve il mondo dell’immaginazione per animare le persone reali. I due mondi si tengono, come i due serpenti che si mordono la coda del medaglione AURYN (un’ellisse con due centri). Un rapporto sbagliato e “drogato” tra questi due mondi fa sì che le creature di Fantàsia nel mondo reale divengano menzogne, ossessioni, incubi, ideologie o trovate pubblicitarie a scopo consumistico (come candidamente spiegato dal lupo mannaro Mork).
- La natura ambivalente del mondo fantastico, che dev’essere sia riepilogativa (il Vecchio della Montagna Vagante) sia creatrice (l’Infanta Imperatrice): non è possibile separare i due ambiti, altrimenti ci si condanna a un ripetitivo eterno ritorno o a una creazione priva di fondamento.
- La chiamata a dare un nome alle cose: i nomi rivelano l’essenza delle cose e permettono una nuova creazione. Bastiano è chiamato a dare un nome alle cose rinnovando Fantàsia, e la stessa cosa siamo chiamati a fare noi, in un infinito gioco metanarrativo che ci fa protagonisti della narrazione nella speranza di essere tra quelli che attraversano entrambi i mondi e li sanano.
- La necessità di aprirsi all’amore e all’altruismo: se crediamo all’inganno di Xayde che ci suggerisce di raggiungere la saggezza e la grandezza pensando solo a noi stessi finiremo per sperimentare solo delusione e amarezza.
- Il simbolismo eclettico che mescola diverse tradizioni e religioni: la tartaruga (simbolo della saggezza) che parla di nichilismo e sembra essere al di là della vita e della morte; la Torre d’Avorio dell’Infanta imperatrice che rimanda a un appellativo della Madonna e alle caratteristiche del femminile; le Paludi della Tristezza che ci parlano di depressione; il Drago della Fortuna di provenienza orientale; le sfingi simbolo egizio e provenienti dalla mitologia greca; la prova dello Specchio chiara metafora junghiana; le Acque della Vita che richiamano il battesimo. L’importanza di intraprendere un percorso di iniziazione che getta uno sguardo molto profondo sull’animo umano: Bastiano, bambino sgraziato, con le gambe storte e vittime di bullismo, ha a che fare con le dinamiche del potere, si aspetta stima e prova invidia, scopre cosa c’è nel suo io più profondo, dimostra di avere una vita interiore molto più complessa di quella noi pensiamo tipica di un bambino.

martedì 13 aprile 2021

Henry Morton Robinson - Il cardinale

  

Quando ero alle superiori mi sono imbattuto per due volte in uno strano film, uno di quelli che mandavano in onda la mattina o il pomeriggio, Il Cardinale di Otto Preminger, che poi ho scoperto essere tratto da un best seller di Henry Morton Robinson del 1950 presente nella casa di tutti i miei nonni. Mai e poi mai avrei immaginato che molti anni dopo mi sarei trovato a farne una nuova traduzione per Fede & Cultura (in uscita il prossimo autunno) che mi ha costretto a fare i conti con il testo originale e la traduzione esistente a opera di Maria Galli de Furlani uscita all’inizio degli anni Sessanta per la Garzanti: come molti libri del periodo, l’edizione italiana risultava vecchia già per quei tempi e, per giunta, sfrondava parecchie cose, riducendo sensibilmente il testo (già lunghissimo di suo) e semplificandolo a dismisura. Per esempio, cancellava quasi tutti i riferimenti alla società e alla cultura americana, soprattutto allo sport (football e baseball da quelle parti la fanno da padroni), limitandosi a fare qualche vago parallelo calcistico: in quegli anni gli italiani non erano così avvezzi a cogliere simili particolari come invece lo siamo noi oggi, sventurati figli dell’omologante e malvagia cultura anglosassone della globalizzazione. È interessante però notare come gran parte dei tagli della vecchia traduzione riguardassero le scene ambientate in Italia durante il fascismo: si era subito dopo la guerra e forse bisognava tacere molti particolari scomodi, oppure semplicemente alleviare il ricordo di avvenimenti dolorosi.

