tag:blogger.com,1999:blog-50716426443629873162024-03-19T23:24:00.019+01:00La spelonca del libroMemorie di un lettore disordinatoPaolo Nardihttp://www.blogger.com/profile/08293486674441314828noreply@blogger.comBlogger679125tag:blogger.com,1999:blog-5071642644362987316.post-91623548945652660242022-06-22T17:58:00.006+02:002022-06-22T18:01:48.757+02:00Roger Pater - Voci dall'Altrove<p></p><div style="text-align: center;"> <img border="0" data-original-height="2479" data-original-width="1525" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgPo9ECOkhcSluQebjbQycdHMnu9Evs_jzt0oMBuo8_uXPdQpDXywB0zt51CcRmk3zpRKJLbhLX8_ZHKe8e9KUZgwbiruDIIaNE5pU1m6Ld4QSLFOa_eUyOC-Pt1y0dlHyJ4v6IjizFUV5qrEylAHS7T3Mm_B9iFDeN0irfuGeapxswLZNWWgJk2Ozd/s320/cop%20voci%20dall'altrove%20HR.jpg" style="text-align: center;" width="197" /></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;"></div><p></p><p class="p1" style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">Robert Hugh Benson non è stato l’unico sacerdote a dilettarsi con le storie del soprannaturale tra il XIX e il XX secolo: il benedettino Roger Pater (al secolo Roger Hudleston) è una di quelle originali figure di sacerdoti scrittori che hanno popolato il cattolicesimo britannico di inizio Novecento e prova la diffusione delle storie di fantasmi nell’Inghilterra tardovittoriana. Uomo dalle molteplici doti (pare fosse in grado di risolvere in mezz’ora il cruciverba del “Times”), Pater immagina di avere a che fare con un anziano parente, Philip Rivers Pater, anche lui sacerdote e facoltoso signorotto di campagna, dotato di capacità extrasensoriali e “ricettore” di avventure soprannaturali. È lui il protagonista di questo <i>Voci dall’Altrove</i>, stranissimo esperimento di raccolta di racconti del soprannaturale secondo un punto di vista cattolico (in un Paese che aveva abbandonato la vecchia fede per passare alla Chiesa ufficiale, quella di Stato anglicana) per la prima volta proposta in italiano dalle Edizioni Gondolin: finora, a circolare erano stati solo tre racconti (<i>De Profundis</i>, <i>Il lascito dell’astrologo</i> e <i>A Porta Inferi</i>) in varie antologie della Mondadori, della Fanucci e della Newton Compton accanto alle storie di altri maestri del fantastico.</span></p><p class="p1" style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: arial;"><br /></span></p><p class="p1" style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">Si va da episodi come gli avvertimenti di morti di persone care (<i>Avvertimenti</i>) ai calici appartenuti a sacerdoti uccisi nella Rivoluzione francese che fanno rivivere le persecuzioni a chi celebra la messa (<i>Il Calice della Persecuzione</i>); dai luoghi che fanno rivivere messe celebrate da sacerdoti martirizzati (<i>Il nascondiglio del prete</i>) a una misteriosa confessione ricevuta in terra straniera da persone che dovrebbero essere morte (<i>In Articulo Mortis</i>). In <i>De Profundis</i> si racconta dell’apparizione di una suora defunta e impostora attorno alla quale si è sviluppato un culto privato non autorizzato in sfida alle autorità, mentre <i>Di questi è il Regno dei Cieli</i> racconta di una vera santa giovane che viene visitata dalla Vergine Maria fino alla morte prematura; <i>Il lascito dell’astrologo</i> verte su un bacile d’argento per l’acqua realizzato nientemeno che da Benvenuto Cellini e in possesso di una sfera di cristallo usata per evocare il demonio; <i>A Porta Inferi</i> riferisce di un curioso caso di possessione da parte di un efferato criminale che ha preso possesso del corpo e della volontà di un povero internato di manicomio. Ne <i>Il tesoro delle Suore Turchine</i> si parla di un cuscino miracoloso che guarisce dalla malattia grazie alla presenza al suo interno di reliquie di santi (tra i quali un avo del prete signorotto, Philip Rivers, martirizzato a Tyburn). <i>Il guardiano</i> è invece incentrato sulla storia di un uomo alla perenne ricerca della sua vocazione e del suo posto nel mondo, che gli risultano chiari solo dopo un’esperienza di morte apparente: aiutare gli indigenti dei bassifondi e i reietti della società, e per farlo si fa assumere come guardiano notturno. <i>I passi sull’Aventino</i> torna ancora il tema delle presenze soprannaturali, in questo caso legate a dei misteriosi passi nel Collegio Austriaco a due passi dalla Basilica di San Pietro a Roma, per l’appunto sul colle Aventino; <i>Il capro espiatorio</i> racconta di una terribile sciagura familiare di cui viene incolpato il figlio della vittima, il quale rinuncia a discolparsi. <i>Nostra Signora della Rocca</i> ci porta sulla costiera amalfitana dove sorge un monastero fondato da un eremita a cui appariva la Madonna: la statua della Vergine (capace di fare miracoli) è sparita ma, secondo la leggenda, verrà ritrovata da uno straniero. Ne <i>La comunione dei santi</i> si ragiona di terreno comune tra le varie confessioni cristiane e si torna alle voci soprannaturali che giungono improvvise: questa volta, per suggerire la predicazione e illuminare la conversione di un anziano quacchero.</span></p><p class="p1" style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: arial;"><br /></span></p><p class="p1" style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">La tecnica seguita da Pater è quasi sempre quella di una premessa incentrata sull’esplicazione di una teoria filosofica di cui poi il racconto del sacerdote anziano, basato su una sua esperienza personale, è una dimostrazione, e questo è uno di quei particolari che fanno sì che il testo appaia come datato, oltre a qualche legnosità e lungaggine. I fatti soprannaturali sono sempre tali, cioè non avviene alcuna rivelazione che li riporta su un piano reale e li motiva come conseguenza di un equivoco: anzi, simili fatti soprannaturali sono legati a oggetti, persone o luoghi del passato legati a qualche persecuzione del passato, ed è questo particolare a donare a <i>Voci dall</i></span><i style="font-family: arial;">’Altrove </i><span style="font-family: arial;">un</span><span style="font-family: arial;">’unità maggiore rispetto ai racconti di Benson (<i>La luce invisibile</i> e <i>Lo specchio di Shalott</i>). </span><span style="font-family: arial;">Scritto da un prete con protagonisti preti, il volume è pieno di terminologia sacra preconciliare, per cui può fare la felicità gli amanti della liturgia tradizionale (quella in latino). A impreziosire l’opera, le bellissime illustrazioni di Domenico Vincenzo Venezia e una prefazione di inquadramento generale a firma di Luca Fumagalli.</span></p>Paolo Nardihttp://www.blogger.com/profile/08293486674441314828noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-5071642644362987316.post-30044798843042437682022-02-25T10:20:00.000+01:002022-02-25T10:20:07.011+01:00Andrzej Sapkowski - La spada del destino<p style="text-align: center;"> <img border="0" data-original-height="2560" data-original-width="1707" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEgan7gdGgR92GRJ6Ra5gg3KQ6XtdV5Wna4s_2NBwt8JgBEvdYrW0uR03QDUrC9EJfBtMBKu8eDYoK16h2vDgOj5XNtu9k16ZaFQRFm4oFgHc6RTtxku_kP6wkiu5BSBQtK8QMC2Sx_K_ElzXO-ta_vY1k6S-yUD1_PtAsCumdixhPU_48FOO9okX_XR=s320" width="213" /></p><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;"><span style="line-height: 107%;">Ed eccomi di nuovo ad
affrontare la saga di <i>The Witcher</i>, tornata alla ribalta grazie alla serie
tv targata Netflix (di cui però non ho ancora visto la seconda stagione), questa
volta con il secondo capitolo<i> La spada del destino</i> (</span><span style="line-height: 107%;">«</span><span style="line-height: 107%;">La spada del destino ha due lame. Una sei tu</span><span style="line-height: 107%;">»</span><span style="line-height: 107%;">), che è sempre una raccolta di racconti e di cui ho già
parlato anni fa in maniera esauriente <a href="http://speloncalibro.blogspot.com/2015/01/andrzej-sapkowski-la-spada-del-destino.html">QUI</a>. Rispetto al primo <i>Il guardiano
degli innocenti</i>, è forse meno focalizzato sulla rielaborazione (e il sovvertimento) del patrimonio favolistico ma lo spirito è lo stesso, e
Sapkowski dimostra di essere migliorato come autore, gestendo meglio personaggi e trame. L’ultimo racconto, <i>Qualcosa
di più</i>, è stupendo: un crescendo in cui vediamo tutti i momenti della vita
di Geralt nei quali lo strigo ha rifiutato l’idea di destino, mentre in fin di
vita si rende conto di essere solo e abbandonato da tutti, dalle amanti e
addirittura dalla madre, e di avere un nome e una provenienza che non sono
nemmeno veri; eppure alla fine scopre di non essere solo davvero e non può
negare di essere di fronte a quel “qualcosa in più” che era convinto non
sarebbe mai arrivato.</span></span></div>Paolo Nardihttp://www.blogger.com/profile/08293486674441314828noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5071642644362987316.post-63667740359606071482022-01-15T16:20:00.004+01:002022-01-15T16:40:00.222+01:00Nicholas Blake - Il caso dell’abominevole pupazzo di neve<p></p><div style="text-align: center;"> <img border="0" data-original-height="1432" data-original-width="1000" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEjYUDpE74rRZbznbom28wgP-McIX4iAk8LnG1TbgashO0_8mJZ12pRmxCE_Md01vlt_6z06SjLNlfvFn1Ui0Z5As4Y8wLHh_Sd-cAlaYhVb4ODLO70q8g3b2sMKHFZpgDPck0i8tbdZUpXrLBFdZiI6s76coD7CkE6CD8dHoxHfYAHawaACtdXvBPjK=s320" style="text-align: center;" width="223" /></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;"><span style="line-height: 107%;"><span style="font-family: arial;">Non è una novità del
panorama editoriale internazionale questo <i><span style="line-height: 107%;">Il caso dell’abominevole
pupazzo di neve</span></i>, scritto da Nicholas Blake, pseudonimo del poeta Cecil
Day-Lewis (1904-1972), padre del celeberrimo attore Daniel Day-Lewis e autore
di una ventina di gialli con protagonista l’investigatore Nigel Strangeways. Credo
sia la prima volta che un suo romanzo sia stato tradotto e pubblicato in Italia,
tra l’altro con una copertina meravigliosa molto simile a quella de <i>Le sette
morti di Evelyn Hardcastle </i>di Stuart Turton (anche se i libri sono molto diversi). La vicenda è ambientata a Dower House,
Easterham Manor (una cinquantina di chilometri da Londra), dove la famiglia
Restorick (adulti e bambini) è riunita per l’approssimarsi delle festività
natalizie. Nigel e la moglie vengono invitati nella dependance di Dower House dall’anziana
proprietaria che vuol far indagare al nostro detective (presentato come un
esperto di soprannaturale) su cosa è successo durante una seduta spirita nella
Stanza del Vescovo (come ogni dimora inglese che si rispetti Dower House ha una
leggenda di fantasmi): il gatto di casa è impazzito e si è addormentato
improvvisamente. Il giorno successivo all’arrivo dei coniugi Strangeways, la
sorella della padrona di casa, Elizabeth Restorick, viene trovata morta
impiccata nella sua camera: il classico delitto della camera chiusa, il
suicidio sembra ovvio. Nigel però dubita e comincia a indagare: ci sono dei
personaggi collegati alla famiglia che danno molto da pensare (lo scrittore
progressista, il fratello devoto, l’amica gelosa). La vittima era troppo
disinibita per l’epoca (i primi anni della Seconda Guerra Mondiali), troppo
libera di costumi e di mentalità, un passato di dipendenza dagli stupefacenti e
un figlio avuto da chissà chi. A Dower House si è trasferito anche il suo
medico psicologo/terapeuta/ipnotista che la stava seguendo negli ultimi mesi. Le
indagini procedono nel pieno rispetto delle regole del genere con osservazioni e intuizioni fino all’identificazione del colpevole,
che ovviamente è tra i personaggi principali della vicenda e viene smascherato dal classico monologo finale in cui </span></span><span style="font-family: arial;">l’investigatore spiega quanto è stato bravo a risolvere il caso</span><span style="font-family: arial;">. Non si tratta certamente
di un capolavoro della letteratura poliziesca e non brilla certo per sottigliezza psicologica, e per giunta il </span><span style="font-family: arial;">protagonista è piuttosto
canonico (Nigel Strangeways non è di certo Poirot, così come Nicholas Blake non è Agatha Christie), ma <i><span style="line-height: 107%;">Il caso dell’abominevole
pupazzo di neve</span></i> è un giallo all’antica, che dà l’immagine
dell’epoca nella quale è ambientato (c’è la guerra ma non è ancora iniziato il
bombardamento dell’Inghilterra), in una dimensione che sembra aver
cristallizzato il passato (e presente e passato sono intrecciati anche nel caso della famiglia Restorick). Simpatico vedere gli imbranati poliziotti che si
trovano ad avere a che fare con un cadavere dopo essersi sempre occupati delle
beghe di paese.</span></div><p></p>Paolo Nardihttp://www.blogger.com/profile/08293486674441314828noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5071642644362987316.post-36457051945415237372021-11-30T20:12:00.003+01:002021-11-30T20:43:11.048+01:00Paolo Nardi - Leggiamo insieme Lo Hobbit<p></p><div style="text-align: center;"> <img border="0" data-original-height="2048" data-original-width="1418" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhyZ7v8o90lU-WbXkMV7EdndawbHdegEviUlJNuHr8fBv6PeJ52FN0pGYwUtzIuN-T1F75dAsv5EcqZ29XJctdu9_HrkFym8uywDxDdSsE7_zUD5TQP-SOHMxYo97xPaIT0osWefBdZtqg/s320/cop+leggiamo+insieme+lo+hobbit+HR.jpg" style="text-align: center;" width="222" /></div><p></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">E
così siamo arrivati al secondo libro. Dopo <i>Leggiamo insieme Il Signore degli
Anelli</i>, di cui è in lavorazione una seconda edizione riveduta e ampliata di
30 pagine con una nuova copertina, ecco arrivare nelle librerie (poche purtroppo) <i>Leggiamo insieme Lo Hobbit</i>,
il fratello minore se vogliamo. Di seguito la mia introduzione che inquadra il
volume, dedicato a un romanzo ingiustamente bistrattato come opera “per bambini”
ma in realtà pieno di sorprese. Qui non c</span><span style="font-family: arial; letter-spacing: -0.266667px;">’entra la nuova traduzione di Ottavio Fatica, quindi potete anche darmi una possibilità.<br /><br /></span></p><div style="text-align: center;"><span style="font-family: arial; letter-spacing: -0.266667px;"><span style="letter-spacing: -0.266667px;">* * *</span></span></div><p></p><p class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">Sebbene sia spesso pubblicizzato come un libro per bambini e non
sia minimamente paragonabile per ricchezza e complessità al </span><i style="font-family: arial;">Signore degli
Anelli</i><span style="font-family: arial;"> (che curiosamente nacque proprio come sequel su richiesta del suo </span><span style="font-family: arial; letter-spacing: -0.2pt;">editore), <i>Lo Hobbit</i> accompagna la mia vita
sin dall’infanzia,</span><span style="font-family: arial;"> cioè </span><span style="font-family: arial;">da quando mia mamma mi raccontava la storia di
Bilbo Baggins e del drago Smaug: la storia del punto debole nella corazza di un
drago che poi veniva colpito dalla freccia di un arciere ha sempre esercitato
un fascino irresistibile sulla mia fantasia.<br /></span><span style="font-family: arial;">Certo, è un romanzo che apparentemente si presenta come una
favola, a partire dalle storie che Tolkien raccontava ai figli, slegata dal suo
</span><i style="font-family: arial;">legendarium</i><span style="font-family: arial;"> che era andato elaborando sin dal 1917: tuttavia, scrivendo </span><i style="font-family: arial;">Il
Signore degli Anelli</i><span style="font-family: arial;">, Tolkien stesso si accorse che il sequel metteva in
luce diverse incongruenze presenti ne </span><i style="font-family: arial;">Lo Hobbit</i><span style="font-family: arial;">. Non a caso nel 1951, 14
anni dopo la pubblicazione avvenuta nel 1937, apportò alla seconda edizione
alcune modifiche, tra cui la riscrittura del quinto capitolo, </span><i style="font-family: arial;">Indovinelli
nell’oscurità</i><span style="font-family: arial;">, per fornire la versione “autentica” di come Bilbo si fosse
imbattuto nell’Anello magico di Gollum. In origine, Gollum aveva messo in palio
il prezioso oggetto per il vincitore della gara di indovinelli, invece ora Tolkien
fece in modo che Bilbo lo trovasse per caso. Poi aggiunse un capitolo
esplicativo, </span><i style="font-family: arial;">La cerca di Erebor</i><span style="font-family: arial;">, per spiegare il perché della missione
dei nani e dell’aiuto di Gandalf nel quadro generale della Guerra dell’Anello,
a partire dal primo incontro tra Gandalf e Thorin a Brea.<br /></span><span style="font-family: arial; letter-spacing: -0.1pt;">Gli venne addirittura in mente di riscrivere
il romanzo con lo stile del <i>Signore degli Anelli</i>, ma abbandonò il
progetto e in questo modo preservò il fascino dell’originale.</span><span style="font-family: arial;"> Un po’ lo
stesso problema davanti a cui si è trovato Peter Jackson quando si è trovato a
dover realizzare la sua seconda trilogia dopo aver già raggiunto il successo
con quella del </span><i style="font-family: arial;">Signore degli Anelli</i><span style="font-family: arial;">: in qualche modo il regista
neozelandese ha tentato di fare quello che Tolkien non aveva potuto, cioè rendere
tutto più epico e meno favolistico, ma soprattutto coerente con lo stile
caratteristico degli altri film.<br /></span><i style="font-family: arial;">Lo Hobbit</i><span style="font-family: arial;"> rimane una deliziosa favola caratterizzata da
elementi tipici delle fiabe: i nani, il drago, un tesoro conteso da recuperare,
fughe a rotta di collo, episodi di metamorfosi, foreste piene di pericoli e
animali parlanti. La struttura è quella classica della Cerca (in questo caso la
ricerca di un tesoro) e dell’archetipo letterario del viaggio dell’eroe che
torna con degli oggetti magici (l’Anello) e una consapevolezza nuova. Lo dice
espressamente lo stesso Tolkien all’inizio della sua narrazione: </span><span style="font-family: arial; letter-spacing: -0.1pt;"></span><span style="font-family: arial; letter-spacing: -0.1pt;">“Questa è la storia di come un Baggins ebbe
un’avventura</span><span style="font-family: arial;"> e si trovò a fare e dire cose del tutto imprevedibili. Può anche
aver perso il rispetto del vicinato, ma guadagnò… be’, vedrete voi stessi se
alla fine guadagnò qualcosa”. D’altra parte, il sottotitolo originale, </span><i style="font-family: arial;">There
and Back Again</i><span style="font-family: arial;">, cioè </span><i style="font-family: arial;">Andata e ritorno</i><span style="font-family: arial;"> (sempre ignorato dalle
edizioni italiane che l’hanno trasformato prima in </span><i style="font-family: arial;">La riconquista del tesoro</i><span style="font-family: arial;">
e poi in </span><i style="font-family: arial;">Un viaggio inaspettato</i><span style="font-family: arial;">), allude proprio a questo: alla crescita
del personaggio e alla sua trasformazione, alla scoperta del ruolo che è
chiamato ad assumere nonostante il suo conformismo e la sua scarsa propensione all’avventura.<br /></span><span style="font-family: arial;">Bilbo è l’esempio di come persone ordinarie siano capaci di
