giovedì 25 febbraio 2021

Will Duraffourg, Giancarlo Caracuzzo, Joël Odone - Tolkien. Rischiarare le tenebre

 

Non sconvolgerò nessuno se dico che il recente biopic dedicato J.R.R. Tolkien è stato una delusione. Non tanto per l’assenza della religione cattolica, particolare importante nella vita di un supercattolico come Tolkien (bisogna per forza tacere per non scomodare nessuno oppure è possibile rendere interessante la fede anche per chi non ne ha?), quanto per la superficialità con cui vengono affrontati i vari periodi e i temi della sua vita. È un film che contiene al suo interno molti film, senza una vera visione unitaria o un’idea forte di regia o di sceneggiatura. Tutto è accennato superficialmente senza venire approfondito: la povertà, la differenza di classe, l’amore, la carriera universitaria, la passione per le lingue e la filologia. Ora è arrivata una graphic novel francese, Tolkien. Rischiarare le tenebre, che racconta la stessa storia del film ma con risultati di gran lunga migliori.  I momenti presi in esame sono gli stessi del film (l’infanzia, la morte della madre, l’amore con la moglie Edith, il college a Oxford, l’esperienza della Prima Guerra Mondiale, fino alla genesi de Lo Hobbit) ma affronta il tutto in maniera molto più profonda e intelligente (sebbene come fumetto non sia consigliato a chi cerca solo la cosiddetta “poesia per immagini”). Si tratta di un’opera capace di introdurre anche i profani nella vita di Tolkien, riuscendo a raccontare effettivamente qualcosa di questo autore a livello personale.


Se nel film tutti i riferimenti alla vita di Tolkien che trovano un’eco poetica nella sua produzione narrativa (come la scena di Edith che danza sotto gli alberi e che ha dato origine alla storia di Beren e Lúthien) erano lasciati cadere, qui ci sono e belli evidenti. Anche qui la religione non fa la parte del leone, e se ne parla poco: si tira in ballo nel caso della madre che morì di diabete dopo aver dovuto affrontare l’ostracismo della sua famiglia a causa della sua conversione al cattolicesimo, oppure se ne fa riferimento quando una statua della Madonna è caduta da un campanile durante la Grande Guerra. Ma c’è anche una scena molto bella, quella in cui John dice Edith di aver finalmente trovato i personaggi a cui far parlare le lingue da lui inventate, gli elfi; Edith chiede che ruolo avrà Dio in tutto questo, e Tolkien le risponde: «Ma Dio ci sarà, naturalmente. Ha creato tutto questo mondo fiabesco come il nostro». Un particolare molto bello perché spiega molto bene il concetto che ha Tolkien della sub-creazione, quel mondo secondario delle storie, dei miti e delle leggende che è direttamente connesso al nostro: è Dio che permette all’uomo di creare questo mondo secondario che andrà a influenzare direttamente il mondo primario, e Dio è sempre presente, perché è Dio sia del mondo primario sia del mondo secondario. Ma c’è anche attenzione per quegli aspetti rivelati da Tolkien nelle lettere, come quando rivela che la scoperta del Kalevala finnico per lui «è stato come scoprire una cantina piena di un vino sconosciuto dal gusto straordinario. E me ne sono ubriacato». Oppure quando rivela l’intenzione di legare fra loro tutti i suoi testi (cronachisti e poetici) per dare all’Inghilterra una mitologia: è l’idea di partenza di quello che sarebbe diventato Il Silmarillion, un processo creativo che non avrebbe mai trovato una sistemazione definitiva fino alla morte del suo autore.


Rispetto al film, l’amicizia con gli altri tre amici fondamentali per la sua vita, Geoffrey Bache Smith, Christopher Wiseman e Robert Gilson, quelli con cui diede origine al sodalizio “Tea Club, Barrovian Society”, è affrontata molto meglio perché sottolinea la fellowship in senso sia umano che letterario. Gli amici continueranno a vedersi e scriversi, anche in trincea: vengono riportate tutte le loro appassionate discussioni sulla vita, l’amore, la poesia, la letteratura, che ci vengono ancora a interrogare sull’importanza e il valore dell’arte e dell’amicizia nella vita di ognuno di noi. Ovviamente ciò avviene in maniera diversa e a seconda delle propensioni di ognuno, perché tra i quattro amici c’era anche chi era musicista mentre Tolkien non era minimamente portato per la musica (come peraltro ammetteva lui stesso). E sempre a proposito di quanto l’arte influenzi la nostra vita, l’idea fondamentale che questo fumetto passa è la stessa di John Gart in Tolkien e la Grande Guerra: senza il dramma della Prima Guerra Mondiale, Tolkien non avrebbe mai scritto Il Signore degli Anelli, Lo Hobbit e i miti della Terra di Mezzo, come se la sua narrativa fosse stata il tentativo di elaborare la tragedia che aveva vissuto. Perché, se è vero che Tolkien non combatté mai in prima linea, è anche vero che lui alla battaglia della Somme c’è stato ed è stato impiegato in tutta una serie di operazioni secondarie e di raccordo tra i vari reparti. E ne ha viste di catastrofi: ha visto i lanciafiamme, i gas venefici, le granate, i carrarmati, tutte cose che poi sono state trasposte nei draghi sputafiamme, negli orchi, nei Nazgûl, oppure nella landa desolata di Mordor, riconducibile alla terra di nessuno tra le trincee, e nelle Paludi Morte, piene di cadaveri sprofondati nel fango, gli stessi in cui si era imbattuto Tolkien durante le operazioni al fronte.


