
E
così siamo arrivati al secondo libro. Dopo Leggiamo insieme Il Signore degli
Anelli, di cui è in lavorazione una seconda edizione riveduta e ampliata di
30 pagine con una nuova copertina, ecco arrivare nelle librerie (poche purtroppo) Leggiamo insieme Lo Hobbit,
il fratello minore se vogliamo. Di seguito la mia introduzione che inquadra il
volume, dedicato a un romanzo ingiustamente bistrattato come opera “per bambini”
ma in realtà pieno di sorprese. Qui non c’entra la nuova traduzione di Ottavio Fatica, quindi potete anche darmi una possibilità.
Sebbene sia spesso pubblicizzato come un libro per bambini e non
sia minimamente paragonabile per ricchezza e complessità al Signore degli
Anelli (che curiosamente nacque proprio come sequel su richiesta del suo editore), Lo Hobbit accompagna la mia vita
sin dall’infanzia, cioè da quando mia mamma mi raccontava la storia di
Bilbo Baggins e del drago Smaug: la storia del punto debole nella corazza di un
drago che poi veniva colpito dalla freccia di un arciere ha sempre esercitato
un fascino irresistibile sulla mia fantasia.
Certo, è un romanzo che apparentemente si presenta come una
favola, a partire dalle storie che Tolkien raccontava ai figli, slegata dal suo
legendarium che era andato elaborando sin dal 1917: tuttavia, scrivendo Il
Signore degli Anelli, Tolkien stesso si accorse che il sequel metteva in
luce diverse incongruenze presenti ne Lo Hobbit. Non a caso nel 1951, 14
anni dopo la pubblicazione avvenuta nel 1937, apportò alla seconda edizione
alcune modifiche, tra cui la riscrittura del quinto capitolo, Indovinelli
nell’oscurità, per fornire la versione “autentica” di come Bilbo si fosse
imbattuto nell’Anello magico di Gollum. In origine, Gollum aveva messo in palio
il prezioso oggetto per il vincitore della gara di indovinelli, invece ora Tolkien
fece in modo che Bilbo lo trovasse per caso. Poi aggiunse un capitolo
esplicativo, La cerca di Erebor, per spiegare il perché della missione
dei nani e dell’aiuto di Gandalf nel quadro generale della Guerra dell’Anello,
a partire dal primo incontro tra Gandalf e Thorin a Brea.
Gli venne addirittura in mente di riscrivere
il romanzo con lo stile del Signore degli Anelli, ma abbandonò il
progetto e in questo modo preservò il fascino dell’originale. Un po’ lo
stesso problema davanti a cui si è trovato Peter Jackson quando si è trovato a
dover realizzare la sua seconda trilogia dopo aver già raggiunto il successo
con quella del Signore degli Anelli: in qualche modo il regista
neozelandese ha tentato di fare quello che Tolkien non aveva potuto, cioè rendere
tutto più epico e meno favolistico, ma soprattutto coerente con lo stile
caratteristico degli altri film.
Lo Hobbit rimane una deliziosa favola caratterizzata da
elementi tipici delle fiabe: i nani, il drago, un tesoro conteso da recuperare,
fughe a rotta di collo, episodi di metamorfosi, foreste piene di pericoli e
animali parlanti. La struttura è quella classica della Cerca (in questo caso la
ricerca di un tesoro) e dell’archetipo letterario del viaggio dell’eroe che
torna con degli oggetti magici (l’Anello) e una consapevolezza nuova. Lo dice
espressamente lo stesso Tolkien all’inizio della sua narrazione: “Questa è la storia di come un Baggins ebbe
un’avventura e si trovò a fare e dire cose del tutto imprevedibili. Può anche
aver perso il rispetto del vicinato, ma guadagnò… be’, vedrete voi stessi se
alla fine guadagnò qualcosa”. D’altra parte, il sottotitolo originale, There
and Back Again, cioè Andata e ritorno (sempre ignorato dalle
edizioni italiane che l’hanno trasformato prima in La riconquista del tesoro
e poi in Un viaggio inaspettato), allude proprio a questo: alla crescita
del personaggio e alla sua trasformazione, alla scoperta del ruolo che è
chiamato ad assumere nonostante il suo conformismo e la sua scarsa propensione all’avventura.