realizzare grandi imprese e di diventare addirittura sagge, adattandosi alle
situazioni e affrontandole con pazienza. Lo stregone Gandalf e i nani gli fanno
intraprendere un’avventura che lo metterà a contatto con molte prove e
difficoltà e lo porteranno a capire che nella vita c’è molto di più che agio e
comodità. Ovviamente lo hobbit non è l’unico personaggio che cambia all’interno
dell’avventura: si pensi al nano Thorin, che cede alla cupidigia e alla
malattia del drago in un alternarsi di luci e ombre, caduta e redenzione.<br /></span><span style="font-family: arial;">Soprattutto, l’umorismo e le frequentissime intromissioni del
narratore, il familiare “che lo crediate o no”, le ricapitolazioni introdotte
dal “come ricorderete” e le parentesi destinate a far ridere il lettore,
contribuiscono forse a rendere </span><i style="font-family: arial;">Lo Hobbit</i><span style="font-family: arial;"> l’opera tecnicamente meglio
scritta tra quelle di Tolkien, o almeno quella più coerente e uniforme, in
possesso dello stesso registro dall’inizio alla fine. Anzi, Tolkien non
riuscirà mai a essere più divertente di così: valga per tutti l’episodio di
Ruggitoro Tuc, pro-prozio di Bilbo, che prese parte alla carica contro le
schiere degli orchi e colpì staccando di netto la testa del re nemico con una
mazza di legno, risolvendo così la battaglia e inventando allo stesso tempo il
gioco del golf.<br /></span><span style="font-family: arial;">Ovviamente, come favola, manca la dimensione seria e tragica del
suo fratello maggiore (</span><i style="font-family: arial;">Il Signore degli Anelli</i><span style="font-family: arial;">), così come il pathos di
scene come quelle delle Miniere di Moria o del Passo di Cirith Ungol, ma non
bisogna dimenticare che il romanzo termina con la drammatica morte di Thorin e la
Battaglia dei Cinque Eserciti, cioè una guerra di carneficina a tutti gli
effetti, elemento ben poco favolistico e “fanciullesco”. Inoltre mi sembra di
poter ravvisare </span><i style="font-family: arial;">in nuce</i><span style="font-family: arial;"> la stessa critica nei confronti del progresso
scientifico incontrollato che è fonte di distruzione più di quanto lo sia di
corruzione; anche la concezione di tempo individuale e tempo mitico ricorda la quella
che troveremo nel </span><i style="font-family: arial;">Il Signore degli Anelli.<br /></i><span style="font-family: arial;">Piuttosto, se quest’ultimo romanzo è stato vittima di una serie di
interpretazioni forzatamente allegoriche, simboliste e politiche che ne
diminuiscono il valore e la portata, </span><i style="font-family: arial;">Lo Hobbit</i><span style="font-family: arial;"> ha subito invece un’operazione
di svilimento per la sua stessa natura di favola: perché infatti leggere e
considerare quello che, a conti fatti, è solo un libro per bambini? Così
facendo si dimentica che è la presenza del protagonista, un piccolo hobbit con
il panciotto e i piedi pelosi, a costituire la novità il fascino di questa
storia, gettando un ponte tra le antiche fiabe e il lettore di oggi e
configurandosi in tutto e per tutto come un romanzo moderno.<br /></span><span style="font-family: arial;">Nel mare di letteratura critica internazionale non mancano
comunque delle interessanti letture politico-economiche, che dipingono i
personaggi positivi del romanzo come paladini del libero mercato contro le
storture del capitalismo. C’è addirittura chi ha parlato di alleanza tra la
classe medio-bassa (Bilbo) e i minatori della classe operaia (i nani) in modo
da usurpare il potere del capitale parassita, che vive grazie al lavoro della
povera gente, accumulando benessere senza avere la capacità di apprezzarne il
valore (il drago).<br /></span><span style="background-color: white; font-family: arial;">Al di là della liceità di simili
teorie, ritengo che così facendo si rischi di perdere il senso centrale
dell’opera, che resta prima di tutto il racconto di un viaggio: in fondo, l’intenzione
di Tolkien non era quella di realizzare un romanzo allegorico o a tesi. Bisognerebbe
tenere presente che Tolkien non lavorava a partire da idee o da manifesti, ma
da parole e nomi. Certo, nel </span><i style="background-color: white; font-family: arial;">Signore degli Anelli</i><span style="background-color: white; font-family: arial;"> ci sono più di 600
nomi di “persone, animali e mostri” e quasi altrettanti toponimi, con
l’aggiunta di circa duecento oggetti non classificabili ma ugualmente dotati di
un nome, mentre ne </span><i style="background-color: white; font-family: arial;">Lo Hobbit</i><span style="font-family: arial;"><span style="background-color: white;"> sono presenti 40-50 nomi propri inseriti in
maniera piuttosto noncurante. Un confronto tra le due opere, quindi, è
improponibile, ma il modo di approcciarsi alla narrativa è lo stesso: un
approccio filologico, che troppo spesso è stato trascurato o dimenticato.</span><span style="background-color: white;"><br /></span></span><span style="font-family: arial;">In questa mia analisi, ho ripreso la struttura del mio precedente </span><i style="font-family: arial;">Leggiamo
insieme Il Signore degli Anelli</i><span style="font-family: arial;">, cioè quella capitolo per capitolo: nel
caso de </span><i style="font-family: arial;">Lo Hobbit</i><span style="font-family: arial;">, </span><span style="font-family: arial;">ogni </span><span style="font-family: arial;"><span style="letter-spacing: -0.1pt;">capitolo assume un
ruolo narrativo ben preciso e si distingue per la diversa collocazione geografica
e la presenza di nuovi personaggi e nuove creature. Questo rende i diversi
capitoli dei piccoli universi a sé stanti, con le proprie prove e le proprie
problematiche, pur collegati tra loro in una struttura per nulla casuale, come
dimostrato da William Green nel suo fondamentale </span><i style="letter-spacing: -0.1pt;">Lo Hobbit. Un viaggio verso
la maturità</i><span style="letter-spacing: -0.1pt;">: il romanzo è popolato di doppi, in una continua simmetria
rovesciata di luoghi e situazioni, particolari che confermano la famosa
dichiarazione di C.S. Lewis per cui, solo alla dodicesima rilettura in età
adulta, </span><i style="letter-spacing: -0.1pt;">Lo Hobbit</i><span style="letter-spacing: -0.1pt;"> avrebbe rivelato tutti i suoi livelli di lettura.</span><span style="letter-spacing: -0.133333px;"><br /></span></span><span style="background-color: white; font-family: arial;">Inoltre,
proprio come nel caso di </span><i style="background-color: white; font-family: arial;">Leggiamo insieme Il Signore degli Anelli</i><span style="background-color: white; font-family: arial;">,
questo libro non porta nulla di nuovo, anzi è del tutto derivativo: mi sono
semplicemente avvalso di quanto detto dallo stesso Tolkien nelle sue Lettere e di
una serie di mostri sacri di riferimento che nel corso degli anni hanno
plasmato la mia lettura dell’opera di questo scrittore. Mi riferisco a Tom
Shippey (</span><i style="background-color: white; font-family: arial;">Tolkien autore del secolo</i><span style="background-color: white; font-family: arial;"> e </span><i style="background-color: white; font-family: arial;">La via per la Terra di Mezzo</i><span style="background-color: white; font-family: arial;">),
Wu Ming 4 (</span><i style="background-color: white; font-family: arial;">Difendere la Terra di Mezzo</i><span style="background-color: white; font-family: arial;">), Brian Rosebury (</span><i style="background-color: white; font-family: arial;">Tolkien, un
fenomeno culturale</i><span style="background-color: white; font-family: arial;">) e Andrea Monda (</span><i style="background-color: white; font-family: arial;">A proposito degli Hobbit</i><span style="background-color: white; font-family: arial;">), ma
anche a raccolte come </span><i style="background-color: white; font-family: arial;">Lo Hobbit e la filosofia</i><span style="background-color: white; font-family: arial;">, </span><i style="background-color: white; font-family: arial;">In te c’è più di
quanto tu creda</i><span style="background-color: white; font-family: arial;"> e soprattutto </span><i style="background-color: white; font-family: arial;">C’era una volta… Lo Hobbit</i><span style="background-color: white; font-family: arial;">. Senza per
questo dimenticare </span><i style="background-color: white; font-family: arial;">Lo Hobbit</i><span style="background-color: white; font-family: arial;"> </span><i style="background-color: white; font-family: arial;">annotato</i><span style="background-color: white; font-family: arial;"> di Douglas Anderson,
l’edizione definitiva del romanzo grazie al consistente apparato di note
esplicative.<br /></span><span style="background-color: white; font-family: arial;">L’edizione che
ho preso a riferimento è quella Bompiani del 2012, </span><span style="background-color: white; font-family: arial; letter-spacing: -0.1pt;">che presenta la traduzione di Caterina Ciuferri, non quella storica
Adelphi di Elena Jeronimidis Conte: ho preferito così perché, a parte la
trasformazione di qualche toponimo (Bosco Atro è diventato Boscotetro e l’Archepietra</span><span style="background-color: white; font-family: arial;">
è tradotta Arkengemma), i nomi sono stati rimessi al loro posto, soprattutto i
troll che nella vecchia traduzione erano diventati dei misteriosi Uomini Neri,
mentre sono stati fatti sparire i poco verosimili alimenti come la pizza e il
mascarpone (quest’ultimo ha lasciato posto ai fiocchi di crema di latte). Anche
il ritmo e lo stile, nella traduzione di Caterina Ciuferri, sono meno legati
alla tradizione italiana e più vicini al modello anglosassone. Non me ne
vogliano i sostenitori della vecchia edizione Adelphi, che aveva anche delle
intuizioni notevoli: per esempio Forraspaccata, nome escogitato da </span><span style="background-color: white; font-family: arial; letter-spacing: -0.1pt;">Elena Jeronimidis Conte</span><span style="background-color: white; font-family: arial;"> per rendere
l’originale Rivendell, era a mio giudizio una variante molto più bella di Gran
Burrone della traduzione del </span><i style="background-color: white; font-family: arial;">Signore degli Anelli</i><span style="background-color: white; font-family: arial;"> di Vittoria Alliata
(recentemente Ottavio Fatica ha proposto il più convincente Valforra).<br /></span><span style="background-color: white; font-family: arial;">Ho cercato
di mettere in luce come, attraverso la fiaba e la capacità di riplasmare il
patrimonio delle leggende </span><span style="background-color: white; font-family: arial; letter-spacing: -0.1pt;">nordiche, Tolkien
cerchi di trasmettere valori etici importanti come la lealtà, l’onore, il
coraggio, la clemenza, la generosità e l’umiltà, ma soprattutto l’apertura al
diverso: il romanzo è permeato da una critica all’immobilismo,</span><span style="background-color: white; font-family: arial;"> alla
diffidenza e alla chiusura verso gli altri. È la stessa cosa che ritroviamo
nelle parole dell’elfo Gildor a Frodo nel </span><i style="background-color: white; font-family: arial;">Signore degli Anelli</i><span style="font-family: arial;"><span style="background-color: white;">: “Il
mondo intero è tutt’intorno a voi: potete chiudervi dentro la Contea, ma non
potete chiudere fuori il mondo per sempre”. Non ci si può nascondere dalle
influenze del mondo esterno, pensare di vivere nel migliore dei mondi possibili
e che l’orizzonte si esaurisca poco oltre il proprio giardino o con il
fiumiciattolo dietro casa.</span><span style="background-color: white;"><br /></span></span><span style="font-family: arial;">Solo mettendosi in gioco,
andando al di là dei propri pregiudizi e delle proprie idee di vita comoda, e
aprendosi ad altri universi valoriali diversi dai nostri, sarà possibile
mettersi in viaggio e forse scoprirsi eroi, riuscendo a portare indietro
qualcosa dal nostro viaggio e a ristorare il mondo.</span></p>Paolo Nardihttp://www.blogger.com/profile/08293486674441314828noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5071642644362987316.post-67006539230712274672021-11-13T18:35:00.004+01:002021-11-13T18:38:16.292+01:00Paolo Mieli - L'arma della memoria<p style="text-align: center;"> <img border="0" data-original-height="2048" data-original-width="1290" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj1MfxckZtrUyHzq2VTv4YU_HE-CBZDmWZfmVWU1mpKUKemqNaFEcllMqyXS9jKJg1StEY_nFYjOf7bawAjVqLqrgX-WLsnIGaPHZ7nBo-CNrl87b4ixfEMdK6NMtRd3dlwcBN4PRvhFVw/s320/71NVHzte43L.jpg" width="202" /></p><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;"><i>Historia magistra vitae</i> è una frase che è bella da ricordare ma che non serve a nulla. Spesso i vincitori si fanno tornare i conti e aggiustano le cose a danno dei vinti e si ricostruisce il passato proprio e collettivo a proprio uso e consumo, semplificando e creando categorie, prime fra tutte quelle di “buoni” e “cattivi”. Invece un “onesto uso della memoria” comporterebbe un continuo mettere in dubbio ciò che già si sa del passato per andare al di là e scoprire ancora meglio le ragioni del presente. Ecco perché gli studi fatti durante l’obbligo scolastico decenni fa non sono più attuali, perché i libri di testo spesso datati ed edulcorati ed esemplificano fenomeni molto complessi. A spiegarlo è ancora una volta Paolo Mieli in questo <i>L’arma della memoria</i>, che è ancora una volta una raccolta di articoli e recensioni come per altro fanno in molti (ed è quindi inutile bollarla come un’operazione “di cassetta”) e per giunta è espressione di quello che viene dipinto come il principale intellettuale organico al sistema, che sulla televisione di Stato intende spostare gli equilibri della divulgazione storica a destra o a sinistra a seconda della convenienza. Curiosamente, questi suoi articoli sono uno dei modi più interessanti per parlare di storia e di ragionare come la ricerca storica evolva nel tempo, alla luce delle nuove scoperte e interpretazioni. A ben guardare, sin da subito Mieli è molto attento a rivendicare la serietà e l’importanza del mestiere dello storico contro le derive fin troppo comuni della nostra società: il complottismo, «cioè la pretesa di modificare i termini della discussione con l’inserimento di tesi suggestive ancorché indimostrabili» su una presunta Grande Cospirazione Mondiale, e il trasferimento del dibattito storiografico nelle aule di giustizia e nelle carte dei magistrati su fatti sui quali neanche gli storici di professione sono riusciti a fare luce in modo definitivo.</span></div><p class="MsoNoSpacing" style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">Mieli affronta quindi molti dei luoghi comuni che
popolano il nostro immaginario in quanto frutto di revisioni del passato e
creazione di miti intoccabili funzionali all’interesse del momento o per
avvalorare le proprie tesi politiche o religiose, come l’idea che prima dell’avvento
della modernità nel mondo si stesse tutti fermi: in realtà ci si muoveva
continuamente, soprattutto nel Medioevo (sovrani, ecclesiastici, politici,
dignitari, soldati, studenti, mercanti), mentre a paralizzare tutto furono le
guerre napoleoniche a inizio Ottocento. La realtà è sempre più complessa di
come la si vorrebbe raffigurare: valgano gli esempi degli ambigui rapporti tra
Europa medievale e Impero bizantino fino alla sua caduta, il supposto
conservatorismo di Metternich, l’11 settembre del 1683 (l’assedio di Vienna)
quando i turchi commisero l’errore di pensare che il mondo cristiano fosse un’unità
compatta e non divisa al suo interno. E bisogna anche diffidare delle “leggende
nere”, valgano per tutte quella creata dai gesuiti del complotto giansenista
per la distruzione della Chiesa a quella della decadenza e corruzione dei
gesuiti stessi in seguito al loro scioglimento nel 1773, diffusa dai loro
nemici illuministi: in realtà, i problemi erano di natura politica e trovano la
loro origine dalla situazione del Sudamerica e dalla schiavizzazione degli indios.
Neanche il Risorgimento è così caratterizzato da bianchi e neri: si prenda l’esempio
dell’insubordinazione di Garibaldi che culminò in uno scontro sull’Aspromonte
con l’esercito regio, oppure quello del tanto calunniato Regno delle Due
Sicilie dei Borbone, che non fu così reazionario come è sempre stato dipinto:
anzi, fu capace di inglobare istanze legittimiste e altre provenienti dal
precedente regime murattiano, mantenendo (a differenza dei tanto celebrati
Savoia) le riforme del decennio napoleonico. Allo stesso modo, non è vero che i
liberali meridionali fossero affratellati dalla comune fede politica
risorgimentale, così come non è vero che i cattolici erano tutti antiunitari.</span></p><p class="MsoNoSpacing" style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">Da sottolineare anche la storia del Trattato
teologico-politico di Spinoza del 1670, un appassionato tentativo di esercitare
la libertà di pensare propugnando un clima di tolleranza e del tentativo di
bloccarlo da parte delle gerarchie religiose calviniste olandesi, che non
potevano tollerare i dubbi sollevati sulle Sacre Scritture. Nel caso di Galileo,
invece, bisognerebbe tenere conto che la questione è stata cambiata radicalmente,
tanto che nell’immaginario collettivo lo scienziato è considerato solo un
anticlericale che si scontra con </span><span style="font-family: arial;">«</span><span style="font-family: arial;">filosofi testardi</span><span style="font-family: arial;">»</span><span style="font-family: arial;"> e
</span><span style="font-family: arial;">«</span><span style="font-family: arial;">preti
che vomitano fuoco</span><span style="font-family: arial;">»</span><span style="font-family: arial;">, sminuendo di molto la ricchezza del personaggio, genio
eclettico sia matematico che umanista. Inoltre, la sua opera fu dichiarata eretica
nel 1616 ma due secoli dopo il problema dell’eliocentrismo si ripropose per il
Sant’Uffizio con un’altra opera di Giuseppe Settele che provocò una prima crepa
nella censura cattolica e fece cambiare idea in una lettura tradizionale delle
Sacre Scritture ma non contraria alla fede. E si arrivò così a Leone XIII che
stabilì, pur senza nominare Galileo, che Dio non insegnava fisica tramite Mosè,
e quindi il Concilio Vaticano II con la riapertura del caso e la commissione di
studio istituita da Giovanni Paolo II.</span></p><p class="MsoNoSpacing" style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">Una consistente parte del volume è dedicata agli ebrei,
ai loro rapporti con l’Islam che prima in qualche modo garantì i loro diritti
come </span><i style="font-family: arial;">dhimmi</i><span style="font-family: arial;"> ma poi li espulse dalla Spagna musulmana; questione molto
interessante è la tesi che presenta i rapporti degli ebrei con i re medievali
che caratterizzò larga parte della storia degli ebrei europei che cercarono con
questa “alleanza regia” di sfuggire ai potenti locali e all’ostilità nei loro
confronti: solo uno Stato centralizzato poteva garantire e appoggiare i loro
diritti, ritenendo che ci avrebbero pensato gli Stati a debellare l’antisemitismo.