Chiariamo subito una cosa: non si tratta di grande letteratura, né di una lettura devota o spirituale: è un bestseller fluviale di 70 anni fa, lungo quasi 800 pagine, con i suoi pregi e i suoi difetti, profondamente cattolico, che racconta la vicenda sacerdotale e umana di Stephen Fermoyle dall’ordinazione fino alla nomina cardinalizia (come si evince dal titolo: il cardinale è lui). Comincia nel 1915, quando il giovane sacerdote sta attraversando l’oceano sul transatlantico italiano Vesuvio (era l’epoca dei transatlantici!) per tornare nella natia Boston. È stato assegnato come vicario parrocchiale nella chiesa di un sobborgo a forte immigrazione italo-irlandese dove abita anche la sua famiglia di origine. Da qui viene raccontata tutta la sua carriera tra speranze, incomprensioni, tentazioni, crisi, dolori: la formazione filosofico-letteraria di Stephen entra in conflitto con il vescovo di Boston, che lo considera troppo ambizioso e per questo decide di affidargli un incarico marginale: occuparsi di una piccola parrocchia franco-canadese per aiutare un vecchio parroco in difficoltà a causa dell’età e degli acciacchi. Non solo Stephen si sottomette ma porta a compimento il tutto nella maniera migliore, tanto da venire preso dallo stesso arcivescovo come segretario personale e poi suo conclavista (arrivati a Roma dopo una difficile traversata oceanica, i due riescono solo a osservare da spettatori la fumata bianca per l’elezione di Pio XI; per il cardinale, che avrà un collasso, è la seconda volta che succede, ma la terza volta ci riuscirà). Stephen sarà poi assistente alla Segreteria di Stato, assistente del legato apostolico a Washington, vescovo a Hartfield, quindi arcivescovo e cardinale fino all’elezione di Pio XII e a una nuova traversata atlantica che porterà il nuovo cardinale Fermoyle negli Stati Uniti mentre nuove nubi minacciose preannunciano la Seconda Guerra Mondiale.

Mescolando realtà e immaginazione, il romanzo presenta moltissimi personaggi reali, storici ed ecclesiastici, come Mussolini, Merry del Val ed Eugenio Pacelli. Stephen Fermoyle attraversa un intero mondo di varia umanità e viene a contatto con un’infinità di problemi concreti e situazioni che riguardano parrocchiani, conoscenti o familiari. Robinson è sempre attento alle questioni sociali e morali del tempo che spesso investono la stessa sfera del privato e della famiglia, come si vede nel caso di due episodi emblematici in cui una donna muore di parto (problema molto sentito all’epoca). Nel primo, il cognato medico di padre Stephen rifiuta di praticare durante il parto la craniotomia a un bambino con la testa troppo grossa: per un cesareo è troppo tardi e quindi la donna muore di parto e muore anche il bambino, e Stephen difende il medico perché ha agito secondo l’insegnamento della Chiesa cattolica. Il secondo episodio vede coinvolto direttamente Stephen che si trova presente quando sua sorella Mona, la sua preferita, sta per partorire dopo che è fuggita di casa ed è rimasta incinta fuori dal matrimonio: il medico è sempre suo cognato (ma non il marito di Mona) e, vista la situazione particolare, si dimostra disponibile a effettuare la craniotomia sul bambino per salvare la madre e chiede il permesso a Stephen. Questi, preso dalla disperazione, non se la sente di opporsi alla dottrina della Chiesa. Ovviamente, si vedrà chiaramente il bene di questa decisione, visto che la figlia che nasce da questo parto, Regina, riceverà ogni benedizione e si affermerà come incredibile pianista.