Bilbo è l’esempio di come persone ordinarie siano capaci di
realizzare grandi imprese e di diventare addirittura sagge, adattandosi alle
situazioni e affrontandole con pazienza. Lo stregone Gandalf e i nani gli fanno
intraprendere un’avventura che lo metterà a contatto con molte prove e
difficoltà e lo porteranno a capire che nella vita c’è molto di più che agio e
comodità. Ovviamente lo hobbit non è l’unico personaggio che cambia all’interno
dell’avventura: si pensi al nano Thorin, che cede alla cupidigia e alla
malattia del drago in un alternarsi di luci e ombre, caduta e redenzione.
Soprattutto, l’umorismo e le frequentissime intromissioni del
narratore, il familiare “che lo crediate o no”, le ricapitolazioni introdotte
dal “come ricorderete” e le parentesi destinate a far ridere il lettore,
contribuiscono forse a rendere Lo Hobbit l’opera tecnicamente meglio
scritta tra quelle di Tolkien, o almeno quella più coerente e uniforme, in
possesso dello stesso registro dall’inizio alla fine. Anzi, Tolkien non
riuscirà mai a essere più divertente di così: valga per tutti l’episodio di
Ruggitoro Tuc, pro-prozio di Bilbo, che prese parte alla carica contro le
schiere degli orchi e colpì staccando di netto la testa del re nemico con una
mazza di legno, risolvendo così la battaglia e inventando allo stesso tempo il
gioco del golf.
Ovviamente, come favola, manca la dimensione seria e tragica del
suo fratello maggiore (Il Signore degli Anelli), così come il pathos di
scene come quelle delle Miniere di Moria o del Passo di Cirith Ungol, ma non
bisogna dimenticare che il romanzo termina con la drammatica morte di Thorin e la
Battaglia dei Cinque Eserciti, cioè una guerra di carneficina a tutti gli
effetti, elemento ben poco favolistico e “fanciullesco”. Inoltre mi sembra di
poter ravvisare in nuce la stessa critica nei confronti del progresso
scientifico incontrollato che è fonte di distruzione più di quanto lo sia di
corruzione; anche la concezione di tempo individuale e tempo mitico ricorda la quella
che troveremo nel Il Signore degli Anelli.
Piuttosto, se quest’ultimo romanzo è stato vittima di una serie di
interpretazioni forzatamente allegoriche, simboliste e politiche che ne
diminuiscono il valore e la portata, Lo Hobbit ha subito invece un’operazione
di svilimento per la sua stessa natura di favola: perché infatti leggere e
considerare quello che, a conti fatti, è solo un libro per bambini? Così
facendo si dimentica che è la presenza del protagonista, un piccolo hobbit con
il panciotto e i piedi pelosi, a costituire la novità il fascino di questa
storia, gettando un ponte tra le antiche fiabe e il lettore di oggi e
configurandosi in tutto e per tutto come un romanzo moderno.
Nel mare di letteratura critica internazionale non mancano
comunque delle interessanti letture politico-economiche, che dipingono i
personaggi positivi del romanzo come paladini del libero mercato contro le
storture del capitalismo. C’è addirittura chi ha parlato di alleanza tra la
classe medio-bassa (Bilbo) e i minatori della classe operaia (i nani) in modo
da usurpare il potere del capitale parassita, che vive grazie al lavoro della
povera gente, accumulando benessere senza avere la capacità di apprezzarne il
valore (il drago).
Al di là della liceità di simili
teorie, ritengo che così facendo si rischi di perdere il senso centrale
dell’opera, che resta prima di tutto il racconto di un viaggio: in fondo, l’intenzione
di Tolkien non era quella di realizzare un romanzo allegorico o a tesi. Bisognerebbe
tenere presente che Tolkien non lavorava a partire da idee o da manifesti, ma
da parole e nomi. Certo, nel Signore degli Anelli ci sono più di 600
nomi di “persone, animali e mostri” e quasi altrettanti toponimi, con
l’aggiunta di circa duecento oggetti non classificabili ma ugualmente dotati di
un nome, mentre ne Lo Hobbit sono presenti 40-50 nomi propri inseriti in
maniera piuttosto noncurante. Un confronto tra le due opere, quindi, è
improponibile, ma il modo di approcciarsi alla narrativa è lo stesso: un
approccio filologico, che troppo spesso è stato trascurato o dimenticato.