Con il risultato che nel corso dei secoli la fedeltà agli Stati e ai loro
apparati e l’appoggio dato all’unificazione di Paesi come Italia e Germania
fece sì che si coagulasse contro di loro un antisemitismo che otteneva l’assenso
dell’opinione pubblica, perché gli ebrei venivano visti come i principali
rappresentati dello Stato. </span><span style="font-family: arial;">Ma è singolare il capitolo sul comportamento di Hannah Arendt durante il processo Eichmann, al centro del suo famosissimo </span><i style="font-family: arial;">La banalità del male</i><span style="font-family: arial;">: la Arendt mancò dall’aula per buona parte del processo, mise in cattiva luce i poliziotti israeliani e i Consigli ebraici ed equiparò i sionisti ai nazisti, anche se alla fine fu favorevole alla pena di morte.</span></p><p class="MsoNoSpacing" style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">Interessantissima la questione della pluralità dei
Rinascimenti non solo europei: per l’Italia e l’Europa, infatti, c’è chi fa
iniziare il Rinascimento con Petrarca, con la caduta di Costantinopoli (1453) o
con la scoperta dell’America (1492), ma altri Paesi e altre civiltà hanno avuto
in altre epoche il loro Rinascimento, inteso come apertura verso la modernità,
mentre oggi osserviamo come il Giappone, le “tigri asiatiche” e probabilmente
anche la Cina </span><span style="font-family: arial;">«</span><span style="font-family: arial;">siano all’avanguardia della modernità, anche se
apparentemente non hanno mai avuto un loro Rinascimento. Apparentemente,
appunto». Una questione che si inserisce nel più complesso tema della storiografia
globale e non eurocentrica: nonostante i proclami, gli storici hanno in qualche
caso manifestato una maggiore attenzione al resto del mondo, ma hanno sempre
ricondotto il tutto alle leggi ferree dell’eurocentrismo. </span></p><p class="MsoNoSpacing" style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">Potrà non piacere, ma Mieli è il primo a denunciare l’egemonia
che gli storici di sinistra hanno esercitato e tendono a esercitare sulla
storia della Resistenza e dei rapporti dei partigiani con gli Alleati (l’uccisione
del filosofo fascista Giovanni Gentile rientrerebbe in questo gioco molto
pericoloso), ed è abilissimo nel districare gli attriti tra Mussolini e il re
nella singolare diarchia che per vent’anni ha retto l’Italia. Allo stesso tempo
sottolinea l’occasione non colta dal duce nei confronti dei Paesi anglosassoni,
quando riuscì a godere di prestigio presso Churchill in ottica antisocialista e
il suo modello corporativo fu visto favorevolmente da Roosevelt. Tra gli altri
problemi affrontati, il terrificante microcosmo delle navi negriere con
mortalità elevata anche per gli equipaggi, la trasversale riabilitazione di
Attila, la bufala del carteggio Mussolini-Churchill.</span></p>Paolo Nardihttp://www.blogger.com/profile/08293486674441314828noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5071642644362987316.post-88167927856431847292021-10-12T18:41:00.004+02:002021-10-12T18:56:34.184+02:00Emmanuel Carrère - Yoga<p style="text-align: center;"> <img border="0" data-original-height="1570" data-original-width="1000" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjFvGaCWg8HKARcpsSfCmT8Y1TFhCeufxvbzOsA8r1Up34nbp7X3nSr4PG7AZbr5pekSdHX8DMJgIddZhOi3cMnUpmO7UPzh-5vgXimfGvWXu0Cnj-47CiLIWGN7qUdy3l0sQ-VFJwnXEY/s320/51sSp7IyiHS.jpg" style="text-align: center;" width="204" /></p><p style="text-align: justify;"><span style="line-height: 107%;"><span style="font-family: arial;">A prescindere dal mio difficile rapporto con Emmanuel Carrère, questo <i>Yoga</i> è un libro strano. Quello che
doveva essere un saggio sullo yoga come disciplina (non un’attività ginnica
trendy ma una galassia profonda che deve essere conosciuta e approfondita) è in
realtà un progetto fallito perché si è ibridato con tutta una serie di avvenimenti
ed esperienze personali (la morte del suo editore, il divorzio dalla moglie, la
caduta nella depressione, il ricovero in un reparto psichiatrico e l’elettroshock)
e di eventi della storia mondiale di questi ultimi anni (gli attentati a
Charlie Hebdo e al Bataclan, i campi dei migranti in Grecia). Ne viene fuori un’opera
disorganica e frammentata in equilibrio tra la serenità e la sofferenza, la vita e la morte, la realtà e la menzogna. E di menzogna si è parlato molto a proposito di questo libro perché Carrère ha sempre detto che
la letteratura è un ambito nel quale non si può mentire e invece in questo caso
ha cancellato la presenza della moglie durante il suo ricovero (c’era un
contratto che prevedeva non si parlasse di lei), quindi lo scrittore è stato il
primo a contraddire la sua stessa deontologia professionale. Aggiungiamoci
poi che i due mesi di volontariato da lui descritti in un campo di accoglienza
greco per rifugiati afghani erano in realtà due giorni. E così c’è gente che si
è detta scandalizzata per questo tradimento (non si mente sui migranti!) e ha rivelato
di aver buttato via la sua copia di <i>Limonov</i>. Sai che novità, come se la
letteratura non mentisse mai e Carrère non avesse mai inventato o ricamato
sulla sua vita trasformandola in fiction: anche in <i>Limonov</i> Carrère
parlava di se stesso attraverso un altro, e ne <i>Il Regno</i> parlava di San Paolo
ma in realtà parlava di San Emmanuel Carrère. In questo senso <i>Yoga</i> è un
libro molto più onesto perché fa finalmente quello che Carrère ha cercato di
fare altrove, cioè mettere in scena se stesso come protagonista della vicenda,
con l’ambizioso e narcisistico fine di ottenere il pieno riconoscimento come intellettuale
(colto e molto radical chic). Si tratta di autofiction a tutto tondo, un
racconto interiore finalizzato più alla rappresentazione di se stessi che al
superamento dei propri fantasmi (le depressione dev</span></span><span style="font-family: arial;">’essere una brutta bestia)</span><span style="font-family: arial;">. È scritto molto bene e risulta come sempre godibile,
anche se può dare sui nervi.</span></p>Paolo Nardihttp://www.blogger.com/profile/08293486674441314828noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-5071642644362987316.post-79202251748678267582021-09-18T17:53:00.000+02:002021-09-18T17:53:12.313+02:00Umberto Eco - Il superuomo di massa<p></p><div style="text-align: center;"> <img border="0" data-original-height="1536" data-original-width="1000" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgeRutvi8UQKyMR_z8eLXV8XB_La83X9DQH2a_j3JwklsUpCPjRzOPq7xI0OMt7wGeI2-zQFv8UhePqk8zOCKGWx63ankBRR3LY6MPchHJrYMjY7TmhUf4gO-sXwWpUiI-K9pXI8D100os/s320/61x9f9wuBVL.jpg" style="text-align: center;" width="208" /></div><p></p><span style="font-family: arial;"><div style="text-align: justify;">Credete ingenuamente che i prodotti pop siano banali e non politicamente impegnati? Niente di più erroneo, spiega Umberto Eco in questo suo <i>Il superuomo di massa</i>, raccolta di saggi tra la narratologia e la semiotica che risale alla metà degli anni Settanta e che è tesa a dimostrare come, secondo la dichiarazione di Gramsci, il superuomo nietzschiano non si trova in Zarathustra ma prima nel <i>Conte di Montecristo</i> di Dumas. Insomma, il superomismo è nato nella letteratura prima che nella filosofia e segue dei precisi pattern che si ripetono da due secoli. L’analisi di Eco (intellettuale sempre molto aperto al legame tra cultura alta e cultura bassa) riguarda il romanzo d’appendice o popolare: popolare non nel senso di prodotto per il popolo in quanto massa non istruita, ma genere rivolto a tutti e dalle tematiche di interesse collettivo. A differenza del romanzo problematico, il romanzo popolare blandisce il suo pubblico, dà al pubblico quello che esso si attende e finisce esattamente come tutti desiderano che finisca, una conferma delle convinzioni del pubblico di destinazione. Per questo il romanzo popolare è il genere consolatorio per antonomasia, e quindi populista e demagogico: abbonda di luoghi comuni, caratteri prefabbricati, schematizzazioni, stereotipi privi di penetrazione psicologica come nelle favole, e «di soluzioni precostituite, atte a procurare al lettore la gioia del riconoscimento del già noto», e questo a dispetto delle sue rivelazioni e dei suoi incredibili colpi di scena. Tutto deve necessariamente ritornare alla condizione di partenza, senza mutamenti, pacificando il lettore: se il romanzo popolare denuncia le contraddizioni e le storture della società, al tempo stesso offre però soluzioni consolatorie, facendo intervenire un elemento a sanare la piaga e a vendicare le vittime, oltre che il lettore turbato. Ma attenzione: romanzo popolare non significa romanzo “brutto”, perché «nel far questo metterà in opera una tale energia, sprigionerà una tale felicità, (...) da procurare piaceri che sarebbe ipocrita nascondere».</div> <div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Attraverso l’esame di autori come Balzac, Dumas e Sue, e di opere come <i>I misteri di Parigi</i>, <i>I Beati Paoli </i>e <i>Il Conte di Montecristo</i>, ed eroi come Rocambole, Arsenio Lupin (modello spregiudicato e salottiero del romanzo reazionario del primo Novecento) e Tarzan, Eco mette in luce come il feuilleton tragga spunto dalle condizioni del proletariato e sottoproletariato, un universo manicheo dove gli umili sono insidiati dai potenti e salvati solo dall’intervento del Superuomo, capace di ristabilire l’ordine e vendicare i più deboli. Una soluzione autoritaria paternalistica, autogarantita e autofondata, che agisce contro le regole consuete, anche complottando all’interno di società segrete. Modello del vendicatore è Edmond Dantès, protagonista del <i>Conte di Montecristo</i> ed eroe dai tratti byroniani che si circonda i delinquenti, assume hashish e ha persino una schiava. Questo è però solo il primo periodo del romanzo popolare, quello romantico-eroico dell’Ottocento, piccolo-borghese e artigiano-operaio: in realtà ce ne sono altri due. Quello di fine Ottocento, borghese, populista, imperialista, reazionario, razzista e antisemita, in cui «il personaggio principale non è più l’eroe vendicatore degli oppressi, ma l’uomo comune, l’innocente che trionfa dei suoi nemici dopo lunghe traversie». C’è poi un terzo periodo, quello “neo-eroico” di inizio Novecento, che «vede in scena gli eroi antisociali, esseri eccezionali che non vendicano più gli oppressi ma perseguono un loro piano egoistico di potere: sono Arsenio Lupin e Fantômas». E c’è un particolare che è importante sottolineare: il romanzo d’appendice è servito da modello come impresa editoriale e come schema narrativo-ideologico, andando così a costituire una categoria di fondamentale importanza nell’analisi del romanzo come genere letterario.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Il saggio è veramente approfondito e ben scritto, e offre a Eco l’opportunità di lasciar trasparire la sua conoscenza enciclopedica della materia trattata, senza per questo condannare i vari autori per le loro idee: valga per tutti il capitolo su Pitigrilli (scrittore anarco-conservatore per non dire qualunquista nella sua crociata contro la categoria antistorica degli “imbecilli”), che critica ma allo stesso tempo offre giustizia a un autore che meriterebbe una riscoperta, capace di trattare con disinvoltura libertina e intento moralistico i miti della società in cui viveva. Altre volte fa sorridere quando parla dell’omosessualità latente di Tarzan che ignora le profferte femminili per trovare una sorta di compensazione nell’«abbarbicarsi a un altro corpo nudo virile nell’enfasi della lotta». Infine, un saggio su James Bond e le strutture narrative dei romanzi manichei di Ian Fleming: prestante, duro, freddo e affascinante, Bond si contrappone a un malvagio straniero (anche ebreo, negro o un mix di elementi slavi, latini e tedeschi), mostruoso e sessualmente inabile (o masochista), e a una minaccia globale che nella maggioranza dei casi concerne con il nucleare. Ovviamente c’è poi una giovane donna in gravi ambasce che alla fine della missione sarà ben contenta di consolare il nostro eroe e di curare le sue ferite (seppure lui sia destinato a perderla), il tutto in un complesso intreccio in termini di gioco (c’è sempre una partita a carte) secondo una ripetizione di mosse e coppie combinatorie: «il piacere del lettore consiste nel trovarsi immesso in un gioco di cui conosce i pezzi e le regole – e persino l’esito – traendo piacere semplicemente dal seguire le variazioni minime attraverso le quali il vincitore realizzerà il suo scopo», e questo perché tipico del romanzo giallo (popolare, proprio come quello d’appendice) «non è la variazione dei fatti, quanto piuttosto il ritorno di uno schema abituale nel quale il lettore possa riconoscere qualcosa di già visto cui si era affezionato».</div></span>Paolo Nardihttp://www.blogger.com/profile/08293486674441314828noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5071642644362987316.post-46075833168724188852021-09-04T15:16:00.004+02:002022-01-16T10:01:46.693+01:00Michel Houellebecq - Estensione del dominio della lotta<p style="text-align: center;"> <img border="0" data-original-height="2048" data-original-width="1440" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgVTTSjb_K1DvYUFsoVPMqnDCUHj9s_0SeGo1HilBp3qN6J1UJTA-MaCsYZa8vSbLyptOKVQWZC1Cthv7n9Updl0m62sHQ-My9NuQMja2xoYKzIIbqF0bcbEkUZJPE6RiK9xb45oxKlWXg/s320/91LbUgAJySL.jpg" style="text-align: center;" width="225" /></p><p style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;"><span style="line-height: 107%;">Breve romanzo d’esordio
di Michel Houellebecq in parte autobiografico che rilegge il suo periodo da
programmatore informatico come esperienza esistenziale ma che, come prova lo
stesso titolo da pamphlet, <i>Estensione del dominio della lotta</i>, fa da
manifesto programmatico della poetica dell’autore. Totalmente nichilista,
racconta in prima persona la storia di un protagonista trentenne sociopatico che non riesce a
tessere relazioni con altre persone (soprattutto di genere femminile), soffre del
male di vivere, ha una forte depressione. Siamo nei territori della pura letteratura del disagio. La trama
è molto labile e noi entriamo nella testa del personaggio, espediente che permette
di raccontare l’ambiente intorno a lui, cioè una società capitalista,
ultraliberale e disumanizzata (</span><span style="line-height: 107%;">«</span><span style="line-height: 107%;">A Parigi si può anche schiattare in mezzo alla strada,
a nessuno gliene fotte niente</span><span style="line-height: 107%;">»</span><span style="line-height: 107%;">) che obbliga tutti a conformarsi alla “norma” e a dedicare
l’intera propria vita al lavoro e al falso liberalismo sessuale. Molto interessante
a questo proposito la critica alla falsa moltiplicazione di libertà portata
dalla società dell’informazione funzionale alla logica capitalistica dello
sfruttamento dei desideri, come prova la figura del collega convinto </span><span style="line-height: 107%;">«</span><span style="line-height: 107%;">che la libertà non sia altro che la possibilità di
stabilire diverse interconnessioni tra individui, progetti, organismi, servizi</span><span style="line-height: 107%;">»</span><span style="line-height: 107%;"> e che </span><span style="line-height: 107%;">«</span><span style="line-height: 107%;">il massimo di libertà corrisponde al massimo di scelte
possibili</span><span style="line-height: 107%;">»</span><span style="line-height: 107%;">. Siamo schiavi, e l’unica vera libertà diventa quella di dedicarsi al fumo. Alla fine,
ci si trova davanti a una denuncia dell’occidente contemporaneo fatta di
solitudine, noia, rapporti fasulli, insofferenza e indifferenza anche verso se
stessi: nulla è sacro (la chiesa edificata nel luogo del rogo di Giovanna d’Arco
definita </span><span style="line-height: 107%;">«</span><span style="line-height: 107%;">un ammasso di tavelle di cemento stranamente ricurve e per metà
sprofondate nel suolo</span><span style="line-height: 107%;">»</span><span style="line-height: 107%;">) e niente sembra avere senso, nemmeno quella lotta che è caratteristica
fondamentale della frenesia della vita, del lavoro, della carriera e del sesso
(tutte regolate dalla cosiddetta “legge del mercato”). Nemmeno la psicanalisi
può qualcosa: </span><span style="line-height: 107%;">«Spietata scuola di egoismo, la psicanalisi sfrutta
con agghiacciante cinismo le brave figliole un po’ smarrite e le trasforma in
ignobili bagasce dall’egocentrismo delirante, incapaci di suscitare altro che
un legittimo disgusto. Non bisogna accordare la minima fiducia, in nessun caso,
a una donna che sia passata per le mani degli psicanalisti. Meschinità,
egoismo, ottusità arrogante, totale assenza di senso morale, incapacità cronica
di amare: ecco il ritratto esaustivo di una donna “analizzata”». E lo stesso
protagonista finisce in cura psichiatrica per essere “ricentrato su se stesso”,
prima di trasformarsi (forse) in un folle che uccide donne anziane nelle
campagne. </span><span style="line-height: 107%;">Meglio quindi rompere
gli stereotipi dentro cui siamo costretti e che costringono la nostra vita e le
nostre relazioni, ricorrendo al paradosso (</span><span style="line-height: 107%;">«l’uomo è un adolescente
menomato»</span><span style="line-height: 107%;">) e all’ironia ghignante
come nel caso del crudo ritratto della brutta e grassa compagna di classe, il
cui nome – ironia della sorte – era Brigitte Bardot; oppure in quello del
racconto sugli animali intitolato <i>Dialoghi tra uno scimpanzé</i> e una
cicogna che dovrebbe essere </span><span style="line-height: 107%;">«</span><span style="line-height: 107%;">un pamphlet politico di inaudita ferocia</span><span style="line-height: 107%;">»</span><span style="line-height: 107%;">. Anche se pagine come quella del conoscente che, per
vendicarsi di una delusione in discoteca, vuole uccidere una ragazza e il
ragazzo nero che gliel’ha portata via, ma poi li vede insieme in spiaggia, si
masturba e si sfracella con la macchina, raggiungono livelli di squallore esistenziale veramente degni di nota.</span></span></p>Paolo Nardihttp://www.blogger.com/profile/08293486674441314828noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5071642644362987316.post-59915540132790069832021-09-03T16:37:00.004+02:002021-09-03T16:37:37.897+02:00Umberto Eco - Costruire il nemico<p style="text-align: center;"> <img border="0" data-original-height="1360" data-original-width="1000" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgLwoaAhkrj405htvp9PmId6fl5Alxu7iqXOEy16ZrGhN3qlXgad57lKHQQrf5Z5n9EA3jGDgrWwKu3eMAe4nD-xhx_euTNvDd21YsT0Bxc81MWFDCxyWRpi2gCt_tG35uOZeWAiMVCqKM/s320/61fkFPSRT4L.jpg" width="235" /><br /></p><p style="text-align: justify;"><span style="line-height: 107%;"><span style="font-family: arial;">C’è bisogno di qualcuno
da odiare perché è sempre difficile costruirsi un’identità. Senza arrivare alla
citazione dell’esistenzialista Sartre secondo cui “gli altri sono l’inferno”
(gli altri non sono noi, quindi sono insopportabili), è importante trovare un
nemico per stabilire e consolidare un’identità di nazione, di patria, di gruppo.
Se questo nemico non c’è, bisogna costruirlo. Lo spiega Umberto Eco in questo <i>Costruire il nemico</i>, piccolo testo-conferenza a cavallo tra la sociologia e comunicazione che
riprende le sue teorie già espresse nel romanzo <i>Il cimitero di Praga</i> (che
all’epoca non mi piacque per niente) e spiega le strategie utilizzate per
cavalcare ansie, paure e angosce della nostra società. E questo non da oggi, ma
dal tempo dei greci e dei romani: ci sono gli immigrati, i musulmani, i
fascisti, i comunisti (che mangiano i bambini), gli zingari (che i bambini li
rubano), gli ebrei (che i bambini li uccidono), gli eretici, le donne, le
streghe, anche l’alunno che non si allinea agli altri (il malvagio Franti del
libro <i>Cuore</i>, che viene esposto per sempre al pubblico disprezzo perché
non confacente al modello di regole dell’Italia postunitaria e postrisorgimentale).