Tra le problematiche del tempo, Stephen si ritrova addirittura impegnato in una missione nel profondo Sud preda della miseria e delle scorrerie del Ku Klux Klan, organizzazione che odiava (e credo odi ancora) i cattolici almeno quanto gli afroamericani e gli ebrei: proprio il Klan lo rapisce e lo frusta per fargli rinnegare la sua religione, in una delle scene più drammatiche del libro. Sorprendentemente per il 1950, nonostante una certa critica nei confronti dei protestanti, l’ecumenismo e il dialogo interreligioso giocano un ruolo molto importante nel romanzo, trovando il culmine nel congresso di preghiera interconfessionale di New York al quale Stephen è inviato in rappresentanza del delegato apostolico (il nostro finisce per sedersi accanto a un solitario rabbino per scoprire di avere molto in comune con lui). Inoltre, come arcivescovo, Stephen scrive una lettera ai fedeli della sua diocesi ammonendoli a non usare la contraccezione artificiale e viene immediatamente criticato dal precursore di Planet Parenthood (è curioso che le critiche contro una Chiesa non al passo con i tempi da parte della stampa siano le stesse di oggi). Ovviamente, Stephen lotta come tutti contro le tentazioni della sessualità, specialmente nei confronti della nobildonna romana Ghislana Falerni (dipinta come una specie di femme fatale), fino a quando non si reca in un monastero benedettino per un rigenerante ritiro spirituale sotto la direzione di un monaco sismologo. E non manca nemmeno il tema dell’omosessualità sacerdotale, alluso nel personaggio di padre “Milky” Lyons, uno dei tre sacerdoti con cui vive Stephen durante il suo primo incarico: non solo è sempre ritratto come effeminato, ma quasi come se non avesse mai superato l’adolescenza. Più tardi, centinaia di pagine dopo, quando un gruppo di cattolici americani (prelati, sacerdoti, religiosi e laici) si reca in pellegrinaggio a Roma per l’Anno Santo 1925, Stephen chiede notizie di Milky Lyons al suo ex parroco, il quale risponde: «Ah, povero Milky, è diventato malinconico tra di noi». E il narratore commenta: «Nella forza resiste chi resiste. Nella debolezza cade chi cade». Un altro religioso che “cade” nel corso del romanzo è Lew Day, monaco fallito e chierico della chiesa di St. Margaret che si occupa di mantenere pulita la parrocchia e rammendare vecchi paramenti, ostensori, statue, candelabri e corredi sacri: dopo l’apertura di una scuola parrocchiale affidata a una comunità di suore, Lew Day si ritrova senza lavoro e, nella disperazione, si impicca. Scene umanamente molto tristi che in qualche modo restano impresse per il loro esito drammatico.

Ma il romanzo è anche e soprattutto una riflessione sulla fedeltà alla Chiesa cattolica, alla sua dottrina e alla propria patria: Stephen è un prete coraggioso che si batte personalmente per aiutare il prossimo, dice sempre quello che pensa ai superiori e ama la democrazia al punto da farsi grande sostenitore di Pio XI nel cercare la pace mondiale e denunciare il nazifascismo. Per questo Robinson insiste molto sulla relazione (difficile e problematica, ma fruttuosa e migliorabile) tra Chiesa americana e Santa Sede («i due punti di vista devono essere riconciliati. L’energia americana, istruita e guidata da Roma, potrebbe essere il fattore decisivo dei difficili anni che si preparano», spiega il cardinale Quarenghi): la democrazia è la forma politica che maggiormente si avvicina al Vangelo ed è sostenuta dal Nuovo Mondo, in possesso di un’energia che è ormai sconosciuta alla vecchia Europa (ricordiamo che il romanzo è scritto da un americano), e per questo Pio XI intuisce di dover stabilire nuovi ponti con la parte del mondo più vitale ed emergente. Certo, Robinson cita il cardinale Gibbons e la sua “via americana” al cattolicesimo (Gibbons sosteneva che il potere spirituale e il potere politico dovessero restare ben distinti e che il papa non dovesse intromettersi in questioni di carattere temporale) e mette in guardia dalle facili lusinghe del consumismo e del capitalismo, tanto che mette in scena la Grande Depressione scaturita dalla Crisi del 1929 e anticipata da funesti presagi in una società che ha perso il contatto con la realtà.

Dal punto di vista formale e linguistico, Il cardinale non brilla certo per innovazione nemmeno nella sua edizione originaria americana, anzi, si presenta come un romanzo difficile, arcaico e a tratti legnoso anche per l’epoca in cui è stato scritto. Aggiungiamoci che è pieno zeppo di termini ecclesiastici e di temi teologici, illustrati con dovizia di particolari con chiaro intento divulgativo (per non parlare dell’italiano maccheronico utilizzato a più riprese per dare “colore” alle scene tra gli immigrati italo-americani o quelle ambientate direttamente in Italia). La struttura del romanzo non è particolarmente complessa ma presenta in successione tutta una serie di problemi con il quale Fermoyle si trova ad avere a che fare (per risolverli brillantemente): Robinson punta tutto sulla trama e l’investigazione psicologica dei personaggi, con l’efficace trovata di sublimare tutti i dubbi del suo protagonista attraverso il suo intervento nel mondo, a sottolineare come il messaggio cristiano sia fatto per calarsi nei problemi concreti degli uomini: una maturazione spirituale e umana in cui i due piani si influenzano continuamente e vicendevolmente.