All’interno della narrazione vengono ricordati anche i primi poemi scritti da Tolkien, come la prima poesia Il viaggio di Eärendel (pensiamo al ruolo che avrà il personaggio di Eärendil all’interno del Silmarillion e del Signore degli Anelli), Kortirion fra gli alberi e Habbanan sotto le stelle, tutti collocati temporalmente in quanto strettamente connessi alle contingenze storiche: anche in questo caso, la letteratura riflette la tragedia di una generazione che si trovò alle prese con il tentativo di dare un senso alla loro esperienza e una via per raccontare quella carneficina difficilmente comprensibile (e comunicabile) a chi non l’aveva vissuta. Insomma, questo Tolkien. Rischiarare le tenebre è la prova, se mai ce ne fosse stato bisogno, che Tolkien non scriveva favolette a uso e consumo di adolescenti in fuga dalla realtà, un’epica asessuata per famiglie o saghe per iniziati di massa, bensì che la sua narrativa è una profondissima rielaborazione di un dramma: la perdita degli amici e la rottura della fellowship caratterizzata da un profondissimo sodalizio umano e artistico è quella che troviamo nella Compagnia dell’Anello. Il finale è addirittura commovente: Tolkien rivede il suo vecchio amico Christopher Wiseman davanti alla tomba della moglie, una scena inventata che ripercorre e ricapitola tutta la loro vita, tanto che in ogni vignetta i due vengono ritratti a una differente età, segno che tutto si ricapitola, che ogni età dell’amicizia è stata fondamentale per diventare quello che si sarebbe diventati, e non a caso la graphic novel finisce come la citazione di Gandalf: «Tutto ciò che possiamo decidere è come disporre del tempo che ci è dato». Tolkien ha utilizzato tutto il tempo che gli è stato concesso per raccontare quello che ha vissuto, senza riuscirci fino in fondo perché la morte glielo ha impedito. Forse non ci sarebbe comunque riuscito.