Da qui la necessità di fare la guerra a questo nemico per potersi compattare: il
nemico è il diverso da noi, non condivide i nostri valori, è uno sciatto
depravato e compie veri e propri delitti, e questo si traduce in differenze
anche dal punto di vista fisico, e per questo non corrisponde all’idea di bello
e buono già propria dei greci: brutto e cattivo sono due aggettivi sempre uniti,
e per questo il nemico non solo è brutto ma è mostruoso, detestabile e puzzolente
(all’inizio della Prima Guerra Mondiale, i francesi per esempio sostenevano che
il tedesco medio produceva più materia fecale del francese, e di odore più
sgradevole). Senza andare troppo indietro nel tempo, tutte queste caratteristiche
le troviamo già in Rosa Klebb, la perfida nemica di James Bond, russa,
sovietica, mostruosa, puzzolente e per giunta lesbica. Alla fine, ci si rende
conto che l</span></span><span style="font-family: arial;">’invenzione dei</span><span style="font-family: arial;"> Due Minuti d’Odio, la pratica collettiva esercitata dal governo del
Grande Fratello nel romanzo </span><i style="font-family: arial;">1984</i><span style="font-family: arial;"> contro il malvagio Goldstein,
è stata veramente un colpo di genio da parte di George Orwell.</span></p>Paolo Nardihttp://www.blogger.com/profile/08293486674441314828noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5071642644362987316.post-35773433833482585672021-09-03T09:43:00.004+02:002021-09-03T09:43:21.126+02:00Joël Dicker - L'enigma della camera 622<p></p><div style="text-align: center;"> <img border="0" data-original-height="1693" data-original-width="1189" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjusHMqeT7mLqK3AOU_fZQyVtFlHOlUlJspfj_QI-ykOunrdm3XPivPBAFPsXiRL62vQN0Dye2o6LhwYd2Nl4CuWYSGjpXSphQvl_C_kyotcHnqXhFLOm7Bytt4Rxm3lAcXkfyGlQ9uJow/s320/71GT0I7LDNL.jpg" style="text-align: center;" width="225" /></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;"><span style="font-family: arial;"><span style="line-height: 107%;">Con questo <i>L’enigma
della camera 622</i> Jo<span style="background: white;">ël Dicker</span></span><span style="line-height: 107%;"> ci regala un altro volume fluviale, un altro giallo,
ma anche un romanzo autobiografico e metatestuale. Un romanzo contaminato, che
può sembrare un po’ cervellotico ma che allo stesso tempo risulta decisamente
affascinante. Per la prima volta
nei roma</span><span style="line-height: 107%;">nzi di Dicker, il
protagonista è proprio Jo<span style="background: white;">ël Dicker, non un suo
pseudonimo come Marus Goldman, e</span> la vicenda non è ambientata più negli
Stati Uniti ma nella natia Svizzera, tra Ginevra e Verbier (paese delle Alpi
svizzere): qui scopre che all’Hotel des Bergues manca la stanza 622, sostituita
dalla 621 bis. Insieme a un’altra ospite, Scarlett, comincia a indagare e
scopre che è tutto legato a un omicidio irrisolto: il </span><span style="line-height: 107%;">tutto gira intorno alla presidenza di una banca, la
Ebezner, la cui presidenza si è tramandata fino a ora direttamente di padre in
figlio ma ora improvvisamente affidata alla decisione del consiglio di
amministrazione: protagonisti della rivalità per la successione sono Macaire
Ebezner (l’erede di buona famiglia sottovalutato da tutti) e Lev Levovich
(l’orfanello che vuole fare carriera e affermarsi in società), i quali per
giunta ambiscono alla stessa donna, Anastasia. Oltre a loro ci sono il
tenebroso uomo d’affari, i segreti delle banche, i servizi segreti, avvelenamenti,
mascheramenti, doppi e tripli giochi, con colpi di scena e personaggi che
sembravano secondari ma si rivelano per nulla tali: e di personaggi ce ne sono
tantissimi, compreso il personale dell’albergo di Verbier. C’è addirittura
l’idea del patto col diavolo, anche se si rimane sempre su un piano molto
reale. A differenza </span><span style="line-height: 107%;">de <i>La verità sul caso
Harry Quebert</i> e <i>La scomparsa di Stephanie Mailer</i>, questa volta la
vicenda narrata è molto più vicina a <i>Il libro dei Baltimore</i> perché </span><span style="line-height: 107%;">la componente investigativa è molto ridotta ma abbonda il racconto di come le
dinamiche familiari, le aspirazioni, il potere e i soldi possano portare a un
punto di non ritorno. Per il resto la struttura è la stessa degli altri romanzi perché resta
la contrapposizione tra cose succ</span><span style="line-height: 107%;">esse nel passato (anche su più livelli temporali) e quello che succede
nel presente, con un continuo saltare da un piano all’altro come se fosse una
matrioska: inutile dire che la cosa aumenta l’intrigo ma fa anche perdere la
pazienza, perché come al solito </span><span style="background: white; line-height: 107%;">Dicker (che scrive benissimo) tende a tirarla
pedissequamente per le lunghe e a perdersi nell’ammirazione della sua stessa bravura
(fino a oltre la metà del libro non viene nemmeno rivelata l’identità della
vittima della camera 622, e anche questo lascia spazio a tutta una serie di
congetture da parte del lettore). </span><span style="line-height: 107%;">L’esile cornice autobiografica offre a Dicker l’occasione di ragionare
sulla narrativa e di parlare del suo rapporto con la scrittura e soprattutto con l’editore Bernard de Fallois, recentemente scomparso, che l’ha
preso sotto la sua ala protettiva (e si sente sinceramente quanta stima e
nostalgia ci sia per questo personaggio da parte di Dicker): in questo senso la
figura del mentore e dello scrittore sono assolutamente reali, anche se c’erano
già ne <i>La verità del caso Harry Quebert</i> con nomi diversi.</span></span></div><p></p>Paolo Nardihttp://www.blogger.com/profile/08293486674441314828noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5071642644362987316.post-41646139232030858352021-07-30T15:55:00.002+02:002021-08-03T10:45:51.261+02:00Giuseppe Cruciani - I fasciovegani<p></p><div style="text-align: center;"> <img border="0" data-original-height="2048" data-original-width="1355" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEilr8Gg8DLx2dsIIQxcztNOrUnPrcRIqH9rcwgYc6WcdA3NlvPLiXH9QHiBIBw1MjAvWR6PCq3iyG7MR7IHHRIe7jHuUMcMILxPW5tqvmvQ173XHjXWS2JzCB7XX4OMT9c80H0PuBCq1Kc/s320/713zAFDQjUL.jpg" style="text-align: center;" width="212" /></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;"><span style="font-family: arial;"><span style="line-height: 107%;">Avete presente Giuseppe Cruciani, quel furbissimo e abilissimo provocatore che conduce <i>La
Zanzara</i> insieme a David Parenzo? Qualche anno fa una delle sue principali
imprese è aver fatto infuriare i vegani mangiando carne di coniglio e brandendo
un salame in studio, e da questa storia ci ha addirittura tratto un libro, <i>I
fasciovegani</i>. Chi sono costoro? Degli estremisti intolleranti che credono
di essere in possesso della Verità e di doverla imporre a tutti gli altri: non
mangiare più la carne e tutti i derivati animali. Non solo: costoro paragonano
lo sterminio degli animali da parte dell’industria delle carne a quello degli
ebrei da parte dei nazisti (curiosamente le stesse cose che si dicono oggi sul
vaccino e sul Green Pass) e giungono ad accusare i carnivori di essere complici
di un assassinio perché mangiano un animale. Le critiche di Cruciani sono
motivate da convinzioni ultraliberali e antidittatoriali, anche perché il
nostro dice che la scelta individuale non è in discussione e riconosce che ognuno
in privato fa quello che vuole ed educa i figli come vuole (a patto di
assumersene le responsabilità): diverso è imporre la propria visione agli altri
accusandoli di compartecipazione in un crimine cruento. Non si tratta più di
salute, ma di etica e filosofia (caratteristiche del tutto umane, non animali),
tanto che, da parte dei fasciovegani, è tutto un augurio di sofferenze, tumori
e morti dolorose a macellatori, chef, cacciatori e toreri, oltre che invocazioni di sterminio dell</span></span><span style="font-family: arial;">’umanità da parte di un cataclisma (meglio sopravvivano solo gli animali, perché almeno loro sono buoni)</span><span style="font-family: arial; line-height: 107%;">. Curiosamente, le più
scatenate sono le donne, spesso </span><span style="font-family: arial; line-height: 107%;">«</span><span style="font-family: arial; line-height: 107%;">madri di famiglia, ragazze e signore che nei loro
profili su Facebook mettono foto dolcissime con cani e gatti addosso. Immagini
di felicità, di spensieratezza, di affetti</span><span style="font-family: arial; line-height: 107%;">»</span><span style="font-family: arial; line-height: 107%;">, segno di un malessere profondo della società che
nasconde un sacco di rabbia e rancore (ancora, come nel caso dei vaccini e del
Green Pass). Cruciani passa quindi in rassegna i più famosi esponenti della galassia
veg, come Red Ronnie (convinto che si faccia meglio l’amore da vegani che da
carnivori), Red Canzian (quello che sostiene che maiali sono più intelligenti
dei bambini di tre anni perché hanno abilità nei videogiochi) e Daniela Martani
(l’attivista che sostiene che perfino le gelaterie vanno chiuse e che bisogna invitare
i titolari delle macellerie a cercarsi un’altra attività più in linea con i
diritti “umani”). Alla fine, si prova qualche ragionamento sul fatto che l’allevamento
intensivo, quando condotto nel rispetto delle regole, svolge una funzione
essenziale per fornire la carne alla società occidentale, a prezzi sostenibili
da tutti e non soltanto da pochi; a far riflettere è piuttosto il fatto che, a
fronte di una diffusione che corrisponde al 10% scarso della sua rappresentatività
rispetto alla popolazione italiana, la politica utilizzi le spinte animaliste
come fattore di propaganda, come provano l’utilizzo di agnelli da parte sia di Laura
Boldrini sia di Silvio Berlusconi come calamita pubblica delle istanze
animaliste.</span></div><p></p>Paolo Nardihttp://www.blogger.com/profile/08293486674441314828noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-5071642644362987316.post-72676456156903463552021-07-24T10:33:00.001+02:002021-07-24T10:33:26.628+02:00J.R.R. Tolkien - The Hobbit. Audiolibro letto da Andy Serkis<p style="text-align: center;"> <img border="0" data-original-height="1558" data-original-width="1500" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEinSjC2xmcasCxFsaCy720PwCSw7_vNPQMwIiTWf7AKAVM6KazlbVYt2Oeq7h8KDebxQ0TtuXJsTycdZWmseP8dWkqYZC0GbHg6HMHeRITcPX1xn9gjBC-TkoVnC3_um-JW5esMd5zvSIM/s320/81ci5cKRonL.jpg" /></p><p style="text-align: justify;"><span style="line-height: 107%;"><span style="font-family: arial;">Tutti conosciamo Andy
Serkis: autore di grande spessore, ha il merito di aver interpretato alla
grande il personaggio di Gollum nelle trasposizioni cinematografiche dell’opera
di Tolkien da parte di Peter Jackson. Proprio Serkis, nel maggio 2020, in pieno
lockdown, ha eseguito una lettura dal vivo senza interruzioni di 12 ore del
libro <i>Lo Hobbit</i> per raccogliere fondi per la pandemia (e ha raccolto più di 400.000
dollari), e in seguito ha registrato un audiolibro, <i>The Hobbit</i> appunto. Ed
è notizia di pochi giorni fa che proprio Serkis è al lavoro per realizzare un nuovo audiolibro
del <i>Signore degli Anelli</i>, leggendo l’intera trilogia, segno che l</span></span><span style="font-family: arial;">’operazione </span><span style="font-family: arial;">deve aver avuto successo. E a piena ragione. Non arriviamo ai
livelli di straordinarietà di un prodotto pur non professionale come quello di
Phil Dragash sul </span><i style="font-family: arial;">Signore degli Anelli</i><span style="font-family: arial;"> su YouTube (che includeva anche
rumori ambientali e la colonna sonora del film, cosa impossibile in un prodotto
ufficiale tenendo conto di quanto costano i diritti, e infatti glielo hanno rimosso), ma anche qui Serkis fa
tutte le diverse voci, in modo tale che ogni personaggio abbia la propria
personalità e sia facilitato nell’immersione della storia, cosa che a mio
avviso costituisce il valore aggiunto degli audiolibri. Sentire poi Serkis che
torna a interpretare il personaggio di Gollum è sempre un’emozione. È inutile
negare il rapporto con la trasposizione cinematografica di Jackson, e non
potrebbe essere altrimenti visto che Serkis, oltre che il personaggio di
Gollum, è stato regista della seconda unità di regia de </span><i style="font-family: arial;">Lo Hobbit</i><span style="font-family: arial;">: le
canzoni (come quella dei nani) sono quelle del film di Peter Jackson, così come
la caratterizzazione dei personaggi (oltre all’ovvio Gollum, anche Gandalf
assomiglia molto a Ian McKellen e Bilbo a Martin Freeman, ma pensiamo anche a
Beorn). Ai nani viene spesso dato un accento scozzese, ma è con i cattivi che
Serkis dà il meglio: gli orchi, i ragni e il drago Smaug, con i quali gioca
spesso su tonalità basse e gutturali. Se siete tolkieniani e capite l’inglese,
l’ascolto è obbligato.</span></p>Paolo Nardihttp://www.blogger.com/profile/08293486674441314828noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5071642644362987316.post-89103178100460630882021-06-30T16:48:00.002+02:002021-06-30T16:48:51.134+02:00Emmanuel Carrère - Il Regno<p></p><div style="text-align: center;"> <img border="0" data-original-height="1373" data-original-width="868" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj-C92d23f8gWWXmvAIEh_fydqvqGXDTI5LgfO0g9oPr0OdwTvabOi14ArSkMxCsj2LeZNR83OS7D32HOiQ9kjDMJboMwfp12UWWGrJMRl1Ilc5tbhiA19Yt7kAem_4-BSY1E1l1e8mK5s/s320/61zSZ6YVe3L.jpg" style="text-align: center;" /></div><p></p><span style="font-family: arial;"><div style="text-align: justify;">Un libro strano questo <i>Il Regno</i>, che nasce dall’esperienza di sceneggiatore da parte di Emmanuel Carrère di quel capolavoro che è la serie <i>Les Revenants</i>: in fondo la pretesa è la stessa, raccontare i giorni prima della fine, la resurrezione dei morti e il Giudizio universale, con una comunità di eletti che si forma intorno a un evento stupefacente. Infatti, questa volta la pretesa è niente meno che quella di raccontare il cristianesimo delle origini, nato intorno alla resurrezione di Gesù Cristo, nella Francia di oggi, ovvero il Paese più scristianizzato del mondo. Ma, come nell’eccezionale <i>Limonov</i>, non si riesce a capire dove finisca l’argomento trattato e dove incominci la vita dell’autore, e viceversa. Sembra quasi che il dandy e problematico Carrère, figlio dell’élite culturale parigina, non possa fare a meno di parlare narcisisticamente di se stesso. Sin dalle prime pagine di questo voluminoso librone non ha timore di definirsi un radical chic per il quale il corso di yoga della domenica mattina ha preso il posto della messa, durante la quale i credenti recitano il Credo, «ogni frase del quale è un insulto al buonsenso». Il suo approccio è quello del classico agnostico alla ricerca della Verità, che si vergogna troppo a credere alla religione e tenderebbe a irridere chi lo fa, ma non lo fa perché si vergogna anche di questo e perché sarebbe troppo scortese. D’altra parte, suo padre (un po’ voltairiano, un po’ maurrassiano, non marxista ma d’accordo coi marxisti) la domenica lo portava a messa e si dispiaceva che la messa non fosse più in latino perché «in latino non ci si accorgeva che scemenza fosse». In realtà Carrère ha alle spalle un’esperienza cristiana: “iniziato” dalla madrina Jacqueline, poetessa e autrice di buona parte dei canti religiosi che si sentono nelle chiese francesi dopo il Concilio Vaticano II, è stato cristiano per un certo periodo tra il 1990 e il 1993, particolare che lo porta ancora a subire le battute sarcastiche dei figli. In quel periodo, oltre ad andare a messa tutti i giorni, ha addirittura commentato ogni giorno qualche versetto del Vangelo secondo Giovanni, arrivando a riempire una ventina di quaderni. Ex convertito, ex credente, agnostico di ritorno, ha anche una solida amicizia con Hervé Clerc, teista esoterico e “buddista parziale”, e tutti questi particolari (per tacere dei rimandi a Philip K. Dick, autore di culto del Nostro, e dei problemi incontrati con la babysitter) danno l’idea di quanto l’autobiografia entri prepotentemente nella raffinata prosa di Carrère e nell’analisi dell’argomento trattato.