Non sconvolgerò nessuno se dico che il recente biopic dedicato J.R.R. Tolkien è stato una delusione. Non tanto per l’assenza della religione cattolica, particolare importante nella vita di un supercattolico come Tolkien (bisogna per forza tacere per non scomodare nessuno oppure è possibile rendere interessante la fede anche per chi non ne ha?), quanto per la superficialità con cui vengono affrontati i vari periodi e i temi della sua vita. È un film che contiene al suo interno molti film, senza una vera visione unitaria o un’idea forte di regia o di sceneggiatura. Tutto è accennato superficialmente senza venire approfondito: la povertà, la differenza di classe, l’amore, la carriera universitaria, la passione per le lingue e la filologia. Ora è arrivata una graphic novel francese, Tolkien. Rischiarare le tenebre, che racconta la stessa storia del film ma con risultati di gran lunga migliori. I momenti presi in esame sono gli stessi del film (l’infanzia, la morte della madre, l’amore con la moglie Edith, il college a Oxford, l’esperienza della Prima Guerra Mondiale, fino alla genesi de Lo Hobbit) ma affronta il tutto in maniera molto più profonda e intelligente (sebbene come fumetto non sia consigliato a chi cerca solo la cosiddetta “poesia per immagini”). Si tratta di un’opera capace di introdurre anche i profani nella vita di Tolkien, riuscendo a raccontare effettivamente qualcosa di questo autore a livello personale.
Se nel film tutti i riferimenti alla vita di Tolkien che trovano un’eco poetica nella sua produzione narrativa (come la scena di Edith che danza sotto gli alberi e che ha dato origine alla storia di Beren e Lúthien) erano lasciati cadere, qui ci sono e belli evidenti. Anche qui la religione non fa la parte del leone, e se ne parla poco: si tira in ballo nel caso della madre che morì di diabete dopo aver dovuto affrontare l’ostracismo della sua famiglia a causa della sua conversione al cattolicesimo, oppure se ne fa riferimento quando una statua della Madonna è caduta da un campanile durante la Grande Guerra. Ma c’è anche una scena molto bella, quella in cui John dice Edith di aver finalmente trovato i personaggi a cui far parlare le lingue da lui inventate, gli elfi; Edith chiede che ruolo avrà Dio in tutto questo, e Tolkien le risponde: «Ma Dio ci sarà, naturalmente. Ha creato tutto questo mondo fiabesco come il nostro». Un particolare molto bello perché spiega molto bene il concetto che ha Tolkien della sub-creazione, quel mondo secondario delle storie, dei miti e delle leggende che è direttamente connesso al nostro: è Dio che permette all’uomo di creare questo mondo secondario che andrà a influenzare direttamente il mondo primario, e Dio è sempre presente, perché è Dio sia del mondo primario sia del mondo secondario. Ma c’è anche attenzione per quegli aspetti rivelati da Tolkien nelle lettere, come quando rivela che la scoperta del Kalevala finnico per lui «è stato come scoprire una cantina piena di un vino sconosciuto dal gusto straordinario. E me ne sono ubriacato». Oppure quando rivela l’intenzione di legare fra loro tutti i suoi testi (cronachisti e poetici) per dare all’Inghilterra una mitologia: è l’idea di partenza di quello che sarebbe diventato Il Silmarillion, un processo creativo che non avrebbe mai trovato una sistemazione definitiva fino alla morte del suo autore.
Rispetto al film, l’amicizia con gli altri tre amici fondamentali per la sua vita, Geoffrey Bache Smith, Christopher Wiseman e Robert Gilson, quelli con cui diede origine al sodalizio “Tea Club, Barrovian Society”, è affrontata molto meglio perché sottolinea la fellowship in senso sia umano che letterario. Gli amici continueranno a vedersi e scriversi, anche in trincea: vengono riportate tutte le loro appassionate discussioni sulla vita, l’amore, la poesia, la letteratura, che ci vengono ancora a interrogare sull’importanza e il valore dell’arte e dell’amicizia nella vita di ognuno di noi. Ovviamente ciò avviene in maniera diversa e a seconda delle propensioni di ognuno, perché tra i quattro amici c’era anche chi era musicista mentre Tolkien non era minimamente portato per la musica (come peraltro ammetteva lui stesso). E sempre a proposito di quanto l’arte influenzi la nostra vita, l’idea fondamentale che questo fumetto passa è la stessa di John Gart in Tolkien e la Grande Guerra: senza il dramma della Prima Guerra Mondiale, Tolkien non avrebbe mai scritto Il Signore degli Anelli, Lo Hobbit e i miti della Terra di Mezzo, come se la sua narrativa fosse stata il tentativo di elaborare la tragedia che aveva vissuto. Perché, se è vero che Tolkien non combatté mai in prima linea, è anche vero che lui alla battaglia della Somme c’è stato ed è stato impiegato in tutta una serie di operazioni secondarie e di raccordo tra i vari reparti. E ne ha viste di catastrofi: ha visto i lanciafiamme, i gas venefici, le granate, i carrarmati, tutte cose che poi sono state trasposte nei draghi sputafiamme, negli orchi, nei Nazgûl, oppure nella landa desolata di Mordor, riconducibile alla terra di nessuno tra le trincee, e nelle Paludi Morte, piene di cadaveri sprofondati nel fango, gli stessi in cui si era imbattuto Tolkien durante le operazioni al fronte.
All’interno della narrazione vengono ricordati anche i primi poemi scritti da Tolkien, come la prima poesia Il viaggio di Eärendel (pensiamo al ruolo che avrà il personaggio di Eärendil all’interno del Silmarillion e del Signore degli Anelli), Kortirion fra gli alberi e Habbanan sotto le stelle, tutti collocati temporalmente in quanto strettamente connessi alle contingenze storiche: anche in questo caso, la letteratura riflette la tragedia di una generazione che si trovò alle prese con il tentativo di dare un senso alla loro esperienza e una via per raccontare quella carneficina difficilmente comprensibile (e comunicabile) a chi non l’aveva vissuta. Insomma, questo Tolkien. Rischiarare le tenebre è la prova, se mai ce ne fosse stato bisogno, che Tolkien non scriveva favolette a uso e consumo di adolescenti in fuga dalla realtà, un’epica asessuata per famiglie o saghe per iniziati di massa, bensì che la sua narrativa è una profondissima rielaborazione di un dramma: la perdita degli amici e la rottura della fellowship caratterizzata da un profondissimo sodalizio umano e artistico è quella che troviamo nella Compagnia dell’Anello. Il finale è addirittura commovente: Tolkien rivede il suo vecchio amico Christopher Wiseman davanti alla tomba della moglie, una scena inventata che ripercorre e ricapitola tutta la loro vita, tanto che in ogni vignetta i due vengono ritratti a una differente età, segno che tutto si ricapitola, che ogni età dell’amicizia è stata fondamentale per diventare quello che si sarebbe diventati, e non a caso la graphic novel finisce come la citazione di Gandalf: «Tutto ciò che possiamo decidere è come disporre del tempo che ci è dato». Tolkien ha utilizzato tutto il tempo che gli è stato concesso per raccontare quello che ha vissuto, senza riuscirci fino in fondo perché la morte glielo ha impedito. Forse non ci sarebbe comunque riuscito.