martedì 9 febbraio 2021

Frank Brennand - Churchill

 
Eroe e padre della nazione britannica per aver resistito in modo indomito al nazismo sotto i bombardamenti di Londra, riconoscibile immediatamente grazie ai suoi segni caratteristici (il bastone, il sigaro, il farfallino e il cilindro), la figura di Winston Churchill è oggi fatta oggetto delle accuse della cancel culture e del Black Lives Matter che ne vogliono abbattere le statue e cancellare il ricordo in quanto cattivo, razzista e imperialista. Chissà cosa ne direbbero le vestali del politicamente corretto di questa biografia di Frank Brennand che tratta il nostro Winston come una specie di santo. Ovviamente non si tratta di una biografia recentissima, risalendo alla metà degli anni Sessanta, ma piuttosto di una vera e propria agiografia avventurosa che torna oggi alla luce grazie alla nuova edizione di Fede & Cultura e da cui si evince la simpatia sfrenata e incondizionata dell’autore nei confronti del suo protagonista (e l’antipatia nei confronti dei tedeschi, «sempre pronti a calpestare in Paesi stranieri quelle libertà e quelle conquiste sociali che non hanno mai personalmente conosciuto»). In effetti la vita di Churchill fu veramente avventurosa: ufficiale durante il regno della regina Vittoria, protagonista delle guerre coloniali in Africa, Primo Ammiraglio della marina nella Grande Guerra, parlamentare e leader del Partito Conservatore inglese, uomo delle crisi chiamato a risolvere drammatici scioperi, Primo Ministro per ben due volte, premio Nobel per la letteratura. Alcune di queste avventure sono addirittura romanzesche, come quella che lo vide corrispondente di guerra durante le Guerre Boere e guida di una squadra di volontari per rimettere un treno dotato di cannoni sui binari. Brennand realizza un racconto agile e divulgativo basato sulle testimonianze, le dichiarazioni e gli articoli dell’epoca, cosa indovinata se si pensa al fatto che Churchill è famoso per il sarcasmo e le dichiarazioni al vetriolo, e riesce a restituire un’immagine molto fluida e animata della politica inglese attraverso le sue elezioni e i suoi dibattiti (fantastico il parlamentare che, dopo un discorso di Winston, si alzò per dichiarare: «Qui termina l’ultimo capitolo del libro del profeta Geremia!»). Dove Brennand pecca è, come detto, nella profondità di analisi, facendo prevalere la sua partigianeria e affrontando di petto le critiche storiografiche (che si possono muovere anche nel caso di un personaggio di simile grandezza): se Winston non aveva sempre ragione, poco ci mancava. Il fiasco dei Dardanelli della Prima Guerra Mondiale? Un piano geniale di Winston vanificato da politicanti pavidi e pasticcioni. La gestione fallimentare della coscrizione obbligatoria e della guerra di trincea? Una cosa prevista da Winston, che invece aveva già pensato a un esercito mobile professionista. La soluzione del caso irlandese con la divisione tra il nord e il sud dell’isola? Una grande mossa di realismo politico in anni in cui bisognava dedicare le proprie forze ad altro. La sua opposizione a Gandhi e all’indipendenza dell’India? Una responsabilità di fronte agli stessi indiani di non lasciare l’India nelle mani dei bramini e di chi aveva interesse a sfruttare il lavoro. A volte Brennand ammette timidamente delle incertezze nella condotta del suo eroe, come nel caso del suo operato di cancelliere (che non fu abile ma comunque energico) o delle sue opinioni riguardo agli scioperi (da lui spesso visti come tentativo eversivo di rovesciare il governo legittimo), ma sempre ne sottolinea la buona fede e il ruolo di leader e comandante carismatico, in trincea come alla Camera dei Comuni. Umano e buono, Churchill era per Brennand un individualista solidale con i più poveri; conservatore ma membro di un governo liberale, non si sottomise mai alla linea del partito e lasciò polemicamente i liberali quando si allearono con i laburisti e tornò con i conservatori. La sua capacità di previsione gli guadagnò la fama di guerrafondaio, ma era solo il risultato della sua insofferenza per il mantenimento della situazione. In alcuni casi non fu solo lungimirante ma addirittura profetico, come nel caso dell’attenzione riservata alla guerra aerea che secondo lui avrebbe coinvolto i centri abitati, gli snodi ferroviari e la flotta: Churchill era di certo un sostenitore della necessità di armarsi e farsi trovare sempre pronti a ogni necessità o calamità. Ebbe ragione anche nella sua convinzione che Hitler non si sarebbe fermato di fronte a nulla e che avrebbe scatenato una guerra. A questo proposito Brennand esprime un pessimo giudizio su Chamberlain, accusato di posizioni eccessivamente accomodanti e pacifiste (il cosiddetto appeasement), mentre è bene dire che le ultime tendenze della storiografia tendono a rivalutare il suo operato, volto a prendere tempo visto il ritardo dell’Inghilterra nel riarmo e la sua impreparazione a sostenere un’altra guerra dopo lo sforzo del primo conflitto mondiale. Da sottolineare che Brennand parla degli inglesi sempre al “noi” e si riferisce all’esercito britannico come il “nostro”: un libro scritto da un inglese per inglesi, fieri di annoverare tra le proprie file un personaggio come Churchill che si definiva “impenitentemente inglese”.

Susanna Clarke - Piranesi

 

Ho profondamente amato Jonathan Strange & il signor Norrell, folgorante debutto di Susanna Clarke che raccontava la rivalità di due maghi in una realtà alternativa durante le guerre napoleoniche e mescolava in maniera sensazionale il fantasy, romanzo gotico, la letteratura romantica, Charles Dickens, Jane Austen, Lord Byron e la comedy of manners. È facile quindi immaginare quanto attendessi il nuovo romanzo della Clarke, Piranesi, scritto a ben 16 anni di distanza dal debutto. Sulle prime è un’opera che lascia spiazzati e storditi perché è tutto ambientato in un universo parallelo costituito da una misteriosa Casa nella quale si trova il nostro protagonista, un personaggio molto particolare che non ha ricordo né del suo nome né della sua storia, e per questo molto confuso riguardo alla sua persona. Vive in simbiosi con la Casa, che è fatta di svariati ed enormi saloni che sono come un labirinto e allo stesso tempo un museo: delle imponenti scalinate conducono a saloni superiori dove ci sono delle nubi immense che danno origine a precipitazioni da cui Piranesi riesce a ricavare l’acqua; i saloni inferiori invece sommersi dal mare e nelle loro acque Piranesi riesce a pescare, altre stanze sono state abbandonate. In tutta la Casa, che è abitata anche da uccelli, ci sono arredi e statue raffiguranti concetti e situazioni di vita che non hanno riscontro nell’esperienza di Piranesi, il quale può solo affidarsi all’immaginazione o alla logica.