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Ma a cosa allude <i>Il Regno</i> del titolo? A quello dei cieli, che poi è quello che Gesù spiega nelle parabole, il Regno di Dio che poi allude anche al Regno d’Israele. Seguendo un certo filone della storiografia marxista, Carrère sostiene neanche troppo velatamente che il vero fondatore del cristianesimo è stato San Paolo, l’apostolo dei gentili, dogmatico e granitico, poco interessato a Gesù ma assolutamente convinto della sua missione di evangelizzatore e di sistematizzatore della nuova religione e della sua Chiesa: all’epoca era considerato solo un agitatore, ma poi la storia, dopo la distruzione di Gerusalemme, lo ha trasformato nel capo (ormai morto) di una chiesa degiudaizzata. Per questo Carrère analizza l’intero corpus delle lettere paoline, contrappone Paolo a Giacomo come Stalin a Trotskij, parla del rapporto tra Paolo e l’evangelista Luca, il medico macedone che segue Paolo di Tarso per terra e per mare e gli dedica poi la sua prima biografia, e cioè gli Atti degli Apostoli, mescolando vero e verosimile: Carrère lo affronta come un autore che spesso inventa e aggiusta la narrazione a seconda delle sue esigenze, si rivede in lui, si immedesima con lui e diventa lui, colmandone vuoti e incongruenze. Ed è bene sottolineare che Carrère, ex cristiano ma ora agnostico, crede alla storicità di Gesù ma non crede alla Resurrezione o alla verginità della Madonna, anche se in fondo vorrebbe farlo, perché il suo è un viaggio nella religiosità di un uomo con tutti i suoi dubbi, il suo ego e le sue fragilità e che accetta di non sapere, senza scadere nel dogmatismo o nella cieca adesione a un credo. D’altronde, è più importante il viaggio che la meta, e a Carrère la storia sembra sempre narrativa e ogni volta che ha che fare con il periodo romano gli sembra di entrare in un fumetto di Asterix, e la vita di Gesù è stata straordinaria ed è stato ucciso per aver detto di essere il figlio di Dio, «anche se non ci sono prove che lo fosse realmente». E poi esistono delle similitudini tra la scomparsa del suo corpo dal sepolcro e quella del corpo di Bin Laden voluta dagli americani per evitare il culto jihadista. Anzi, Carrère non si risparmia nemmeno vere e proprie blasfemie, come quando ipotizza che Maria abbia avuto le sue esperienze sessuali e si sia masturbata come tutte le donne: a questo proposito, il Nostro confessa il suo amore per la pornografia e racconta il video di una brunetta che si masturba davanti a una telecamera da rivedere infinite volte e da condividere con sua moglie. Troppa grazia.</div></span><span style="font-family: arial;"><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Affastellando fonti e saggi storici, dalla Bibbia dei Settanta (prima versione in greco dell’Antico Testamento) alle persecuzioni cristiane sotto Nerone e Diocleziano, passando per la <i>Guerra giudaica</i> di Flavio Giuseppe e l’intero corpus di lettere paoline, non manca nemmeno di fare riferimento al mito greco di Ulisse e Calipso, definita «il prototipo della bionda, quella che ogni uomo vorrebbe farsi ma non necessariamente sposare, quella che apre il gas o ingoia un tubetto di sonniferi la notte di Capodanno mentre l’amante festeggia in famiglia». Perché in fondo Ulisse è Carrère (sempre lui), che ha trovato casa con la seconda moglie a Patmos, dove San Giovanni (sempre che sia lui, e non un altro Giovanni) ha scritto l’Apocalisse. Eh sì, perché intanto il matrimonio con la prima moglie è naufragato, vittima sacrificale della religione e della psicanalisi. Tra i tanti momenti di cazzeggio non mancano nemmeno cose interessanti, come la notazione che il greco del Vangelo di Marco sembra l’inglese di un tassista di Singapore. E così, alla fine di questi Atti degli Apostoli secondo l’evangelista Carrère che finiscono per assomigliare a un grande feuilleton colto a base di intrighi, scontri e amori incestuosi, resta una domanda: a cosa credeva il Nostro tra il 1990 al 1993 quando è stato cattolico praticante e andava a messa tutti i giorni, arrivando perfino a sposare in chiesa la madre dei suoi primi due figli con rito melchita celebrato al Cairo da un prete vallone? La fascinazione del mistero, forse. Ma in maniera non troppo convinta, perfetta per questa epoca in cui ognuno dice di credere “a modo suo” e “Gesù si, Chiesa no”.</div></span>Paolo Nardihttp://www.blogger.com/profile/08293486674441314828noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5071642644362987316.post-65500989147819385892021-06-09T09:00:00.001+02:002021-06-09T09:00:00.263+02:00Howard Phillips Lovecraft - L'ombra su Innsmouth<p style="text-align: center;"> <img border="0" data-original-height="1050" data-original-width="750" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjIy6CLWG4yMFY9MSrBVKuj7Ck-ubLDyfk5LD7vnDbkV8xIMg13K2-w-YVLR8SPm-aKshirRZKPyYZzdxKztA6ssA1lyibckD-v3mGtA_kEpSwggxoHgXXrl3Z6zMdGEQ3AZZGZe7ksInk/s320/su0d4wc2end31.jpg" /></p><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">Senza alcun dubbio, <i>L’ombra su Innsmouth</i>, tradotta anche come <i>La maschera di Innsmouth</i>, è da annoverare tra i capolavori di Lovecraft. È uno di quei racconti che distillano in modo irripetibile la “cartografia sinistra” del New England che il Solitario di Providence ha così accuratamente disegnato nelle sue opere. La trama non è troppo originale, anche se satura di riferimenti autobiografici e angosce personali: un uomo (alter ego dello stesso Lovecraft) decide di fare una gita a Innsmouth, cittadina immaginaria della zona di Providence di cui si sussurrano cose terribili. Una volta giunto sul posto scopre non solo che la città (sonnolenta e torbida e con le case sordide come doveva essere la provincia americana di quei tempi) è in mano a una razza di ibridi fra gli umani e orribili creature marine, ma che lui stesso porta nel suo sangue la “Maschera di Innsmouth”, il marchio del DNA alieno, che potrebbe essere interpretata come una tara genetica, a carattere ereditario, frutto di un’ibridazione della specie (vista con orrore da un razzista come Lovecraft), che deforma i lineamenti e cagiona difetti fisici, ma sempre in relazione ad antichi culti giunti da lontano che sono espressione di diversità aliena, incomprensibile agli occhi umani e alla razionalità umana: anche quando parla di un’antica tiara custodita nel museo si dice che fa riferimento a una tecnica sconosciuta a tutti i continenti, quasi provenga da un altro pianeta. Questi difetti finiscono per attecchire, quasi fossero una contaminazione radioattiva, corrompendo l’ambiente fisico. Innsmouth è un catalizzatore di orrore: prima ancora che il protagonista giunga con la corriera a vederlo coi propri occhi dai finestrini sporchi, Innsmouth è malvagia, aliena, sconosciuta e incomprensibile nei racconti dei testimoni. Non per niente è da Innsmouth che proviene Asenath Waite, la dark lady degli inferi del racconto <i>La cosa sulla soglia</i>, uno dei pochi personaggi femminili creati da Lovecraft, colei che comincia a controllare sempre di più il marito e a praticare su di lui esperimenti di mesmerismo telepatico e scambi di personalità, tanto da trasformarlo anche nella psiche e nel corpo. Dal punto di vista stilistico, Lovecraft mantiene sempre il suo approccio scientifico: il protagonista si avvicina a Innsmouth con rigore e perizia quasi etnografica, prendendo informazioni geografici, storici e culturali (analizza perfino i manufatti provenienti dalla città). La genialità sta poi nel far venire a galla tutto il mistero attraverso il plot device di far narrare al protagonista la storia della cittadina da un barbone alcolizzato, Zadok Allen. Tutto, o quasi tutto, quello che avviene di orrendo avviene fuori campo, appena intravisto, ma non per questo fa meno paura. E la cosa peggiore è la scoperta che non solo là fuori ci sono i mostri, ma siamo mostri pure noi: i mostri sono la maschera di qualcosa di malsano che alligna tra le nostre radici personali e sociali.</span></div>Paolo Nardihttp://www.blogger.com/profile/08293486674441314828noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5071642644362987316.post-21515788015546991762021-06-08T12:28:00.001+02:002021-06-08T12:31:40.076+02:00Arturo Pérez-Reverte - Il Club Dumas<p style="text-align: center;"> <img border="0" data-original-height="1112" data-original-width="774" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjwpFbJT0zrlBnSfNX-lyKcP_I-k4HEKeF7jFMLeDTXKkpkQtpyx-cOYQ54IbwRYl-ekXeHgJWBC7wNh7oV6gLhHx-JpTQS7B1PRbqcqSlrTqInpVIg4qQm1lxVUb_uV-vANUlx1Hczic4/s320/71RkAJ7trzL.jpg" style="text-align: center;" /></p><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">Era il 2003 quando scoprii Arturo Pérez-Reverte, divorando il suo <i>Il Club Dumas</i> in soli tre giorni. Poi ho letto molti altri suoi romanzi, ma il primo amore non si scorda mai: un thriller letterario e libresco che mi sono riletto con estremo gusto e soddisfazione e ho maturato la convinzione che non sia invecchiato di un giorno. Il protagonista, Lucas Corso, è un cacciatore di libri mercenario per conto di ricchi collezionisti in cerca di edizioni introvabili o manoscritti unici. È un cinico solitario con l’hobby dei giochi da tavolo sulle battaglie napoleoniche (un suo avo è stato granatiere e fervente bonapartista): ovviamente, essendo un cacciatore di libri, ha una cultura immensa e la letteratura è il suo universo di riferimento, ma è anche un lavoro e questo si tramuta per lui in un rapporto di odio/amore che aumenta il suo cinismo. Corso da una parte si ritrova davanti al misterioso suicidio per impiccagione di un editore di ricette gastronomiche con la passione per i romanzi d’appendice che possedeva (e aveva tentato di vendere) una copia manoscritta de “Il vino D’Angiò”, 42° capitolo de <i>I tre moschettieri</i> di Alexandre Dumas; dall’altra invece viene incaricato da un altro cliente di reperire tutte le tre copie esistenti di un diabolico testo di occultismo in grado di evocare il demonio, Le nove porte del regno delle ombre stampato a Venezia dal tipografo Aristide Torchia bruciato sul rogo a Campo de’ Fiori nel 1667. Quindi nel primo caso deve stabilire l’autenticità del Dumas per conto del suo nuovo acquirente, nel secondo deve recuperare le tre copie del volume per stabilire quale sia l’originale e quali le copie (pare che l’originale sia stato scritto da Belzebù in persona).</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">Tra indagini, omicidi e depistaggi fra Toledo, Lisbona, Parigi e Meung, mentre Corso è accompagnato da una misteriosa ragazza (diavolo o angelo custode?) con un’ottima cultura e uno strano senso dell’umorismo, le due vicende si intrecciano in modo tanto oscuro che non si capisce bene quale sia la trama principale, se quella legata al capitolo di Dumas o quella della ricerca del libro esoterico. Anzi, Corso deve affrontare una serie di avventure rocambolesche simili a quelle affrontate dal giovane d’Artagnan alle prese con una Milady e un Rochefort che lo conducono nelle spire del Club Dumas del titolo, una serie di fanatici de <i>I tre moschettieri</i> che vivono in una contemporaneità plasmata su ruoli e situazioni del romanzo, trasformandola (e trasformando quella di chi incontrano) in un gigantesco feuilleton vivente simile a un gioco di ruolo. Questo non è un particolare di poco conto, visto che il film che da questo romanzo è stato tratto, <i>La nona porta</i> di Roman Polanski, non funziona proprio perché elimina del tutto la faccenda del Club Dumas e conserva solo l’indagine esoterica, quella di più facile presa per lo spettatore (che magari non conosce </span><i style="font-family: arial;">I tre moschettieri</i><span style="font-family: arial;">)</span><span style="font-family: arial;">, e quindi tradisce profondamente il romanzo di Pérez-Reverte.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">Siamo nell’ambiente dei bibliomani fanatici, gente disposta a tutto per mettere le mani su un manoscritto o una prima edizione e che fonda cose tipo la Confraternita degli Arpionieri di Nantucket; per non parlare del libraio che ha imparato a scrivere mentre suo padre gli dettava i testi di Azorín e utilizza il suo periodare con molti e punti a capo per sedurre le clienti nel retro della sua libreria dove conserva i classici erotici; o il ricorso alla terminologia militare delle battaglie napoleoniche per descrivere Corso che fa cilecca a letto. Anche il punto di vista del personaggio utilizzato per raccontare la storia è assolutamente centrato e motivato, alla luce della costruzione generale dell’opera. Numerosissime sono le dissertazioni letterarie sul feuilleton, sul romanzo popolare o d’appendice, sui cattivi più memorabili, sugli incipit più folgoranti, su Dumas, Paul Féval, Ponson du Terrail, Arthur Conan Doyle ed Edgar Allan Poe: tutto questo sancisce il potere dei libri nella vita degli uomini e la creazione di una dimensione parallela in cui verità e finzione coesistono, esattamente come i libri che aprono all’abisso e all’inconcepibile. La stessa ragazza che accompagna Corso si presenta come Irene Adler, l’unica donna a essere riuscita a far innamorare di sé Sherlock Holmes, e sul suo passaporto riporta come indirizzo di casa il 221b i Baker Street (la casa di Sherlock Holmes).</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">Tutto questo fa de <i>Il Club Dumas</i> un parente molto prossimo de <i>Il nome della rosa</i> di Umberto Eco (tra l</span><span style="font-family: arial;">’altro citato esplicitamente)</span><span style="font-family: arial;">: come Guglielmo da Baskerville, Corso trova i moventi dei fatti negli altri testi, come se i testi fossero dei misteri ermetici da decifrare, perché “i libri, spesso, parlano di altri libri”. E dal gioco intertestuale parte quello bibliografico: sono infiniti i dettagli e i riferimenti di una sterminata bibliografia di testi più o meno antichi (e più o meno esistenti), dentro cui è possibile trovare ragioni e moventi del reale. Leggetelo, magari scoprirete che anche la vostra vita è un grande ed entusiasmante feuilleton.</span></div>Paolo Nardihttp://www.blogger.com/profile/08293486674441314828noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5071642644362987316.post-33930484583322918312021-05-06T09:00:00.001+02:002021-05-06T09:00:00.254+02:00Aldo Cazzullo - A riveder le stelle<p></p><div style="text-align: center;"> <img border="0" data-original-height="1399" data-original-width="1000" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhX4FVXgKM9oJa4MT8BeyOJD4_GPk9GLb0C2kX0EAyd8N58upiSR_r3jYXSr_omOpEK1fm0atNO2hiHW3yPCLYI97a0iFLPtrgogzQxIzRat86KDlQPVBblH8lEzDnmIcPJ3I1km5P_nOI/s320/61UVCFtW3UL.jpg" style="text-align: center;" /></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;"><span style="line-height: 107%;"><span style="font-family: arial;">Il 2021 è un tripudio di
celebrazioni per il 750° anniversario della morte di Dante Alighieri; abbiamo
da poco celebrato il Dantedì, fissato il 25 marzo nel giorno in cui il poeta avrebbe
iniziato il viaggio narrato nella <i>Divina Commedia</i>. Si registra un
rinnovato interesse per l’argomento e da più parti fioccano le ricorrenze che
ci mostrano statue e immagini con l’inconfondibile profilo del poeta (anche se,
da quel che diceva il suo primo biografo, Giovanni Boccaccio, e di un ritratto
custodito nella stanza del sindaco di Orvieto, Dante aveva la barba,
particolare inconcepibile in quanto “rivoluzionario”). Qualche mese fa sono
usciti il bellissimo volume di Alessandro Barbero, una biografia storica su
Dante capace di raccontare il suo tempo anche attraverso i suoi versi e le
posizioni da lui espresse nelle sue opere, e questo <i>A riveder le stelle</i>
di Aldo Cazzullo, una rilettura dell’<i>Inferno</i> dantesco che si fa
apprezzare per il taglio divulgativo. La cosa singolare è che Cazzullo è un giornalista
che si è occupato spesso di identità italiana: anche in questo caso, come si
vede dal sottotitolo “Dante il poeta che inventò l’Italia”, Cazzullo vuole
ripercorrere il viaggio nell’aldilà di Dante come un vero e proprio viaggio in
Italia, soffermandosi in tutti i luoghi che Dante cita e mettendoli in
collegamento con quello che sarebbe successo nei secoli dopo fino a oggi
(soprattutto nel Risorgimento, nella Prima e nella Seconda Guerra Mondiale).
Per Cazzullo l’Italia non nasce da accordi diplomatici o politici ma dall’arte,
dalla cultura e dalla bellezza, un’idea molto romantica che ne fa l’erede dell’impero
romano e della classicità (Virgilio, Ovidio, Orazio) e la terra dei papi e
della cristianità. Per questo il viaggio di Dante non è solo Paolo e Francesca,
Farinata degli Uberti, Brunetto Latini, Pier delle Vigne, il Conte Ugolino (che
comunque nel libro ci sono e vengono tutti inquadrati nel loro contesto di
riferimento), ma è anche e soprattutto un viaggio in Italia, di cui Cazzullo
mette in mostra ogni angolo: Scilla e Cariddi, l’Etna, il Golfo del Quarnaro, il
Lago di Garda, l’Arsenale di Venezia, le città della Toscana, Roma. In questo
suo viaggio Cazzullo cita di tutto, da Battiato e Venditti a Harry Potter, per
mostrare come Dante è un fenomeno pop, ancora attualissimo e citato (più o meno
consapevolmente) da tutti. Lo stesso Virgilio, che nel poema ha il ruolo di
guida, è diventato il nome di un motore di ricerca. Dante parla soprattutto di
noi: “Nel mezzo di cammin di nostra vita” indica che si rivolge non solo
all’Italia del suo tempo ma a un’Italia eterna, popolata degli stessi vizi (la
divisione, la corruzione) ma anche con virtù straordinarie. Abbracciamoci e
vogliamoci tanto bene: all’epoca siamo riusciti a superare la peste nera e
abbiamo inventato il Rinascimento, oggi riusciremo a uscire dal Covid.
Inventando l’Italia, Dante ci ha datò un’idea di noi stessi, e oltretutto ha
inventato l’italiano, come si vede dalle sue espressioni entrate nell’uso
comune come “se ne sta sola soletta”, “l’inferno non la tange”, il “bel Paese”,
essere “degno di nota”, “cosa fatta capo ha”, oltre al famosissimo “e quindi
uscimmo a riveder le stelle” che dà addirittura spunto per il titolo del
volume. Noi parliamo come Dante, quindi pensiamo come Dante, senza neanche
rendercene conto. Qua e là si leggono cose che non si vorrebbero leggere, tipo
quando Cazzullo scrive che Colombo che raggiunse il Nuovo Mondo per dimostrare
che la Terra era rotonda e dimostra così di non aver ascoltato le conferenze di
Alessandro Barbero sulle bufale sul Medioevo (nessuno a partire dall’antichità,
eccezion fatta per gli americani, ha mai pensato che la Terra fosse piatta).