In questa mia analisi, ho ripreso la struttura del mio precedente Leggiamo
insieme Il Signore degli Anelli, cioè quella capitolo per capitolo: nel
caso de Lo Hobbit, ogni capitolo assume un
ruolo narrativo ben preciso e si distingue per la diversa collocazione geografica
e la presenza di nuovi personaggi e nuove creature. Questo rende i diversi
capitoli dei piccoli universi a sé stanti, con le proprie prove e le proprie
problematiche, pur collegati tra loro in una struttura per nulla casuale, come
dimostrato da William Green nel suo fondamentale Lo Hobbit. Un viaggio verso
la maturità: il romanzo è popolato di doppi, in una continua simmetria
rovesciata di luoghi e situazioni, particolari che confermano la famosa
dichiarazione di C.S. Lewis per cui, solo alla dodicesima rilettura in età
adulta, Lo Hobbit avrebbe rivelato tutti i suoi livelli di lettura.
Inoltre,
proprio come nel caso di Leggiamo insieme Il Signore degli Anelli,
questo libro non porta nulla di nuovo, anzi è del tutto derivativo: mi sono
semplicemente avvalso di quanto detto dallo stesso Tolkien nelle sue Lettere e di
una serie di mostri sacri di riferimento che nel corso degli anni hanno
plasmato la mia lettura dell’opera di questo scrittore. Mi riferisco a Tom
Shippey (Tolkien autore del secolo e La via per la Terra di Mezzo),
Wu Ming 4 (Difendere la Terra di Mezzo), Brian Rosebury (Tolkien, un
fenomeno culturale) e Andrea Monda (A proposito degli Hobbit), ma
anche a raccolte come Lo Hobbit e la filosofia, In te c’è più di
quanto tu creda e soprattutto C’era una volta… Lo Hobbit. Senza per
questo dimenticare Lo Hobbit annotato di Douglas Anderson,
l’edizione definitiva del romanzo grazie al consistente apparato di note
esplicative.
L’edizione che
ho preso a riferimento è quella Bompiani del 2012, che presenta la traduzione di Caterina Ciuferri, non quella storica
Adelphi di Elena Jeronimidis Conte: ho preferito così perché, a parte la
trasformazione di qualche toponimo (Bosco Atro è diventato Boscotetro e l’Archepietra
è tradotta Arkengemma), i nomi sono stati rimessi al loro posto, soprattutto i
troll che nella vecchia traduzione erano diventati dei misteriosi Uomini Neri,
mentre sono stati fatti sparire i poco verosimili alimenti come la pizza e il
mascarpone (quest’ultimo ha lasciato posto ai fiocchi di crema di latte). Anche
il ritmo e lo stile, nella traduzione di Caterina Ciuferri, sono meno legati
alla tradizione italiana e più vicini al modello anglosassone. Non me ne
vogliano i sostenitori della vecchia edizione Adelphi, che aveva anche delle
intuizioni notevoli: per esempio Forraspaccata, nome escogitato da Elena Jeronimidis Conte per rendere
l’originale Rivendell, era a mio giudizio una variante molto più bella di Gran
Burrone della traduzione del Signore degli Anelli di Vittoria Alliata
(recentemente Ottavio Fatica ha proposto il più convincente Valforra).
Ho cercato
di mettere in luce come, attraverso la fiaba e la capacità di riplasmare il
patrimonio delle leggende nordiche, Tolkien
cerchi di trasmettere valori etici importanti come la lealtà, l’onore, il
coraggio, la clemenza, la generosità e l’umiltà, ma soprattutto l’apertura al
diverso: il romanzo è permeato da una critica all’immobilismo, alla
diffidenza e alla chiusura verso gli altri. È la stessa cosa che ritroviamo
nelle parole dell’elfo Gildor a Frodo nel Signore degli Anelli: “Il
mondo intero è tutt’intorno a voi: potete chiudervi dentro la Contea, ma non
potete chiudere fuori il mondo per sempre”. Non ci si può nascondere dalle
influenze del mondo esterno, pensare di vivere nel migliore dei mondi possibili
e che l’orizzonte si esaurisca poco oltre il proprio giardino o con il
fiumiciattolo dietro casa.
Solo mettendosi in gioco,
andando al di là dei propri pregiudizi e delle proprie idee di vita comoda, e
aprendosi ad altri universi valoriali diversi dai nostri, sarà possibile
mettersi in viaggio e forse scoprirsi eroi, riuscendo a portare indietro
qualcosa dal nostro viaggio e a ristorare il mondo.