Piranesi scopre sempre più cose del mondo che lo circonda, giorno per giorno, e annota ogni sua scoperta nei suoi diari con l’approccio dello studioso se non addirittura dello scienziato. Il suo è l’approccio tipico dell’esploratore che si basa su ciò che vede, come d’altronde ben chiarito dall’esergo del romanzo tratto da Il giardino segreto di Laurence Arne-Sayles: «Studio ciò che è stato dimenticato. Scopro ciò che è completamente scomparso. Lavoro con le assenze, con i silenzi, con le curiose fratture fra le cose». C’è anche una datazione all’interno dei suoi diari, che si evolve in un sistema basato su determinati eventi avvenuti all’interno della Casa (il nono giorno da quando l’albatro è arrivato nel tale salone). Ben presto scopriamo che c’è un altro abitante della Casa, chiamato l’Altro, molto più anziano, austero e signorile: Piranesi si confronta con lui incontrandolo in determinati giorni della settimana e poi annota diligentemente tutto nei suoi diari. È quest’altra entità a donare al protagonista un nome, Piranesi appunto, connesso all’incisore Giovan Battista Piranesi, autore delle immaginifiche e labirintiche Carceri; l’Altro però comincia anche a instillare dei dubbi sulla natura del loro rapporto e della Casa stessa, tanto che Piranesi appare come una cavia o l’oggetto di studio di uno strizzacervelli.

La Casa ha dunque due abitanti ma in origine erano quindici: attraverso i diari di Piranesi scopriamo questi individui che lui ha rinominato sulla base delle sembianze dei loro scheletri e degli oggetti che sono stati ritrovati accanto (l’Uomo Scatola-di-Biscotti, l’Infante). A un certo punto compare un nuovo personaggio, “16”, che l’Altro avverte come cattivo e ostile. Progressivamente, la realtà si mescola all’onirico facendo irruzione nella Casa attraverso le pagine dei diari di Piranesi, il quale non ricorda nemmeno di averle scritte: è lui ad aver appuntato nomi e storie reali che fanno riferimento a personaggi del nostro tempo, attraverso cui entrano nella vicenda elementi mystery e thriller. Che cos’è la Casa? Una dimensione alternativa? Il Bosco tra i Mondi delle Cronache di Narnia? La caverna di Platone? Una prigione? Un ospedale psichiatrico? Uno stato alterato della mente? Piranesi è un romanzo e una riflessione sulla mente umana, la pazzia, la memoria, la solitudine, l’isolamento, la ricerca di qualcosa di diverso dal presente ma più grande del passato, e allo stesso tempo sull’identità, sulla sua costruzione e la sua riscoperta.

Molte sono le citazioni letterarie, con le quali il testo stabilisce delle connessioni, a cominciare dall’albatro preso dalla Ballata del Vecchio Marinario di Coleridge e anche qui presagio di cambiamento, per arrivare fino al Nipote del mago di C.S. Lewis, citato sia in apertura («Io sono il grande studioso, il mago, l’adepto, che sta compiendo l’esperimento. È ovvio che abbia bisogno di cavie») sia nel nome del mago Ketterley. Lo stile della Clarke è stratificato, evocativo, stravagante e filosofico, perfetto per riflettere l’approccio da pensatore del protagonista, il suo spaesamento ma anche il suo tentativo di dare un senso al tutto, cui corrisponde una narrazione frammentata e pseudoscientifica che fornisce le tessere di un puzzle da comporre. Nella prima parte non si capisce niente (le domande sono tante ma le risposte sono poche), mentre nella seconda parte si assiste a un’accelerazione degli eventi e delle rivelazioni, anche se la Clarke è molto attenta a non fornire mai una risposta univoca, lasciando al lettore la possibilità (e il piacere) di stabilire le connessioni tra i personaggi e gli avvenimenti a seconda delle proprie impressioni. È un romanzo che richiede veramente molto al lettore ma è capace di premiarlo, invogliando a una seconda lettura, per scoprire ancora più particolari che, ovviamente, la prima volta non si sono notati.