Affascinante però l’interpretazione del canto di Ulisse per cui Ulisse è Dante,
l’uomo che non torna a casa ma supera le Colonne d’Ercole ed esplora un mondo
sconosciuto. Non manca neppure una nota sul proto-femminismo di Dante,
particolare che si vede in una concezione molto moderna della donna, capace di salvare
il genere umano.</span></span></div><p></p>Paolo Nardihttp://www.blogger.com/profile/08293486674441314828noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5071642644362987316.post-10740990320471556342021-05-05T11:25:00.006+02:002021-05-05T11:33:16.450+02:00Beppe Severgnini - Interismi / Altri interismi / Tripli interismi! / Eurointerismi<div class="separator" style="clear: both;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><img border="0" data-original-height="350" data-original-width="227" height="303" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjSzNZLueFu4icdF4e-fhyphenhyphen1nuG7MWNDc-MNDAnN1vFxhJrUHjE_fZv_jrFf2gPuUOT2d7o_wa2_Etn4-i1qqB5ZkYFu_JTgSESJdarNjYcF0tcewBHV5ozq16EF0fXScqu6hVyOG1LOF9o/w197-h303/unnamed.jpg" width="197" /> <img border="0" data-original-height="305" data-original-width="200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi6AdXoa4l4vC8tTfAvSHAoPux8IweW1QgelssVSbyEubiiK0LbyP19Q-Y2CiV4787RIYdM1g8ag7O_DfGRzq2O7qpLWc1p0Fw-A0MHjAL4-AWxl6IfwFU1jK8W5lDOlwql7YhsKIE-TwA/s0/9788817107365_0_0_0_75.jpg" /> <img border="0" data-original-height="376" data-original-width="246" height="321" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhZTH6ImpBTbIAHM4oA3OvXxnGuZek6DEaHIU5caxy8f-_lU7WK8FA5qsGKKPPRJOT3n64IzDInkFuAnCxCrUPj8Im5_nFLTIfd1Tem-canhOJsOYPrdlVIzIKMnSe922sGHAveYzmWjJs/w210-h321/Beppe-SEVERGNINI-TRIPLI-INTERISMI-RIZZOLI.jpg" width="210" /> <img border="0" data-original-height="1879" data-original-width="1200" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhOFYLh62SMGxziSHFSl3DjBk4jHh6CfYi9oTOXHdGL5Yp2HFFmdAZFqYCgmIEwnizSzTCny6tMxZaeg0Ikdl465m7WpbaT57cS5I7K2y2-gzzg0T589FYDyYpvtTbTFEeDgwrHJACaqxM/s320/eurointerismi-1.jpg" /></div><span style="font-family: arial;"><div style="text-align: justify;">Ora che l’Inter ha rivinto lo Scudetto mi sono passati davanti agli occhi gli avvenimenti, i protagonisti e gli incubi dell’ultima infausta decade nerazzurra: i due passaggi societari (da Moratti a Thohir, da Thohir a Suning), le battaglie per il decimo posto, Inter-Udinese 2-5, il Beer Sheva, il Divino Jonathan, Taider, Kuzmanovic, Shaqiri, Juan Jesus, Mazzarri, Kondogbia. Ora che Antonio Conte ha fatto il miracolo (senza un portiere, senza un esterno sinistro, senza rincalzi e soprattutto senza proprietà), tutte queste cose hanno un sapore agrodolce, ma non hanno chissà quale significato di redenzione: tifare per l’Inter è spesso un incubo, e nessuno si può illudere che una vittoria significhi l’apertura di un ciclo. Anzi. Piuttosto, la vittoria del diciannovesimo scudetto è stata l’occasione per rispolverare i mitici volumi di <i>Interismi </i>di Beppe Severgnini, ormai quattro nel corso degli anni (<i>Interismi</i>, <i>Altri interismi</i>, <i>Tripli interismi</i> e <i>Eurointerismi</i>) e usciti in svariate edizioni antologiche. <i>Interismi</i> è quindi un’opera unica e antologica, un romanzo di formazione, una lettura colta e ironica, che magari non tutti apprezzeranno per la sua pretesa di reagire con il sorriso intellettuale alle sventure patite sul campo di gioco e alla caduta nell’irrazionale. D’altra parte, lo stesso titolo <i>Interismi</i> è abbastanza significativo perché, in fondo, il tifo (soprattutto quello per l’Inter), è isterismo, uno psicodramma che per decenni ha originato (e continuerà a farlo) derisioni e sbeffeggiamenti. La cosa singolare, infatti, è che dell’Inter si ricordano più spesso le sconfitte che le vittorie, perché l’Inter «è una forma di allenamento alla vita»: non appena ne assapori una, devi entrare nell’ordine di idee che non ne otterrai altre per molto, molto tempo. Un po’ «come permettere a un adolescente di baciare una ragazza, e poi dirgli di scordarsi della faccenda fino alla laurea». E spesso queste sconfitte sono solo colpa nostra. La “Pazza Inter” è stata sempre capace di complicarsi la vita, di ottenere vittorie complicate quando sarebbero state invece semplicissime o di cadere in sconfitte rocambolesche, di cocente delusione in cocente delusione: per non parlare di quando vinse ad Highbury contro l’Arsenal 3-0 nel 2003 e poi crollò subito in campionato con immediato esonero dell’allenatore Hector Cuper.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">È perfettamente logico quindi che il libro di Severgnini parta dalle sconfitte più cocenti (il 5 maggio 2002, la semifinale di Champions contro il Milan del 2003) e arrivi al più grande trionfo mai raggiunto da una squadra italiana, il Triplete del 2010, il momento in cui il popolo nerazzurro ha pregustato le gioie della Gerusalemme Celeste e l’Inter è forse diventata una squadra antipatica. In maniera più o meno cronologica (si tratta pur sempre di raccolte di articoli usciti in particolari circostanze) vengono ripercorsi i regni di vari allenatori (il gaucho senza sorrisi Cuper, il realista Zaccheroni, il dandy Mancini, l’irraggiungibile Mourinho), tutti caratterizzati da peculiari caratteristiche umane e professionali. Forse oggi molte cose, come le tirate contro il traditore Ronaldo Coniglio Mannaro o le interviste inventate (ma assolutamente credibili) con Peppino Prisco, oppure la descrizione dei vari giocatori del periodo 2001-2003, diranno poco ai nuovi tifosi che non hanno idea di cosa succedesse ormai vent’anni fa, anche se è sempre geniale la caratterizzazione di Cuper ed Emre come Guglielmo da Baskerville e il novizio Adso da Melk del <i>Nome della Rosa</i> (in un altro punto si dice che Emre è un hobbit). Altrove l’Inter è l’occasione per parlare d’altro, come del campionato argentino dove il nostro ipotizza un gemellaggio con il Vélez Sarsfield, altra nobile decaduta capace di complicarsi la vita da sola; o per stilare classifiche di profili di giocatori dai nomi improbabili come Horst Hrubesch, «scaricatore di porto da 1,88 per 88 chili, fu scambiato per un attaccante. Nel nome il suono di un cingolato-anfibio-trasporto-truppa». Non manca la puntata sul tifo violento (l’omicidio Raciti) e su Calciopoli, cartina di tornasole per capire come funziona l’Italia, il paese dell’indignazione e dell’assoluzione, del “che male c’è a rubare? Tanto lo fanno tutti!” in assenza di qualsiasi scusa da parte dei diretti interessati.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">Perno e origine di tutto è la contrapposizione manichea tra Juve e Inter, «una contrapposizione come Hegel e Kant, Coppi e Bartali, Fellini e Visconti, Usa e Urss, Apple e Microsoft, Beatles e Rolling Stones, yin e yang, caffè e tè, limone e latte». Un’incompatibilità ontologica, che pesa anche sul destino degli allenatori. La Juve è come i cani e Parigi, solida e rassicurante, l’Inter è come i gatti e Londra, fascinosa e imprevedibile. La Juve è Achille (forte, permaloso e furbetto), l’Inter Ettore (bello, valoroso e masochista). La Juve è un investimento, l’Inter una forma di gioco d’azzardo. Gli juventini sono neoclassici e positivisti, gli interisti idealisti e romantici, con una punta di decadenza. La Juve è protestante, l’Inter è cattolica («caduta, pentimento, assoluzione, sollievo, estasi, nuova caduta»). Per questo la vera rivale dell’Inter non è il Milan, squadra metodista che vince i campionati senza neanche accorgersene, ma sempre e solo la Juve: resta l’impressione che la Juve sia l’origine del male, il Sauron del <i>Signore degli Anelli</i> (particolare da non sottovalutare, per un tolkieniano come me), ma allo stesso tempo che sia necessaria. Juve e Inter si tengono vicendevolmente, quasi rappresentassero l’una il lato oscuro dell’altra.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">È ovvio che in simili ragionamenti i tifosi, specie i più stagionati, si ritroveranno, ripercorrendo tappe della loro vita che si credevano dimenticate. Come già notava Nick Hornby, calcio è bello perché, anche nella sofferenza presente, permette di immaginare un lieto fine: ogni stagione è una ripartenza, una promessa di felicità, anche se si ha la sventura di essere interisti. E quel lieto fine è arrivato: la sera di Madrid, il momento più grande in assoluto, difficilmente ripetibile, che ha riconciliato i tifosi nerazzurri con il calcio e con la vita in generale. Anzi, proprio in virtù della sua ironia, ci si rende conto che Severgnini ha sempre posseduto la sicurezza del saggio, visto che già nel 2002, dopo il rovescio del 5 maggio, scriveva: «Quando succederà, sarà bellissimo», e non ha cambiato idea nemmeno quando nel 2003, dopo aver regalato lo scudetto alla Juventus l’anno prima, l’Inter ha consegnato un altro scudetto alla Juve e la Champions League al Milan, dopo essere usciti in semifinale senza perdere. A volte Severgnini appare addirittura profetico quando, nel novembre 2008, scriveva: «Per quanto tempo Mourinho riuscirà a camminare sulla corda tesa attraverso il calcio italiano, tra applausi ed invidia, sguardi d’ammirazione e speranze che, prima o poi, cada di sotto? Non per molto, credo. Ma se in questo periodo vincesse due scudetti e una Champions League, diciamolo: a noi interisti andrebbe benissimo». Ora lasciatemi esultare ancora un po’.</div></span></div><p></p>Paolo Nardihttp://www.blogger.com/profile/08293486674441314828noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5071642644362987316.post-87164330337549468442021-05-04T11:48:00.003+02:002022-01-16T18:21:38.996+01:00Michael Ende - La storia infinita<p style="text-align: center;"> <img border="0" data-original-height="2048" data-original-width="1350" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhTEx5mrCOu_VTXhlTKZ_kOpJecuDBKBI3-Ncn81tMyUefW4OohjUfGr3ayFYEOz7PN_chgEiBag4vCcagwiw9QZwvIH4aX0_Y3FCmFIQMQKnL5L4B6TOLp5bkeHWQQQnStphDr4jT3QJ8/s320/91j9K2kAT7L.jpg" style="text-align: center;" /></p><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">C’è poco da fare, il libro <i>La storia infinita</i> di Michael Ende mi ha stregato da sempre. È uno di quei libri che rivelano qualcosa di nuovo a ogni ulteriore lettura, soprattutto in età adulta. Ne ho già parlato <a href="http://speloncalibro.blogspot.com/2010/11/michael-ende-la-storia-infinita.html">QUI</a> molti anni fa, ma ora l’ho ripreso e riletto da cima a fondo, nella sua meravigliosa veste in due colori (rosso e verde) e coi capilettera meccanici. Diffidate di chi ve lo spaccia come semplice libro per l’infanzia: La storia infinita è molto di più. All’epoca della sua uscita, anni di grande polarizzazione ideologica, Ende venne accusato di escapismo e di non affrontare i veri problemi sociali del lavoro, ma basterebbe leggerne poche pagine per capire che era esattamente il contrario e che parla di noi e del nostro mondo molto di più di quanto potrà mai fare un saggio sociologico. Rispetto a quanto già già scritto, mi sento di evidenziare questi punti:</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">- Il rapporto reciproco e inscindibile tra mondo reale e mondo dell’immaginazione (quelli che Tolkien avrebbe chiamato “mondo primario” e “mondo secondario”): servono persone reali per animare il mondo dell’immaginazione e serve il mondo dell’immaginazione per animare le persone reali. I due mondi si tengono, come i due serpenti che si mordono la coda del medaglione AURYN (un’ellisse con due centri). Un rapporto sbagliato e “drogato” tra questi due mondi fa sì che le creature di Fantàsia nel mondo reale divengano menzogne, ossessioni, incubi, ideologie o trovate pubblicitarie a scopo consumistico (come candidamente spiegato dal lupo mannaro Mork).</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">- La natura ambivalente del mondo fantastico, che dev’essere sia riepilogativa (il Vecchio della Montagna Vagante) sia creatrice (l’Infanta Imperatrice): non è possibile separare i due ambiti, altrimenti ci si condanna a un ripetitivo eterno ritorno o a una creazione priva di fondamento.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">- La chiamata a dare un nome alle cose: i nomi rivelano l’essenza delle cose e permettono una nuova creazione. Bastiano è chiamato a dare un nome alle cose rinnovando Fantàsia, e la stessa cosa siamo chiamati a fare noi, in un infinito gioco metanarrativo che ci fa protagonisti della narrazione nella speranza di essere tra quelli che attraversano entrambi i mondi e li sanano.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">- La necessità di aprirsi all’amore e all’altruismo: se crediamo all’inganno di Xayde che ci suggerisce di raggiungere la saggezza e la grandezza pensando solo a noi stessi finiremo per sperimentare solo delusione e amarezza.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">- Il simbolismo eclettico che mescola diverse tradizioni e religioni: la tartaruga (simbolo della saggezza) che parla di nichilismo e sembra essere al di là della vita e della morte; la Torre d’Avorio dell’Infanta imperatrice che rimanda a un appellativo della Madonna e alle caratteristiche del femminile; le Paludi della Tristezza che ci parlano di depressione; il Drago della Fortuna di provenienza orientale; le sfingi simbolo egizio e provenienti dalla mitologia greca; la prova dello Specchio chiara metafora junghiana; le Acque della Vita che richiamano il battesimo. L’importanza di intraprendere un percorso di iniziazione che getta uno sguardo molto profondo sull’animo umano: Bastiano, bambino sgraziato, con le gambe storte e vittime di bullismo, ha a che fare con le dinamiche del potere, si aspetta stima e prova invidia, scopre cosa c’è nel suo io più profondo, dimostra di avere una vita interiore molto più complessa di quella noi pensiamo tipica di un bambino.</span></div><p></p>Paolo Nardihttp://www.blogger.com/profile/08293486674441314828noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5071642644362987316.post-79481993911817169472021-04-13T14:03:00.004+02:002021-06-10T12:43:15.823+02:00Henry Morton Robinson - Il cardinale<p style="text-align: center;"> <img border="0" data-original-height="2048" data-original-width="1375" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgld18a_l-QpiNAUBi7mfHOn8Ia-u3-7Z54rlL81Y2NG1gVuNLzAIKzMOwE1hfYpOY5AgOGjR67zhTjqlX8mjBJKqhI91bZaKTpZ2zWq9Fam3fKXYU_lT5uoPL4_Gfcypl-vdVq6MvneZw/s320/71NWr-kAUEL.jpg" style="text-align: center;" /> <img border="0" data-original-height="1600" data-original-width="967" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg2A421JQTDKaukKpsb3SaGCJvTe05nqX53PUfaKwNBXCfmSpcBFZkcPItPlSvvKFNvyb2Cb8TDF6WoT7y9peaCLOE_IufQSAX5ybXdWX-HS7I0AcAcJfQfcefnyO_kp_oeb-p28UwaTPc/s320/s-l1600.jpg" style="text-align: center;" /></p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><p class="MsoNoSpacing" style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">Quando ero alle superiori mi sono imbattuto per due volte in uno
strano film, uno di quelli che mandavano in onda la mattina o il pomeriggio, <i>Il
Cardinale</i> di Otto Preminger, che poi ho scoperto essere tratto da un best
seller di Henry Morton Robinson del 1950 presente nella casa di tutti i miei
nonni. Mai e poi mai avrei immaginato che molti anni dopo mi sarei trovato a
farne una nuova traduzione per Fede & Cultura (in uscita il prossimo
autunno) che mi ha costretto a fare i conti con il testo originale e la
traduzione esistente a opera di Maria Galli de Furlani uscita all’inizio degli
anni Sessanta per la Garzanti: come molti libri del periodo, l’edizione
italiana risultava vecchia già per quei tempi e, per giunta, sfrondava parecchie cose, riducendo sensibilmente il testo (già lunghissimo di suo) e
semplificandolo a dismisura. Per esempio, cancellava quasi tutti i
riferimenti alla società e alla cultura americana, soprattutto allo sport
(football e baseball da quelle parti la fanno da padroni), limitandosi a fare
qualche vago parallelo calcistico: in quegli anni gli italiani non erano così
avvezzi a cogliere simili particolari come invece lo siamo noi oggi, sventurati
figli dell’omologante e malvagia cultura anglosassone della globalizzazione. È
interessante però notare come gran parte dei tagli della vecchia traduzione
riguardassero le scene ambientate in Italia durante il fascismo: si era subito
dopo la guerra e forse bisognava tacere molti particolari scomodi, oppure semplicemente
alleviare il ricordo di avvenimenti dolorosi.</span></p><p class="MsoNoSpacing" style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">Chiariamo subito una cosa: non si tratta di grande letteratura, né
di una lettura devota o spirituale: è un bestseller fluviale di 70 anni fa,
lungo quasi 800 pagine, con i suoi pregi e i suoi difetti, profondamente
cattolico, che racconta la vicenda sacerdotale e umana di Stephen Fermoyle
dall’ordinazione fino alla nomina cardinalizia (come si evince dal titolo: il
cardinale è lui). Comincia nel 1915, quando il giovane sacerdote sta
attraversando l’oceano sul transatlantico italiano Vesuvio (era l’epoca dei
transatlantici!) per tornare nella natia Boston. È stato assegnato come vicario
parrocchiale nella chiesa di un sobborgo a forte immigrazione italo-irlandese
dove abita anche la sua famiglia di origine. Da qui viene raccontata tutta la
sua carriera tra speranze, incomprensioni, tentazioni, crisi, dolori: la
formazione filosofico-letteraria di Stephen entra in conflitto con il vescovo
di Boston, che lo considera troppo ambizioso e per questo decide di affidargli
un incarico marginale: occuparsi di una piccola parrocchia franco-canadese per
aiutare un vecchio parroco in difficoltà a causa dell’età e degli acciacchi.
Non solo Stephen si sottomette ma porta a compimento il tutto nella maniera
migliore, tanto da venire preso dallo stesso arcivescovo come segretario
personale e poi suo conclavista (arrivati a Roma dopo una difficile traversata
oceanica, i due riescono solo a osservare da spettatori la fumata bianca per
l’elezione di Pio XI; per il cardinale, che avrà un collasso, è la seconda
volta che succede, ma la terza volta ci riuscirà). Stephen sarà poi assistente
alla Segreteria di Stato, assistente del legato apostolico a Washington,
vescovo a Hartfield, quindi arcivescovo e cardinale fino all’elezione di Pio
XII e a una nuova traversata atlantica che porterà il nuovo cardinale Fermoyle
negli Stati Uniti mentre nuove nubi minacciose preannunciano la Seconda Guerra
Mondiale.</span></p><p class="MsoNoSpacing" style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">Mescolando realtà e immaginazione, il romanzo presenta moltissimi
personaggi reali, storici ed ecclesiastici, come Mussolini, Merry del Val ed
Eugenio Pacelli. Stephen Fermoyle attraversa un intero mondo di varia umanità e
viene a contatto con un’infinità di problemi concreti e situazioni che
riguardano parrocchiani, conoscenti o familiari. Robinson è sempre
attento alle questioni sociali e morali del tempo che spesso investono la
stessa sfera del privato e della famiglia, come si vede nel caso di due episodi
emblematici in cui una donna muore di parto (problema molto sentito all’epoca).
Nel primo, il cognato medico di padre Stephen rifiuta di praticare durante il
parto la craniotomia a un bambino con la testa troppo grossa: per un cesareo è
troppo tardi e quindi la donna muore di parto e muore anche il bambino, e
Stephen difende il medico perché ha agito secondo l’insegnamento della Chiesa
cattolica. Il secondo episodio vede coinvolto direttamente Stephen che si trova
presente quando sua sorella Mona, la sua preferita, sta per partorire dopo che
è fuggita di casa ed è rimasta incinta fuori dal matrimonio: il medico è sempre
suo cognato (ma non il marito di Mona) e, vista la situazione particolare, si
dimostra disponibile a effettuare la craniotomia sul bambino per salvare la
madre e chiede il permesso a Stephen. Questi, preso dalla disperazione, non se
la sente di opporsi alla dottrina della Chiesa. Ovviamente, si vedrà
chiaramente il bene di questa decisione, visto che la figlia che nasce da
questo parto, Regina, riceverà ogni benedizione e si affermerà come incredibile
pianista.</span></p><p class="MsoNoSpacing" style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;"><span style="color: #202124;">Tra le problematiche del tempo, Stephen si ritrova addirittura impegnato in una missione nel profondo Sud preda della miseria e delle scorrerie del Ku Klux Klan, organizzazione che odiava (e credo odi ancora) i cattolici almeno quanto gli afroamericani e gli ebrei: proprio il Klan lo rapisce e lo frusta per fargli rinnegare la sua religione, in una delle scene più drammatiche del libro. </span>Sorprendentemente per il 1950, nonostante una certa critica nei confronti dei protestanti, l’ecumenismo e il dialogo
interreligioso giocano un ruolo molto importante nel romanzo, trovando il
culmine nel congresso di preghiera interconfessionale di New York al quale
Stephen è inviato in rappresentanza del delegato apostolico (il nostro finisce
per sedersi accanto a un solitario rabbino per scoprire di avere molto in
comune con lui). </span><span style="color: #202124; font-family: arial;">Inoltre, come arcivescovo, Stephen
scrive una lettera ai fedeli della sua diocesi ammonendoli a non usare la
contraccezione artificiale e viene immediatamente criticato dal precursore di
Planet Parenthood (è curioso che le critiche contro una Chiesa non al passo con
i tempi da parte della stampa siano le stesse di oggi). </span><span style="font-family: arial;">Ovviamente,
Stephen lotta come tutti contro le tentazioni della sessualità, specialmente
nei confronti della nobildonna romana Ghislana Falerni (dipinta come una specie
di </span><i style="font-family: arial;">femme fatale</i><span style="font-family: arial;">), fino a quando non si reca in un monastero benedettino
per un rigenerante ritiro spirituale sotto la direzione di un monaco sismologo.
</span><span style="color: #202124; font-family: arial;">E non </span><span style="font-family: arial;">manca nemmeno il tema
dell’omosessualità sacerdotale, alluso nel personaggio di padre “Milky” Lyons,
uno dei tre sacerdoti con cui vive Stephen durante il suo primo incarico: non
solo è sempre ritratto come effeminato, ma quasi come se non avesse mai
superato l’adolescenza. Più tardi, centinaia di pagine dopo, quando un gruppo
di cattolici americani (prelati, sacerdoti, religiosi e laici) si reca in
pellegrinaggio a Roma per l’Anno Santo 1925, Stephen chiede notizie di Milky
Lyons al suo ex parroco, il quale risponde: «Ah, povero Milky, è diventato
malinconico tra di noi». E il narratore commenta: «Nella forza resiste chi
resiste. Nella debolezza cade chi cade». Un altro religioso che “cade” nel
corso del romanzo è Lew Day, monaco fallito e chierico della chiesa di St.
Margaret che si occupa di mantenere pulita la parrocchia e rammendare vecchi
paramenti, ostensori, statue, candelabri e corredi sacri: dopo l’apertura di
una scuola parrocchiale affidata a una comunità di suore, Lew Day si ritrova
senza lavoro e, nella disperazione, si impicca. Scene umanamente molto tristi
che in qualche modo restano impresse per il loro esito drammatico.</span></p><p class="MsoNoSpacing" style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">Ma il romanzo è anche e soprattutto una riflessione sulla fedeltà
alla Chiesa cattolica, alla sua dottrina e alla propria patria: Stephen è un
prete coraggioso che si batte personalmente per aiutare il prossimo, dice
sempre quello che pensa ai superiori e ama la democrazia al punto da farsi
grande sostenitore di Pio XI nel cercare la pace mondiale e denunciare il
nazifascismo. Per questo Robinson insiste molto sulla relazione
(difficile e problematica, ma fruttuosa e migliorabile) tra Chiesa americana e
Santa Sede («i due punti di vista devono essere riconciliati. L’energia
americana, istruita e guidata da Roma, potrebbe essere il fattore decisivo dei
difficili anni che si preparano», spiega il cardinale Quarenghi): la democrazia
è la forma politica che maggiormente si avvicina al Vangelo ed è sostenuta dal
Nuovo Mondo, in possesso di un’energia che è ormai sconosciuta alla vecchia
Europa (ricordiamo che il romanzo è scritto da un americano), e per questo Pio
XI intuisce di dover stabilire nuovi ponti con la parte del mondo più vitale ed
emergente. Certo, Robinson cita il cardinale Gibbons e la sua </span><span style="font-family: arial;">“via americana”</span><span style="font-family: arial;"> al cattolicesimo (Gibbons sosteneva che il potere spirituale e il potere politico dovessero restare ben distinti e che il papa non dovesse intromettersi in questioni di carattere temporale) e mette in guardia dalle facili lusinghe del
consumismo e del capitalismo, tanto che mette in scena la Grande Depressione
scaturita dalla Crisi del 1929 e anticipata da funesti presagi in una società
che ha perso il contatto con la realtà.</span></p><p class="MsoNoSpacing" style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">Dal punto di vista formale e linguistico, </span><i style="font-family: arial;">Il
cardinale</i><span style="font-family: arial;"> non brilla certo per innovazione nemmeno nella sua edizione
originaria americana, anzi, si presenta come un romanzo difficile, arcaico e a
tratti legnoso anche per l’epoca in cui è stato scritto. Aggiungiamoci che è
pieno zeppo di termini ecclesiastici e di temi teologici, illustrati con
dovizia di particolari con chiaro intento divulgativo (per non parlare
dell’italiano maccheronico utilizzato a più riprese per dare “colore” alle
scene tra gli immigrati italo-americani o quelle ambientate direttamente in
Italia). La struttura del romanzo non è particolarmente complessa ma presenta
in successione tutta una serie di problemi con il quale Fermoyle si trova ad
avere a che fare (per risolverli brillantemente): Robinson punta tutto sulla
trama e l’investigazione psicologica dei personaggi, con l’efficace trovata di
sublimare tutti i dubbi del suo protagonista attraverso il suo intervento nel
mondo, a sottolineare come il messaggio cristiano sia fatto per calarsi nei
problemi concreti degli uomini: una maturazione spirituale e umana in cui i due
piani si influenzano continuamente e vicendevolmente.</span></p></div><p></p>Paolo Nardihttp://www.blogger.com/profile/08293486674441314828noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5071642644362987316.post-83038484934484999672021-03-24T11:34:00.003+01:002021-03-24T11:34:53.434+01:00Jacques-Henri Bernardin de Saint-Pierre - Paul e Virginie<p></p><div style="text-align: center;"> <img border="0" data-original-height="2048" data-original-width="1263" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiVIpTJKRjTADP-JfuW21P4puVhJY-_ZHH4Bsr6spokKE4RkLEY-lu6rZJhCsXe9HpmJJ4ECJAFq0Tdfgz-yaKLalAcqJV7p1r3k5HjnZEuCv7piPG7n9zIA9ZysWREgfn7P08B6EA2UTY/s320/cop+paul+e+virginie+HR.jpg" style="text-align: center;" /></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: justify;"><span class="s1"><span style="line-height: 107%;"><span style="font-family: arial;">Siete alla ricerca di un bel romanzo edificante, di una storia d’amore pura
e virginale come si facevano una volta? Allora <i>Paul e Virginie</i> potrebbe fare per voi. Scritto da Jacques-Henri
Bernardin de Saint-Pierre alla fine del Settecento e ripubblicato ora da Gondolin
in un’edizione impreziosita da illustrazioni d’epoca, è ambientato in un’isola
remota e incontaminata dell'Oceano Indiano, l'Île de France (Mauritius), dalle parti del Madagascar, all’epoca
colonia francese. I due protagonisti, entrambi figli di madri abbandonate (una giovane
vedova e l’altra abbandonata dall’uomo che l’ha messa incinta) e cresciuti
dalle due donne, nel frattempo divenute grandi amiche per la comune situazione, crescono insieme nell’idillio
naturalistico dell’isola fra banani, nasturzi e tatamachi, e ovviamente si
amano vicendevolmente e castamente finché non intervengono gli obblighi e le
convenzioni sociali dell’odiosa civiltà occidentale: Virginie, avendo una
parente ricca e quindi nobile, deve andare in Francia e sposarsi, un destino
cui nessuno può sottrarsi (infatti viene costretta a partire addirittura dal
governatore locale). Il povero Paul, invece, che non è nobile ma è addirittura
un bastardo, non ha alcuna possibilità di fortuna in Francia. Sarà proprio
questo a trasformare l’idillio dei due protagonisti in dramma, portando a una
tragica conclusione. Sostenitore de pensiero di Rousseau e del mito del buon
selvaggio, Bernardin de Saint-Pierre è sinceramente convinto che sia possibile
vivere felici e innocenti in completa comunione con la natura e circondati
dalla devozione cristiana e dal classico corollario di virtù che ne deriva
(grazie all’attenzione verso gli infelici, le famiglie di Paul e Virginie
ottengono addirittura il rispetto dei ricchi e la confidenza dei poveri). Per
questo contrappone alla classista e schiavista Francia del Settecento la
perfetta eguaglianza esistente alle Mauritius, in cui i padroni sono buoni e
timorati e i servitori negri sono devoti e servizievoli, e insiste con
descrizioni naturalistiche piene di turgore e traboccanti di sentimenti (gli
alberi, i ruscelli, i fiori, le scimmie, gli uccelli). «Non è possibile che un
uomo cresciuto a contatto con la natura capisca le perversioni della società»:
questo spiega il narratore della vicenda, molto scettico sulla possibilità che
i due mondi possano trovare una conciliazione. La critica nei confronti
dell’Ancien Regime non potrebbe essere più netta: solo i nobili possono
accedere alle cariche e ai corpi scelti, i re sono mediocri e si lasciano
consigliare solo da aristocratici senza valore, mentre gli uomini capaci devono
chiedere la loro protezione e mettersi a disposizione delle loro ambizioni e
dei loro vizi. Direi che questo è un aspetto ben più interessante del
sentimentalismo melassoso e sospirante sparso a profusione sulle pagine del
tragico amore di due anime disgraziate. Su Virginie che muore in odore di
santità lasciandosi annegare piuttosto che togliersi il vestito per non perdere
la sua virtù (con il mare che restituisce il suo corpo sepolto nella sabbia,
quasi volesse «rendere l’estremo tributo al suo pudore su quelle stesse spiagge
che la ragazza aveva onorato con la sua innocenza») è meglio sorvolare.</span></span></span></div><p></p>Paolo Nardihttp://www.blogger.com/profile/08293486674441314828noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5071642644362987316.post-63733415646378110772021-03-13T11:53:00.003+01:002021-03-13T11:54:25.809+01:00Scott Lynch - Gli inganni di Locke Lamora<p style="text-align: center;"> <img border="0" data-original-height="1535" data-original-width="1000" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjTjfRJuwHEYEGIqfJVlMFVPA8mvxwlN0JP6JrlmURg3WRcuFjQNLOrI3bDEbC14AjFv2oOdzCywWQu4FHGTndvw7MxBPAeBROXl8r7b2touLzZ1b3IhA-ZnuIR9ibV0iauMoUIHsUXKw8/s320/71YSnBUjQKL.jpg" style="text-align: center;" /></p><p style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;"><span style="line-height: 107%;">Il genere fantasy è
stato spesso frequentato da figure di ladri, spesso gentiluomini, ma mai in
maniera così convincente come nel caso de <i>Gli inganni di Locke Lamora</i> di
Scott Lynch, primo romanzo di una serie intitolata appunto <i>I Bastardi
Galantuomini</i>. È tutto incentrato sulle avventure di Locke Lamora, orfano e
allevato da una specie di Fagin che lo ha venduto a Padre Catena, un sacerdote
che finge di essere cieco e incatenato per spillare donazioni al prossimo. È quindi
cresciuto come ladro, truffatore e trasformista: capace di interpretare molti
personaggi, con uno straordinario talento per escogitare piani contorti, ha
dato vita al nobile sodalizio dei Bastardi Galantuomini insieme ai gemelli Calo
e Galdo Sanza, al giovane Cimice e a Jean Tannen, istruito figlio di mercanti
particolarmente dotato con le asce. Insieme a loro, Locke cerca di mettere a
segno il colpo del secolo, ma i suoi piani non sono destinati ad andare a buon
fine. La sua vicenda si mescola infatti alla storia e alla situazione sociopolitica
di Camorr, la città di ambientazione che dovrebbe ricordare una Venezia
caraibica del Rinascimento modellata con uno speciale tipo di vetro duttile e
luminoso. Qui regna una specie di tacito patto (la Pace Segreta): il potere
chiude un occhio nei confronti del crimine a patto che i malviventi controllino
l’ordine e non rapinino i nobili. Lo scenario ideale per lo stesso Locke, come
da lui candidamente ammesso: </span><span style="line-height: 107%;">«Dei, quanto mi piace
questo posto. A volte penso che tutta quanta la città è stata messa qui
soltanto perché gli dei devono adorare il crimine. I borsaioli rapinano la
gente comune, i mercanti rapinano chiunque riescano a infinocchiare, Capa Barsavi
rapina i rapinatori <i>e</i> la gente comune, la piccola nobiltà rapina quasi
tutti e il Duca Nicovante ogni tanto se ne scappa col suo esercito e rapina Tar
Verrar o Jerem fino alle mutande, <i>per non parlare</i> di quello che fa ai
suoi nobili e alla sua gente comune». </span><span style="line-height: 107%;">Capa Barsavi è il grande capo del sottobosco criminale della città, ma è
costretto ad affrontare l’affermazione del misterioso Re Grigio che realizzerà
un vero e proprio colpo di stato per la conquista del potere e coinvolgerà lo
stesso Locke, in un moltiplicarsi di sorprese e colpi di scena che hanno la
capacità di raggirare il lettore allo stesso modo in cui Locke fa con le sue
vittime: ci fanno convincere di qualcosa e, proprio nel momento in cui siamo sicuri
di aver capito, ci cambiano le carte in tavola, rivelando un quadro più ampio e
complesso.</span></span></p><p style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial; line-height: 107%;">La narrazione viene inframmezzata da una serie di flashback che
raccontano l’iniziazione di Locke nel mondo del crimine e soprattutto la scuola
di Padre Catena, che gli ha insegnato a non dare nell’occhio e controllare il
suo ingegno senza esagerare e alterare l’ordine costituito (</span><span style="font-family: arial; line-height: 107%;">«non c’è
libertà come la libertà di essere sempre sottovalutati»). </span><span style="font-family: arial; line-height: 107%;">Tutto il romanzo è contraddistinto da un ritmo
incalzante, avventuroso e rocambolesco e da dialoghi spigliati e sboccati (che
diventano raffinati quando la situazione sociale si eleva), che danno all'opera
un costante tocco di comicità e leggerezza senza per questo togliere serietà
alle scene più tristi. Le descrizioni e le spiegazioni ci sono ma sono molto
brevi, senza mai prendere il sopravvento: l’autore è molto bravo nel far
sembrare assolutamente normali cose che per noi sono insolite, come la presenza
di tre lune e una diversa variazione tra giorno e notte rispetto a quel che
siamo abituati. Il mondo creato da Lynch è assolutamente credibile e si regge
su leggi proprie; addirittura, immagina vere e proprie feste come la Baldoria
Mobile, dove le persone muoiono combattendo con squali enormi che saltano da
una piattaforma all'altra davanti a un pubblico festante. La gente è abituata
alla violenza, anzi spesso ne è divertita, e ogni gesto è dettato dal
tornaconto personale e non dall’altruismo. C’è anche la magia, sempre utilizzata
a favore del crimine o in funzione del potere. Particolari non messi lì a caso
ma coerenti con il tipo di società che Lynch vuole raccontare, dominata dalla
violenza, dalle vendette e dalle ritorsioni. Tuttavia, questo mondo è
illuminato da sprazzi di umanità: gli eroi di Lynch non sono supereroi senza macchia, ma
truffatori molto umani, pronti a compiere grandi gesti tanto quanto a coprirsi di
ridicolo, che affrontano le difficoltà ironizzandoci sopra, facendosi forza a
vicenda e basando tutto sulla fiducia reciproca. La loro ricerca di rapporti
umani sinceri (come quelli che caratterizzano i Bastardi Galantuomini) sono la
sola speranza di miglioramento di un mondo marcio fin nel midollo.</span></p>Paolo Nardihttp://www.blogger.com/profile/08293486674441314828noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5071642644362987316.post-71295492982117993962021-02-25T11:34:00.000+01:002021-02-25T11:34:19.889+01:00Will Duraffourg, Giancarlo Caracuzzo, Joël Odone - Tolkien. Rischiarare le tenebre<p></p><div style="text-align: center;"> <img border="0" data-original-height="1273" data-original-width="960" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEioLErGmdhabSuGg5S61Bey5VWXHzoC5F-hJVrWcUEGxFZOR7hvK2TvhttnNT1FSO8EZXxTlqrXEFLeyC_XTigOxoeEOUB9BdjHap6NYjXNN-YRuUCOFDxtYpDDa2IvAkKbHxssosYRQaE/s320/Tolkien-Rischiarare-le-tenebre.jpg" style="text-align: center;" /></div><p></p><p class="p1" style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">Non sconvolgerò nessuno se dico che il recente biopic dedicato J.R.R. Tolkien è stato una delusione. Non tanto per l’assenza della religione cattolica, particolare importante nella vita di un supercattolico come Tolkien (bisogna per forza tacere per non scomodare nessuno oppure è possibile rendere interessante la fede anche per chi non ne ha?), quanto per la superficialità con cui vengono affrontati i vari periodi e i temi della sua vita. È un film che contiene al suo interno molti film, senza una vera visione unitaria o </span><span style="font-family: arial;">un’idea forte di regia o di sceneggiatura</span><span style="font-family: arial;">. Tutto è accennato superficialmente senza venire approfondito: la povertà, la differenza di classe, l’amore, la carriera universitaria, la passione per le lingue e la filologia. Ora è arrivata una graphic novel francese, </span><i style="font-family: arial;">Tolkien. Rischiarare le tenebre</i><span style="font-family: arial;">, che racconta la stessa storia del film ma con risultati di gran lunga migliori.</span><span class="Apple-converted-space" style="font-family: arial;"> I </span><span style="font-family: arial;">momenti presi in esame sono gli stessi del film (l’infanzia, la morte della madre, l’amore con la moglie Edith, il college a Oxford, l’esperienza della Prima Guerra Mondiale, fino alla genesi de </span><i style="font-family: arial;">Lo Hobbit</i><span style="font-family: arial;">) ma affronta il tutto in maniera molto più profonda e intelligente (sebbene come fumetto non sia consigliato a chi cerca solo la cosiddetta </span><span style="font-family: arial;">“poesia per immagini”</span><span style="font-family: arial;">). Si tratta di un’opera capace di introdurre anche i profani nella vita di Tolkien, riuscendo a raccontare effettivamente qualcosa di questo autore a livello personale.</span></p><p class="p1" style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: arial;"><br /></span></p><p class="p1" style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">Se nel film tutti i riferimenti alla vita di Tolkien che trovano un’eco poetica nella sua produzione narrativa (come la scena di Edith che danza sotto gli alberi e che ha dato origine alla storia di Beren e Lúthien) erano lasciati cadere, qui ci sono e belli evidenti. Anche qui la religione non fa la parte del leone, e se ne parla poco: si tira in ballo nel caso della madre che morì di diabete dopo aver dovuto affrontare l’ostracismo della sua famiglia a causa della sua conversione al cattolicesimo, oppure se ne fa riferimento quando una statua della Madonna è caduta da un campanile durante la Grande Guerra. Ma c’è anche una scena molto bella, quella in cui John dice Edith di aver finalmente trovato i personaggi a cui far parlare le lingue da lui inventate, gli elfi; Edith chiede che ruolo avrà Dio in tutto questo, e Tolkien le risponde: «Ma Dio ci sarà, naturalmente. Ha creato tutto questo mondo fiabesco come il nostro». Un particolare molto bello perché spiega molto bene il concetto che ha Tolkien della sub-creazione, quel mondo secondario delle storie, dei miti e delle leggende che è direttamente connesso al nostro: è Dio che permette all’uomo di creare questo mondo secondario che andrà a influenzare direttamente il mondo primario, e Dio è sempre presente, perché è Dio sia del mondo primario sia del mondo secondario. Ma c’è anche attenzione per quegli aspetti rivelati da Tolkien nelle lettere, come quando rivela che la scoperta del </span><i style="font-family: arial;">Kalevala</i><span style="font-family: arial;"> finnico per lui «è stato come scoprire una cantina piena di un vino sconosciuto dal gusto straordinario. E me ne sono ubriacato». Oppure quando rivela l’intenzione di legare fra loro tutti i suoi testi (cronachisti e poetici) per dare all’Inghilterra una mitologia: è l’idea di partenza di quello che sarebbe diventato </span><i style="font-family: arial;">Il Silmarillion</i><span style="font-family: arial;">, un processo creativo che non avrebbe mai trovato una sistemazione definitiva fino alla morte del suo autore.</span></p><p class="p1" style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: arial;"><br /></span></p><p class="p1" style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">Rispetto al film, l’amicizia con gli altri tre amici fondamentali per la sua vita, Geoffrey Bache Smith, Christopher Wiseman e Robert Gilson, quelli con cui diede origine al sodalizio “Tea Club, Barrovian Society”, è affrontata molto meglio perché sottolinea la </span><i style="font-family: arial;">fellowship</i><span style="font-family: arial;"> in senso sia umano che letterario. Gli amici continueranno a vedersi e scriversi, anche in trincea: vengono riportate tutte le loro appassionate discussioni sulla vita, l’amore, la poesia, la letteratura, che ci vengono ancora a interrogare sull’importanza e il valore dell’arte e dell’amicizia nella vita di ognuno di noi. Ovviamente ciò avviene in maniera diversa e a seconda delle propensioni di ognuno, perché tra i quattro amici c’era anche chi era musicista mentre Tolkien non era minimamente portato per la musica (come peraltro ammetteva lui stesso). E sempre a proposito di quanto l</span><span style="font-family: arial;">’arte influenzi la nostra vita, l</span><span style="font-family: arial;">’idea fondamentale che questo fumetto passa è la stessa di John Gart in </span><i style="font-family: arial;">Tolkien e la Grande Guerra</i><span style="font-family: arial;">: senza il dramma della Prima Guerra Mondiale, Tolkien non avrebbe mai scritto </span><i style="font-family: arial;">Il Signore degli Anelli</i><span style="font-family: arial;">, </span><i style="font-family: arial;">Lo Hobbit</i><span style="font-family: arial;"> e i miti della Terra di Mezzo, come se la sua narrativa fosse stata il tentativo di elaborare la tragedia che aveva vissuto. Perché, se è vero che Tolkien non combatté mai in prima linea, è anche vero che lui alla battaglia della Somme c’è stato ed è stato impiegato in tutta una serie di operazioni secondarie e di raccordo tra i vari reparti. E ne ha viste di catastrofi: ha visto i lanciafiamme, i gas venefici, le granate, i carrarmati, tutte cose che poi sono state trasposte nei draghi sputafiamme, negli orchi, nei Nazgûl, oppure nella landa desolata di Mordor, riconducibile alla terra di nessuno tra le trincee, e nelle Paludi Morte, piene di cadaveri sprofondati nel fango, gli stessi in cui si era imbattuto Tolkien durante le operazioni al fronte.</span></p><p class="p1" style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: arial;"><br /></span></p><p class="p1" style="font-stretch: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; line-height: normal; margin: 0px; text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">All’interno della narrazione vengono ricordati anche i primi poemi scritti da Tolkien, come la prima poesia <i>Il viaggio di Eärendel</i> (pensiamo al ruolo che avrà il personaggio di Eärendil all’interno del </span><i style="font-family: arial;">Silmarillion</i><span style="font-family: arial;"> e del S</span><i style="font-family: arial;">ignore degli Anelli</i><span style="font-family: arial;">), </span><i style="font-family: arial;">Kortirion fra gli alberi</i><span style="font-family: arial;"> e </span><i style="font-family: arial;">Habbanan sotto le stelle</i><span style="font-family: arial;">, tutti collocati temporalmente in quanto strettamente connessi alle contingenze storiche: anche in questo caso, la letteratura riflette la tragedia di una generazione che si trovò alle prese con il tentativo di dare un senso alla loro esperienza e una via per raccontare quella carneficina difficilmente comprensibile (e comunicabile) a chi non l’aveva vissuta. Insomma, questo </span><i style="font-family: arial;">Tolkien. Rischiarare le tenebre</i><span style="font-family: arial;"> è la prova, se mai ce ne fosse stato bisogno, che Tolkien non scriveva favolette a uso e consumo di adolescenti in fuga dalla realtà, un’epica asessuata per famiglie o saghe per iniziati di massa, bensì che la sua narrativa è una profondissima rielaborazione di un dramma: la perdita degli amici e la rottura della </span><i style="font-family: arial;">fellowship</i><span style="font-family: arial;"> caratterizzata da un profondissimo sodalizio umano e artistico è quella che troviamo nella Compagnia dell’Anello. Il finale è addirittura commovente: Tolkien rivede il suo vecchio amico Christopher Wiseman davanti alla tomba della moglie, una scena inventata che ripercorre e ricapitola tutta la loro vita, tanto che in ogni vignetta i due vengono ritratti a una differente età, segno che tutto si ricapitola, che ogni età dell’amicizia è stata fondamentale per diventare quello che si sarebbe diventati, e non a caso la graphic novel finisce come la citazione di Gandalf: «Tutto ciò che possiamo decidere è come disporre del tempo che ci è dato». Tolkien ha utilizzato tutto il tempo che gli è stato concesso per raccontare quello che ha vissuto, senza riuscirci fino in fondo perché la morte glielo ha impedito. Forse non ci sarebbe comunque riuscito.</span></p>Paolo Nardihttp://www.blogger.com/profile/08293486674441314828noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5071642644362987316.post-60845160554564009732021-02-09T15:52:00.002+01:002021-02-09T15:55:30.236+01:00Frank Brennand - Churchill<p></p><div style="text-align: center;"> <img border="0" data-original-height="2048" data-original-width="1435" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjlCuioMnHisaLuVtTQqpfLDe1Kz_Ocs98XUenQtAGPNDtx2K3yNCv8b9i7l5XTiEpmdwUVu6tUVeNRHlX9Z9I1zGCKu932OX6-fkaHXxzBTVw31e14NrUDxX2RIPLtTi-f-UrA9ogQM2k/s320/Cop+Churchill+HR.jpg" style="text-align: center;" /></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">Eroe e padre della nazione britannica per aver resistito in modo indomito al nazismo sotto i bombardamenti di Londra, riconoscibile immediatamente grazie ai suoi segni caratteristici (il bastone, il sigaro, il farfallino e il cilindro), la figura di Winston Churchill è oggi fatta oggetto delle accuse della <i>cancel culture</i> e del Black Lives Matter che ne vogliono abbattere le statue e cancellare il ricordo in quanto cattivo, razzista e imperialista. Chissà cosa ne direbbero le vestali del politicamente corretto di questa biografia di Frank Brennand che tratta il nostro Winston come una specie di santo. Ovviamente non si tratta di una biografia recentissima, risalendo alla metà degli anni Sessanta, ma piuttosto di una vera e propria agiografia avventurosa che torna oggi alla luce grazie alla nuova edizione di Fede & Cultura e da cui si evince la simpatia sfrenata e incondizionata dell’autore nei confronti del suo protagonista (e l’antipatia nei confronti dei tedeschi, «sempre pronti a calpestare in Paesi stranieri quelle libertà e quelle conquiste sociali che non hanno mai personalmente conosciuto»). In effetti la vita di Churchill fu veramente avventurosa: ufficiale durante il regno della regina Vittoria, protagonista delle guerre coloniali in Africa, Primo Ammiraglio della marina nella Grande Guerra, parlamentare e leader del Partito Conservatore inglese, uomo delle crisi chiamato a risolvere drammatici scioperi, Primo Ministro per ben due volte, premio Nobel per la letteratura. Alcune di queste avventure sono addirittura romanzesche, come quella che lo vide corrispondente di guerra durante le Guerre Boere e guida di una squadra di volontari per rimettere un treno dotato di cannoni sui binari. Brennand realizza un racconto agile e divulgativo basato sulle testimonianze, le dichiarazioni e gli articoli dell’epoca, cosa indovinata se si pensa al fatto che Churchill è famoso per il sarcasmo e le dichiarazioni al vetriolo, e riesce a restituire un’immagine molto fluida e animata della politica inglese attraverso le sue elezioni e i suoi dibattiti (fantastico il parlamentare che, dopo un discorso di Winston, si alzò per dichiarare: «Qui termina l’ultimo capitolo del libro del profeta Geremia!»). Dove Brennand pecca è, come detto, nella profondità di analisi, facendo prevalere la sua partigianeria e affrontando di petto le critiche storiografiche (che si possono muovere anche nel caso di un personaggio di simile grandezza): se Winston non aveva sempre ragione, poco ci mancava. Il fiasco dei Dardanelli della Prima Guerra Mondiale? Un piano geniale di Winston vanificato da politicanti pavidi e pasticcioni. La gestione fallimentare della coscrizione obbligatoria e della guerra di trincea? Una cosa prevista da Winston, che invece aveva già pensato a un esercito mobile professionista. La soluzione del caso irlandese con la divisione tra il nord e il sud dell’isola? Una grande mossa di realismo politico in anni in cui bisognava dedicare le proprie forze ad altro. La sua opposizione a Gandhi e all’indipendenza dell’India? Una responsabilità di fronte agli stessi indiani di non lasciare l’India nelle mani dei bramini e di chi aveva interesse a sfruttare il lavoro. A volte Brennand ammette timidamente delle incertezze nella condotta del suo eroe, come nel caso del suo operato di cancelliere (che non fu abile ma comunque energico) o delle sue opinioni riguardo agli scioperi (da lui spesso visti come tentativo eversivo di rovesciare il governo legittimo), ma sempre ne sottolinea la buona fede e il ruolo di leader e comandante carismatico, in trincea come alla Camera dei Comuni. Umano e buono, Churchill era per Brennand un individualista solidale con i più poveri; conservatore ma membro di un governo liberale, non si sottomise mai alla linea del partito e lasciò polemicamente i liberali quando si allearono con i laburisti e tornò con i conservatori. La sua capacità di previsione gli guadagnò la fama di guerrafondaio, ma era solo il risultato della sua insofferenza per il mantenimento della situazione. In alcuni casi non fu solo lungimirante ma addirittura profetico, come nel caso dell’attenzione riservata alla guerra aerea che secondo lui avrebbe coinvolto i centri abitati, gli snodi ferroviari e la flotta: Churchill era di certo un sostenitore della necessità di armarsi e farsi trovare sempre pronti a ogni necessità o calamità. Ebbe ragione anche nella sua convinzione che Hitler non si sarebbe fermato di fronte a nulla e che avrebbe scatenato una guerra. A questo proposito Brennand esprime un pessimo giudizio su Chamberlain, accusato di posizioni eccessivamente accomodanti e pacifiste (il cosiddetto <i>appeasement</i>), mentre è bene dire che le ultime tendenze della storiografia tendono a rivalutare il suo operato, volto a prendere tempo visto il ritardo dell’Inghilterra nel riarmo e la sua impreparazione a sostenere un’altra guerra dopo lo sforzo del primo conflitto mondiale. Da sottolineare che Brennand parla degli inglesi sempre al “noi” e si riferisce all’esercito britannico come il “nostro”: un libro scritto da un inglese per inglesi, fieri di annoverare tra le proprie file un personaggio come Churchill che si definiva “impenitentemente inglese”.</span></div><p></p>Paolo Nardihttp://www.blogger.com/profile/08293486674441314828noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5071642644362987316.post-70494453801864729812021-02-09T11:42:00.001+01:002021-02-09T12:18:20.487+01:00Susanna Clarke - Piranesi<p style="text-align: center;"> <img border="0" data-original-height="2048" data-original-width="1346" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhH73TdW0wsLJm_Wc6p6U8b-hEz3YpTmTBTUSh97b6DdV9i_h64rKoruUzctWkG8GfKmN_7BDm2b-thq6BqujCfwXoSzhxrY7As9MhRDXBHnUPH7Iy5qQz39iuztHNI5W0ZffVMznk5Rv0/s320/piranesi.jpg" style="text-align: center;" /></p><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">Ho profondamente amato <i>Jonathan Strange & il signor Norrell</i>, folgorante debutto di Susanna Clarke che raccontava la rivalità di due maghi in una realtà alternativa durante le guerre napoleoniche e mescolava in maniera sensazionale il fantasy, romanzo gotico, la letteratura romantica, Charles Dickens, Jane Austen, Lord Byron e la <i>comedy of manners</i>. È facile quindi immaginare quanto attendessi il nuovo romanzo della Clarke, <i>Piranesi</i>, scritto a ben 16 anni di distanza dal debutto. Sulle prime è un’opera che lascia spiazzati e storditi perché è tutto ambientato in un universo parallelo costituito da una misteriosa Casa nella quale si trova il nostro protagonista, un personaggio molto particolare che non ha ricordo né del suo nome né della sua storia, e per questo molto confuso riguardo alla sua persona. Vive in simbiosi con la Casa, che è fatta di svariati ed enormi saloni che sono come un labirinto e allo stesso tempo un museo: delle imponenti scalinate conducono a saloni superiori dove ci sono delle nubi immense che danno origine a precipitazioni da cui Piranesi riesce a ricavare l’acqua; i saloni inferiori invece sommersi dal mare e nelle loro acque Piranesi riesce a pescare, altre stanze sono state abbandonate. In tutta la Casa, che è abitata anche da uccelli, ci sono arredi e statue raffiguranti concetti e situazioni di vita che non hanno riscontro nell’esperienza di Piranesi, il quale può solo affidarsi all’immaginazione o alla logica.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">Piranesi scopre sempre più cose del mondo che lo circonda, giorno per giorno, e annota ogni sua scoperta nei suoi diari con l’approccio dello studioso se non addirittura dello scienziato. Il suo è l’approccio tipico dell’esploratore che si basa su ciò che vede, come d’altronde ben chiarito dall’esergo del romanzo tratto da <i>Il giardino segreto</i> di Laurence Arne-Sayles: «Studio ciò che è stato dimenticato. Scopro ciò che è completamente scomparso. Lavoro con le assenze, con i silenzi, con le curiose fratture fra le cose». C’è anche una datazione all’interno dei suoi diari, che si evolve in un sistema basato su determinati eventi avvenuti all’interno della Casa (il nono giorno da quando l’albatro è arrivato nel tale salone). Ben presto scopriamo che c’è un altro abitante della Casa, chiamato l’Altro, molto più anziano, austero e signorile: Piranesi si confronta con lui incontrandolo in determinati giorni della settimana e poi annota diligentemente tutto nei suoi diari. È quest’altra entità a donare al protagonista un nome, Piranesi appunto, connesso all’incisore Giovan Battista Piranesi, autore delle immaginifiche e labirintiche <i>Carceri</i>; l’Altro però comincia anche a instillare dei dubbi sulla natura del loro rapporto e della Casa stessa, tanto che Piranesi appare come una cavia o l’oggetto di studio di uno strizzacervelli.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">La Casa ha dunque due abitanti ma in origine erano quindici: attraverso i diari di Piranesi scopriamo questi individui che lui ha rinominato sulla base delle sembianze dei loro scheletri e degli oggetti che sono stati ritrovati accanto (l’Uomo Scatola-di-Biscotti, l’Infante). A un certo punto compare un nuovo personaggio, “16”, che l’Altro avverte come cattivo e ostile. Progressivamente, la realtà si mescola all’onirico facendo irruzione nella Casa attraverso le pagine dei diari di Piranesi, il quale non ricorda nemmeno di averle scritte: è lui ad aver appuntato nomi e storie reali che fanno riferimento a personaggi del nostro tempo, attraverso cui entrano nella vicenda elementi mystery e thriller. Che cos’è la Casa? Una dimensione alternativa? Il Bosco tra i Mondi delle <i>Cronache di Narnia</i>? La caverna di Platone? Una prigione? Un ospedale psichiatrico? Uno stato alterato della mente? Piranesi è un romanzo e una riflessione sulla mente umana, la pazzia, la memoria, la solitudine, l’isolamento, la ricerca di qualcosa di diverso dal presente ma più grande del passato, e allo stesso tempo sull’identità, sulla sua costruzione e la sua riscoperta.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: arial;">Molte sono le citazioni letterarie, con le quali il testo stabilisce delle connessioni, a cominciare dall’albatro preso dalla <i>Ballata del Vecchio Marinario</i> di Coleridge e anche qui presagio di cambiamento, per arrivare fino al <i>Nipote del mago</i> di C.S. Lewis, citato sia in apertura («Io sono il grande studioso, il mago, l’adepto, che sta </span><i style="font-family: arial;">compiendo</i><span style="font-family: arial;"> l’esperimento. È ovvio che abbia bisogno di cavie») sia nel nome del mago Ketterley. Lo stile della Clarke è stratificato, evocativo, stravagante e filosofico, perfetto per riflettere l’approccio da pensatore del protagonista, il suo spaesamento ma anche il suo tentativo di dare un senso al tutto, cui corrisponde una narrazione frammentata e pseudoscientifica che fornisce le tessere di un puzzle da comporre. Nella prima parte non si capisce niente (le domande sono tante ma le risposte sono poche), mentre nella seconda parte si assiste a un’accelerazione degli eventi e delle rivelazioni, anche se la Clarke è molto attenta a non fornire mai una risposta univoca, lasciando al lettore la possibilità (e il piacere) di stabilire le connessioni tra i personaggi e gli avvenimenti a seconda delle proprie impressioni. È un romanzo che richiede veramente molto al lettore ma è capace di premiarlo, invogliando a una seconda lettura, per scoprire ancora più particolari che, ovviamente, la prima volta non si sono notati.</span></div>Paolo Nardihttp://www.blogger.com/profile/08293486674441314828noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5071642644362987316.post-90661675552909442672021-01-30T14:31:00.003+01:002021-02-07T01:01:52.089+01:00Jay Kristoff - Nevernight. Mai dimenticare<p style="text-align: center;"> <img border="0" data-original-height="2048" data-original-width="1418" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhH6a_T2WBfj_0ovCBVtShqN673TpF1XBnCy9MmKPcIHCXjCOXhZ2X5kRwpxHwtDB6GY1YS1rmBkFALPysXYxFpFC4g1PI3WjKdEOxOHHsw-G6Y44CsVqAwo4N1fyjHXhnbZ_H8el49cWg/s320/91o4FBRvXeL.jpg" style="text-align: center;" /></p><span style="font-family: arial;"><div style="text-align: justify;">Una ragazza che sussurra a un ragazzo (ovviamente bellissimo) «Fottimi...» e che poi lo avverte, «caldo e così meravigliosamente duro, che premeva contro la femminilità tra le sue gambe. […] Lui era dentro di lei – <i>l'arnese</i> era dentro di lei – così duro e reale che non riuscì a trattenere un urlo e si morse il labbro per smorzare quella piena». Non è un porno ma il primo capitolo di <i>Nevernight</i>, acclamata trilogia fantasy di Jay Kristoff: l’immediato parallelo tra la deflorazione della protagonista e il suo primo assassinio fa venire i brividi e l’imbarazzante sospetto di trovarsi al cospetto di una vera e propria trashata. L'opera, editorialmente eccelsa e tradotta in italiano in maniera esemplare, racconta la storia di Mia Corvere, novella Arya Stark del <i>Trono di spade</i> (o Ezio Auditore di <i>Assassin's Creed</i>) che, a soli dieci anni, si è già vista giustiziare davanti agli occhi il padre per impiccagione sulla pubblica piazza ed esserle sottratto il resto della famiglia (madre e fratello più piccolo, gettati entrambi in carcere). Il padre infatti è stato accusato di alto tradimento nei confronti della repubblica di Itreya per aver tentato di rovesciarla. Ecco quindi che Mia, ripetendo i nomi dei responsabili del complotto (tale e quale ad Arya Stark), viene allevata come una figlia dal mentore Mercurio ed entra nella Chiesa Rossa, un’accademia dove si insegna ad alcuni eletti a diventare i più grandi assassini in nome della Signora dell’Omicidio Benedetto, una delle divinità dimenticate della notte dedita al culto del sangue, dell’omicidio e del sacrificio. Oltre all’omicidio in quest’accademia si viene iniziati anche all’uso dei veleni (e dei relativi antidoti) e all’arte della seduzione: la cosa interessante è che si tratta di un luogo spietato in cui però si vivono le tipiche dinamiche adolescenziali, tra amori, rivalità, gelosie e scazzi. Ovviamente, Mia scopre anche l’amore grazie a Tric, un accolito che sotto la scorza dell'assassino nasconde un animo buono. Nella seconda parte viene introdotta una componente gialla con Mia accusata dell'omicidio di una compagna; poi, quando di fatto Mia si ritrova fuori dalla gilda perché si è rivelata non una spietata assassina ma una tenerona, nell'ultima parte succede di tutto, con la nostra eroina che si ritrova a difendere la Chiesa Rossa da una cospirazione politico-religiosa e dall'attacco dei Luminatii (i soldati della legione agli ordini della repubblica). In tutte le sue avventure, Mia viene accompagnata da Messer Cortese, un gatto (o meglio, un non-gatto) fatto di ombre che beve la sua paura e la rende intrepida (a differenza dei Dissennatori che in Harry Potter succhiano la felicità): la conosce, cresce con lei e di fatto costituisce la sua coscienza, uscendosene con frasi e risposte pungenti, sarcastiche e inopportune.</div><div style="text-align: justify;"><br /></div><div style="text-align: justify;">La storia ci viene narrata da un narratore onnisciente che ci dice subito che Mia Corvere è morta e che interviene all'interno della sua narrazione, anche nei momenti più avvincenti, con una serie di note per spiegare il mondo e il <i>lore</i>, spesso in maniera molto caustica e con un effetto straniante rispetto al testo vero e proprio. Lo stile di Kristoff è esagerato, eccessivo e barocco, all'insegna di sangue, violenza, volgarità e sesso esplicito (molto belle le esclamazioni da lui inventate e ripetute per tutta la narrazione «Denti della Mannaia» e «Oh, Figlie»). Il romanzo è costituito quasi esclusivamente da azione e dialoghi mentre è del tutto provi di descrizioni ambientali (cosa tipica del fantasy di oggi): anzi, le uniche descrizioni sono quelle, crude e interminabili, delle scene di sesso, che possono risultare abbastanza gratuite. Ci sono molte scene di impatto, come quelle delle torture o degli sgozzamenti, o come quella in cui lo Shaiid Solis stacca di netto a Mia il braccio. Tutto questo rende <i>Nevernight </i>un romanzo non per ragazzi, sebbene possa apparire come uno Young Adult abilmente camuffato. Il mondo di Kristoff è uno strano calderone di fantasy e horror con un po' di magia e i mostri (il cracken) in un'ambientazione a metà tra la repubblica della Roma antica e il Rinascimento. Nel suo mondo non esiste la notte, visto che ci sono tre soli che si alternano nel cielo e creano l’effetto chiamato Illuminotte; solo una volta ogni due anni e mezzo c’è un’eclissi di sole e riesce a esserci un periodo di buio. È lampante come, già a partire da questa divisione giorno/notte, nella città di Godsgrave (nome di grande effetto) ci sia c'è una battaglia tra luce e ombra: i soli sono collegati ad Aa, il dio che tutti venerano e che si contrappone alla dea della notte, Niah, la madre che venera la Chiesa Rosa. L’ambientazione è dunque molto ambiziosa e parte integrante del conflitto teologico-politico in atto in una società marcia nel profondo ma, essendo questa una trilogia, ancora si capisce poco (mi immagino che numi vengano offerti nei due successivi volumi), anche riguardo al ruolo delle ombre in tutta la vicenda.</div></span>Paolo Nardihttp://www.blogger.com/profile/08293486674441314828noreply@blogger.com0